365 giorni, Libroarbitrio

in frigo, ad aspettare – Lié Larousse

ramona-zordini

.ah! se fossi io
l’innamorata tua,
non starei a pensare
al letto da rifare
i piatti la spesa
la casa da rassettare,
il cellulare le applicazioni
e il selfie con le amiche da scattare,
né giacca cravatta
o abiti da operaio ti farei indossare,
e le ore poi perderle a contare
come meglio sarebbe
questo e quello impiegare,
ma me ne starei nel letto
tutto il giorno disfatto
a farci fare dall’amore
io di te tu
tu di me io
mentre gli avanzi degli avanzi
geneticamente mutano
in frigo
ad aspettare.

365 giorni, Libroarbitrio

Emile Zola – Germinal

Oleg Oprisco

Nella pianura rasa, nella notte senza stelle, d’una oscurità fitta come d’inchiostro, un uomo, solo, percorreva la strada che da Marchiennes va a Montsou, dieci chilometri di massicciata che tagliavano dritto attraverso i campi di barbabietole. Non vedeva davanti a sé nemmeno la terra nera, e non s’accorgeva dell’immenso, piatto orizzontale che per i soffi del vento di marzo, delle folate larghe come quelle che trascorrono sul mare, gelate per aver spazzato leghe di paludi e terre desolate. Nemmeno l’ombra di un albero macchiava il cielo, la strada si snodava dritta come una diga, nella caligine accecante delle tenebre.
L’uomo camminava a grandi passi, tremando sotto il cotone liso della sua giacca  e dei suoi pantaloni di velluto, piuttosto impacciato da un fagottino, legato in un fazzolettone a quadri. Egli se lo stringeva contro i fianchi, ora da una parte, ora dall’altra, per poter cacciare in fondo alle tasche le due mani insieme, mani pesanti che la sferza del vento di levante faceva sanguinare. Camminava così da un’ora, quando a sinistra, a due chilometri da Montsou, scorse dei fuochi rossi, tre bracieri bruciavano all’aria aperta, come sospesi a mezz’aria. Dapprima esitò, preso da timore; poi non poté resistere al bisogno doloroso di scaldarsi un istante le mani.
Un sentiero infossato si spingeva verso l’interno.
Tutto disparve.
L’uomo aveva a destra una palizzata, una specie di muro di grosse tavole che chiudeva una strada ferrata; mentre a sinistra s’innalzava un terrapieno erboso, sormontato da una confusione di comignoli, uno scorcio di villaggio dai tetti bassi e uniformi.
Fece circa duecento passi.
Di colpo, a una svolta del sentiero, i fuochi riapparvero più vicini, senza che egli potesse comprendere come mai bruciassero così in alto nel cielo smorto, come lune fumiganti. Ma, al livello del suolo, un altro spettacolo lo aveva fatto fermare. Era una massa pesante, un mucchio di costruzioni schiacciate, da cui si drizzava l’ombra di una ciminiera d’officina; rare luci uscivano dalle finestre dai vetri sporchi, cinque o sei lanterne erano appese di fuori, sospese a dei travi il cui legno annerito faceva intravedere  vaghi profili di cavalletti giganteschi; e da questa apparizione fantastica, immersa nel buio e nella nebbia, una sola voce si levava, il respiro lungo e pesante di una macchina a vapore che non si vedeva.
Allora l’uomo riconobbe un pozzo. Fu ripreso da un senso di vergogna: a che sarebbe servito ? Lavoro non ce ne sarebbe stato. S’arrischiò in fine a scalare il terrapieno su cui bruciavano i tre fuochi di carbone, nei bracieri di ghisa, per riscaldare e far luce agli uomini addetti al lavoro.
<< Buon giorno >>, disse egli, avvicinandosi ad uno dei bracieri.
<< Buon giorno >>, rispose un vecchio. Un pezzo d’uomo rosso di capelli.
Poi silenzio. L’uomo che si sentiva guardato con occhio sospettoso, disse subito il suo nome.
<< Mi chiamo Etienne Lantier; sono macchinista…Non c’è lavoro qui? >>
Le fiamme lo rischiaravano; doveva avere ventun anni, molto bruno, bel ragazzo, d’aspetto forte, sebbene minuto di membra.
Più in là, si mostrava nel buio, di cui il giovane aveva indovinato i tetti, il villaggio dei Deux-Cent-Quarante dormire sotto la notte nera, in mezzo ai campi di grano e di barbabietole. In casa Maheu, al numero 16  del secondo isolato, nulla s’era mosso: tenebre spesse affogavano l’unica camera del primo piano schiacciando quasi col loro peso il sonno della gente ch’era là ammucchiata, a bocca aperta, sfinita dalla fatica. Malgrado il freddo vivo del di fuori, nell’aria pesante c’era quel calore animale, quel soffoco caldo che odora di gregge umano.
Suonarono le quattro all’orologio a cucù del piano terreno. Catherine s’alzò, d’un tratto. Immersa nella stanchezza, aveva contato per abitudine i quattro rintocchi, che venivano attraverso il solaio, senza trovare la forza di svegliarsi completamente. Poi, colle gambe fuori dalle coperte, andò tastoni, fregò un fiammifero, e accese la candela; ma restava a sedere colla testa tanto pesante che le si rovesciava  fra le spalle cadendo al bisogno invincibile di ricascare sul cuscino. Catherine fece uno sforzo disperato. si stirava, ficcava le mani nei suoi capelli rossi che le ingarbugliavano la fronte e il collo. Del suo corpo sparuto di sedici anni, non uscivano dalla camicia che dei piedi macchiati di azzurro, come tinti di carbone, e delle braccia delicate d’una bianchezza lattea, che contrastavano colla tinta smorta del viso, già guasto dalle continue lavature di sapone nero. Un ultimo sbadiglio le aprì la bocca un po’ grande, dai denti superbi, splendidi nel pallore clorotico delle gengive, mentre i suoi occhi lagrimavano per la lotta col sonno, con un’espressione dolorosa e straziante, che pareva riempisse di stanchezza la sua nudità interna.
Ma un grugnito arrivò dal corridoio, la voce grossa di Maheu balbettava:
<< Sacro Dio! è l’ora…Sei tu, Catherine, che accendi? >>
<< Sì, babbo…ha suonato ora da basso>>
<< Spicciati dunque, fannullona! Se domenica tu avessi ballato meno, ci avresti svegliato prima…Eh, va là è una bella vita!>>
E continuò a brontolare; ma il sonno lo riprese e i suoi rimproveri s’ingarbugliarono e si spensero in un nuovo russare.
Catherine infilò i suoi calzoni da minatore, si mise la giacchetta di tela, legò il berretto azzurro intorno ai capelli raccolti, e in questo  abbigliamento pulito del lunedì, aveva l’aria di un ragazzo, altro non le restava del suo sesso che il dimenarsi leggero dei fianchi.

