E’ un onore per me essere la Testimonial di I,Witch “I gioielli della conoscenza” di Sara Teodori. Dal valore inestimabile per la loro forza energetica che donano una volta indossati, sono gioielli per l’anima, rigenerano l’energia interiore e purificano i pensieri, grazie ai messaggi dedicati su ogni modello per te che li indosserai.
Se siete a Roma questo fine settimana cogliete l’occasione del Green Market Festival per andare a scoprire tutta la collezione completa!
L’Otto marzo è alle porte, si respira nell’aria, nei primi fiori che sbocciano tenaci, nonostante il freddo e la pioggia che arriva quando meno te lo aspetti, si sente nell’eco dei passi di una bambina e un bambino che hanno appena imparato a camminare, è una musica lontana, un concerto, anche se c’è chi ancora fa finta di non sentire.
Nonostante secoli di buio, violenza e negazione dell’identità della donna, c’è qualcosa che sta cambiando, c’è una rivoluzione silenziosa alla quale siamo tutte e tutti chiamati a partecipare, con tutto il cuore che serve. Ci stiamo riprendendo la libertà di Essere, di fare, di creare, libere da biechi stereotipi culturali che, frutto di menti malate, ammalano persino le acque delle fonti più limpide; stiamo riuscendo a rischiarare l’aria, sporcata da una fitta coltre di nero fumo che per poco non ci ha reso ciechi. Stiamo tornando a quell’infanzia del mondo, o “vera maturità ”, forse, agli albori della storia dell’umanità , quando bastava un fuoco intorno al quale parlare per volersi bene e tre o quattro colori per dar vita a vere e proprie opere d’arte. Mi riferisco all’arte rupestre delle grotte di Altamira, per esempio, ormai ampiamente riconosciuta come opera delle donne che, lontane dalla caccia e vicine alla vita, davano voce alla loro dimensione interna attraverso delle immagini che sono molto più che semplici “raffigurazioni” della realtà materiale a loro nota, sono la rappresentazione del loro e del nostro mondo interno.
La letteratura è uno dei campi, fra i tanti, in cui le donne hanno da sempre dovuto lottare con le unghie e con i denti per affermarsi. Anche solo farsi leggere da un parente era una sfida: per secoli abbiamo lottato per poter essere riconosciute come scrittrici, per essere giudicate sulla base della bellezza della nostra penna e non sulla base della biologia dei corpi. Infiniti sono stati i tentativi di negare alla donna la parola e, dunque, la scrittura, eppure la realtà è che la prima poesia della storia dell’umanità fu scritta da una donna, Enḫeduanna (XXIV secolo a.e.c.) e dopo di lei alto si è levato il canto della poesia e della scrittura femminile in generale, nonostante i silenzi imposti, le carte bruciate, i meriti negati, e le mani sugli occhi per non leggere quelle parole così vive da far tremar le vene e i polsi. La letteratura italiana, nello specifico, vanta tantissime scrittrici, il problema è che sono state considerate perlopiù come “penne di Serie B”, non degne di nota, e basta aprire una qualsiasi antologia letteraria per rendersene conto: delle donne non resta che uno smorto specchietto a fine pagina, in basso a destra, quasi nascosto, dopo capitoli e capitoli dedicati al D’Annunzio di turno. Tanti sarebbero i nomi da elencare, anzi, non elenchi ma veri e propri approfondimenti, pagine e pagine da dedicare a chi delle pagine ha fatto la propria vita, ma oggi voglio parlarvi di una in particolare, una vera pioniera: Sibilla Aleramo (Rina Faccio, 1876- 1960).
Sibilla Aleramo
Sibilla Aleramo è l’autrice di una vita che si fa opera letteraria con il titolo “Una donna” (1906), ad indicare l’universalità di una condizione ingiusta alla quale ribellarsi. Con grande coraggio, mette nero su bianco la sua esperienza: lo stupro a soli 15 anni, la gravidanza non voluta, il matrimonio riparatore (legge infame del nostro “Bel paese”, abolita solo nel 1981), l’asfissia tra le mura domestiche, vera e propria prigione, la violenza silenziosa, ma altrettanto dolorosa, della continua negazione della propria identità , delle continue imposizioni e, alla fine, la scrittura come mezzo per Resistere e per Essere e, dunque, per affermare il proprio diritto all’ autodeterminazione, il diritto di dire “No”, costi quel che costi.
Ho letto su diversi testi che “Una donna” è un romanzo che “tutte le donne dovrebbero leggere” e senza dubbio è così, ma penso che anche gli uomini dovrebbero farlo, anzi, sarebbe molto importante che lo facessero, quasi quanto lo sarebbe smetterla di stigmatizzare la “scrittura femminile”, quasi fosse un genere a parte, un genere da “salotto” e pagine rosa al profumo di violette e bucato appena lavato. La Scrittura è scrittura non serve aggiungere altro, è per questo che bisogna iniziare a cambiare il Pensiero, e con esso le Parole: trovare quelle giuste, scavare nella loro profondità e, se serve, dargli nuovi significati.
L’esercizio di scrittura dell’Aleramo è un potente mezzo di conoscenza ed autoconoscenza, un susseguirsi di riflessioni sui grandi temi universali, sulle responsabilità degli uomini, ma anche delle donne che spesso si lasciano vincere senza nemmeno tentare di vivere davvero, quasi la loro condizione fosse una cosa naturale. “Una donna” è vecchio di più di un secolo, eppure leggendolo non ci si sente così lontani, forse ci si sente fin troppo vicini: è un testo trasparente, comprensibile, ed in ciò risiede tutta la sua grandezza e la nostra miseria. L’Aleramo conserva una bellezza di fondo che le permette di tendere verso ciò che tutto muove e tutto forma, il senso stesso di essere qui: “L’amore fu la ragione della mia esistenza e quella del mondo”.
Lo scaffale dedicato a Saramago sta lentamente crescendo, unendosi a libri di scrittori di altri paesi ed altre epoche, che mi piace immaginare si parlino muti nella lingua dell’inchiostro. Ad ingrandire le fila di questo scaffale, qualche tempo fa, è arrivato un libricino di circa quaranta pagine, ma di grande significato: quasi una sintesi di un pensiero che si lascia sfuggire a qualsiasi semplificazione, ed infatti Saramago non semplifica mai.
La meravigliosa “favola” di Saramago, però, non avrebbe potuto avere luogo senza il rapporto tra i due: un rapporto di desiderio reciproco, rispetto e riconoscimento dell’identità dell’altro. Sebbene la ricerca dell’isola sia personale e per tutti diversa, essa non potrebbe avere luogo senza il rapporto con gli altri, proprio come scrisse il poeta inglese John Donne (1572-1631): “No man is an island entire of itself”, nessun uomo- essere umano- è un’isola, siamo tutti parte di un insieme più grande, di un mondo unico, un universo, verrebbe da dire, di cui facciamo parte e nel quale nessuno potrebbe essere completamente senza l’altro, senza il rapporto, appunto.
Che possiate, dunque, più che trovare l’isola, avere il cuore di salpare, mollare gli ormeggi, di mettervi in viaggio e di ricostruire la caravella tutte le volte che vi sarà necessario, di rinnovarla e abbellirla, di invitarvi altri viaggiatori e di navigare a lungo con i sogni nelle vele.
“L’uomo e la donna andarono a dipingere sulla prua dell’imbarcazione, da un lato e dall’altro, a lettere bianche, il nome che ancora bisognava dare alla caravella. […] L’isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca di se stessa.”
.la maggior parte di un concerto jazz è improvvisazione e allora ho pensato arrivi sul palco, e improvvisi, e invece no è studiata l’improvvisazione nulla è lasciato al caso, tu non lasciarti al caso.