365 giorni, Libroarbitrio

“Er puggile sonato” Lollo

Giovanni-Segantini-L-ultima-fatica-del-giorno

Era stato a’n pugno esatto dalla gloria

a solo ‘n passo dar diventà er campione:

co’ l’avversario ormai ito ‘n confusione

sur ring danzava già gustanno la vittoria.

Ma quanno che c’hai troppa confidenza

è lì ch’er diavolo t’aspetta come n’amante:

er rivale che partì disperato co’n montante

e pe’ culo je corpì er mento de potenza.

Fu cappaò brutto, cadde a terra come morto

e quer botto je segnò pe’ sempre la cariera,

nun s’ariprese più: nun ce fu modo né maniera

se diede ar clandestino: de sordi stava a corto.

Quante botte prese: troppe, pe’ ‘n’unico marpione,

insino a che divenne mezzo sciroccato

fu chiamato lo scemo der rione: lo sbroccato,

e nessuno più s’aricordò de quer campione.

E borbottando pe’ li vicoli, solitario s’aggirava

perso ner passato come ‘na mosca nella giada

li rigazzini  lo piaveno a serciate pe’ la strada,

ma lui nun li sentiva: in se stesso camminava.

Lavorava come ‘n pazzo come manovale,

senza fa ‘n fiato: ‘n culo come ‘n secchio

a sera ‘n casa faceva er vuoto fronte specchio

sognandose quer ring, co’n fottuttissimo rivale.

Fu ‘na vorta ‘n strada: s’allenava a dà cazzotti

che se dimenticò der monno e venne circondato

da ‘n gruppo de coatti, branco losco e malandato:

tutti contro uno, quei balordi così s’erano ridotti.

“Ah ecco er puggile sonato!!” urlavano sguaiati

tutt’intorno a quer poraccio ridendo come pazzi,

lui sei li guardava: nun capiva quei schiamazzi,

poi un coatto uscì dar cerchio: de quelli palestrati.

Se mise ‘n guardia cor soriso fra li denti

grosso come n’cristo gustanno già er pestaggio,

er puggile sonato se squadrava quer servaggio

insino che ‘ntese ‘n gong che lo mise sull’attenti!

Era stato uno dei coatti a corpì er palo della luce

pe fa’ lo scherzo come de n’inizio de n’incontro

nun sapeva d’avè dato er via a quello scontro

riportanno quer diavolo ar passato: quello truce.

Er pubblico all’intorno, er sono de campana:

er mec era iniziato, se fece serio, concentrato

nun avrebbe perso n’antra vorta, assicurato,

già studiava er suo rivale co’ carma disumana.

Er coatto se fece avanti senza n’attenzione,

pensando de combatte con misero micetto,

nun aveva ancora afferato quer concetto:

che avevan tramutato er micio in un leone.

Tranquillo er coatto partì de dritto, senza slancio

er pugile sonato già lo vide ‘n lontananza:

uscì da quell’attacco con massima eleganza

tronco verso er basso, ‘ncrociò partì de gancio.

Fu na bomba in piena faccia: ‘na mina…

se sentì ‘no schiocco de mascella

er coatto se sciolse come ‘na frittella,

e cadde a terra, stecchito dalla crina.

Er coattume, basito più nun se moveva

er puggile cadde in ginocchio braccia ar celo

aveva vinto quell’incontro co’n gran zelo

rimasero in silenzio, nessuno più rideva.

Ar processo ar poro puggile je diedero ‘na venti

ma lui manco ce badava: oramai era partito

la fece franca ‘nvece er gruppo de coatti inebedito

e furon dichiarati tutti  innocenti…

…che in questo monno Giustizia è rara mercanzia

e purtroppo esse ‘n gruppo de dementi nun è reato

nun se po’ giudica  er tasso de idiozia

antrimenti mezzo monno anderebbe carcerato.