Proprio qualche giorno fa, un pensiero si era infiltrato silenzioso nella mia mente, quasi non fosse mio, proiettandomi in una frazione di secondo al centro dell’Universo, circondata da silenzio e stelle: in realtà ero davanti ad un rossissimo tramonto sul mare, le coppie si abbracciavano sul molo mentre i pescatori lasciavano che l’esca scendesse in profondità , nella speranza di tirar su qualcosa e di far passare il tempo. Un nonno ed una nonna si tenevano stretti su di una panchina e ridevano di cuore; alzai lo sguardo e vidi che la luna era già alta, pronta per dare il cambio al sole che, mai stanco, si preparava ad una nuova alba dall’altra parte del mondo. Una bambina ammirava lo spettacolo dal suo passeggino, persa nei colori del cielo sbavato nel mare, intanto il papà si godeva lo spettacolo di quelle manine allegre, lo spettacolo del suo amore infinito che non sarebbe mai tramontato. In quel momento, con gli occhi pieni di vita, pensai a che idea si sarebbe fatto di noi esseri umani un ipotetico alieno di passaggio. Me lo immaginai incuriosito, incollato all’oblò del suo disco volante, incredulo nel vedere gesti che non significavano niente, azioni fatte per niente, gente imbambolata davanti alla voce del mare, che per lui, forse, non era più che un grande ammasso d’acqua salata. Avevo esagerato? Forse.
Pensai, però, che quella sarebbe stata un’immagine bellissima da trasmettere nello Spazio, un’immagine vera che ci avrebbe reso giustizia: un tramonto, il profumo del mare, la gioia che lentamente si scioglie nel cuore, ed un abbraccio che nasce spontaneo cullato dalla fresca brezza della sera in arrivo, il volersi bene senza una ragione. Ecco. Siamo così, cari alieni, irrazionali e sognatori, amanti delle piccole cose.
Quel giorno al molo, la mia chiave erano un profilo noto stagliato sull’orizzonte e una mano sempre pronta ad accogliere la mia tenendola stretta, anche ad anni luce di distanza. Quella chiave è ogni giorno nuova: oggi un sorriso, domani un caffè in compagnia. Ognuno di noi ne possiede infinite, basta solo farci caso.
Durante il lockdown scrissi nero su bianco:
Delle piccole cose
Vorrei essere la voce delle Piccole cose, poetessa dei quaderni di prima elementare, della tovaglia che hai scelto per apparecchiare.
Vorrei essere il suono del libro che sfogli la sera, l’odore della pelle di chi Ami.
Cantare l’immensità degli abbracci sinceri e del tuo primo sorriso. Che bello sarebbe Scrivere un’ode alla tua Mano che prepara la cena.
Che poi la Vita non è forse tutta qui? Nell’Infinità delle Piccole cose di cui non so dire, come il miracolo del cielo al tramonto e dei tuoi occhi al mattino.
Sei decadente. Una natura morta. Sei un verso stramaledetto di Rimbaud. Ed un imperativo di Salinas.
Hai radici forti, come la quercia millenaria che troneggia nelle piĂą fitte foreste, Ma rami scarni, che tentano di resistere allo spietato vento dell’amore e finiscono per piegarsi a questo fenomeno naturale.Â
Hai un cuore pesante, costernato, ed occhi grandi di chi ha sentito le urla morire in gola e farsi spazio tra le lacrime. Sei fatta di vetri rotti come nel peggiore dei mosaici. Ti aggrappi ai ricordi per non finire a pezzi.
Sei tutte le sfumature del cielo. Sei la gradazione di ogni colore che domina nell’Eden, ma che si posa sugli oggetti piĂą inadeguati. Sei la luce fioca dell’alba, che si posa indistintamente su ciò che incontra.Â
Sei un giocattolo difettoso: una Barbie a cui han colorato i capelli tagliuzzato una gamba. Sei un gioco sdegnato dai bambini, perfettamente piena delle tue imperfezioni.Â
Sei decadente. Sei colori di Munch che scappano dalla tela, E sei i versi ridondanti di Pascoli che suonano in testa. Sei quella rondine che non torna al nido. Sei i rondinini torturati dall’attesa.Â
Sei le cose belle della vita che arrivano inaspettate. Sei così tutto e così niente da non capire piĂą i confini, i limiti e tutti gli ostacoli che incontro sul cammino. Sei tutte le volte che mi perdo e mi ritrovo, le volte in cui affogo tra i pensieri e fatico a rimanere a galla.Â
Sei decadente. La bellezza che vi è dietro il dolore. Sei decadente. Sei viva.
Le cinque e trenta di pomeriggio: le ultime luci del tramonto si erano infiltrate nella stanza sciogliendosi come un liquido dolce su ogni superficie, fino a inumidirmi gli occhi e la mente. Avevo passato l’intera giornata al computer lasciandomi distrarre soltanto dallo scambio di e-mail e dal suono acuto delle notifiche non richieste; ero satura, provata, staccata da me. Fu un attimo: sentii la necessità di chiudere tutto, di distogliere i pensieri e di aprire gli occhi per davvero, sebbene li avessi aperti da almeno otto o nove ore, era come se dovessi ancora svegliarmi e farvi entrare una luce vera, che non mi ferisse, diversa da quella dei display. L’unico rumore a cui prestai attenzione, allora, fu quello dello schermo che si chiudeva sulla sudata tastiera sancendo davvero l’inizio della mia giornata.
I pensieri viaggiano alla velocità della luce infrangendo le barriere dello spazio e del tempo, così mi ritrovai in Cina a cavallo tra il quarto ed il quinto secolo, nella poesia di Tao Qian (365-427), anche noto come Tao Yuanming, che in un’epoca di disordini e violenza decise di abbandonare le cariche ufficiali per dedicarsi ad una vita semplice e felice che valesse la pena di essere vissuta, riscoprendo il senso delle piccole-grandi cose di ogni giorno: “In queste cose si trova/ l’essenza del Vero. / Ad esprimerlo/mancan le parole” (dalla traduzione di Giuliano Bertuccioli di Yin jiu, Bevendo il vino).
Il poeta mi porse un filo rosso invitandomi a fidarmi e a seguirlo: lo afferrai e di colpo attraversai altre epoche, altri luoghi, famigliari e sconosciuti, luoghi che avevo lasciato con noncuranza, immagini sulle quali non mi ero soffermata abbastanza e che ora mi chiedevano di riemergere. Mi ritrovai in uno spazio indefinito fatto di sfumature in cui distinguevo appena la forma delle cose che, però, sentivo note, vicine. Ero già stata lì e ci sarei tornata altre volte. Di nitido c’era, oltre alle sensazioni, quel filo rosso al quale mi tenevo aggrappata con forza, non sapevo più chi ci fosse dall’altra parte, ma continuai a fidarmi e a lasciarmi guidare, senza una ragione.
“Tieni aperta la porta del cuore, e anche tu troverai la tua Spiaggia dei Sogni.”
Il filo rosso, dunque, mi aveva fatta approdare sulla “Spiaggia dei Sogni” dove poter “disincagliare il cuore” e riprendermi il “tempo per vivere”. La “Spiaggia dei Sogni” è un luogo profondamente democratico, senza frontiere, dove pur parlando lingue diverse ci si capisce senza sforzo, è una dimora marina comune a tutti gli esseri umani, anche a chi non se ne ricorda o pensa di non sapersene più ricordare. La “Spiaggia dei Sogni” è paziente come il suo mare che di onda in onda si fa più profondo e limpido, sa aspettare, non ha fretta mentre conta le impronte dei sognatori erranti sulla sabbia dorata.
Oggi siamo tutti più smart: smartworking, smart TV, smartphone, ma la cosa più smart che potremmo fare davvero sarebbe staccare la spina, donarci il tempo di farlo, il tempo “di vivere”, appunto, di uscire, di scoprire di che blu si è tinto il cielo e di respirare. Ci insegnano l’importanza di accumulare ma, forse, dovremmo imparare soprattutto a fare spazio e a lasciar andare, a sgomberare la mente, a dire addio alle cose superflue per far entrare un pensiero nuovo, e recuperare, così, i sogni che aspettano di essere ripescati da anni, forse da secoli, per imparare a farne di nuovi, ogni giorno.
“Il cibo e gli abiti sono dei bisogni fondamentali, l’umanità da quando esiste si dà da fare ogni giorno per procurarseli. Ma limitarsi a questi, sarebbe davvero poco umano.”
Il racconto “Il re degli scacchi” dello scrittore cinese Zhong Acheng (1949-), meglio noto come Acheng, fa parte della “Trilogia dei re” insieme al “Re degli alberi” e al “Re dei bambini”. Le sue opere comparvero per la prima volta in Cina fra il 1985 e il 1986 e vengono associate a quella corrente narrativa della “Ricerca delle radici” (in cinese, xun gen wenxue ĺŻ»ć ąć–‡ĺ¦). Dopo il trauma della Grande Rivoluzione Culturale (1966-1976, secondo gli storici cinesi) si sentì il bisogno di ridare spazio alla penna ferita, di liberare una lingua che per troppo tempo era stata soffocata e piegata dalle direttive di Mao Zedong. Per troppo tempo la voce degli scrittori aveva dovuto unificarsi a quella del “Partito” e delle “masse” di contadini, soldati e operai, nessuno spazio era consentito alla soggettivitĂ unica e irripetibile degli scrittori.
La reazione, alla fine di questo dolorosissimo silenzio forzato, fu un periodo di grande vivacità letteraria, di voglia di leggere e di scrivere, di vivere attraverso la riconquista dei sentimenti, degli affetti e della parola, che ora poteva finalmente tornare a descrivere le esperienze umane in tutta la loro pienezza. Ognuno provò a fare i conti con i traumi della Rivoluzione Culturale a modo proprio, dando voce alla propria sofferenza, alla propria delusione e al proprio rammarico. Ci fu anche chi, come reazione a questo passato lacerante, decise di non parlarne in maniera diretta descrivendo, al contrario, realtà “altre” attraverso un linguaggio violento come l’epoca trascorsa, e chi, invece, iniziò a guardare indietro, a guardarsi dentro, a ricercare, appunto, le proprie Radici.
Il nostro Acheng ha un modo tutto suo di risalire alle Radici: quelli che lui ricerca sono soprattutto i semi dei valori tradizionali piantati chissà dove e dimenticati per anni. Cerca, dunque, di ritrovare questi semi per farvi nascere, finalmente, degli alberi rigogliosi e carichi di frutti. Ognuno dei suoi re rappresenta un valore diverso: il rispetto per la natura, l’importanza del linguaggio e del significato profondo ed intrinseco delle parole, ed infine quelle che lui chiama “esigenze spirituali”, ovvero quel sentire tutto umano che ci porta a dipingere, a leggere un libro, ad ascoltare una canzone o a stringerci in un abbraccio.
Il re degli scacchi è un “giovane istruito” – uno di quei ragazzi inviati nelle campagne per ri-educarsi durante la Rivoluzione Culturale- che sembra avere due grandi passioni: il cibo e gli scacchi. Man mano che si legge il testo si colgono non solo i tanti riferimenti alla tradizione cinese, in particolare a quella taoista, ma si colgono anche riferimenti a quei “valori universali” quali l’amicizia, il desiderio, la capacitĂ di resistere e di reagire, senza perdere il contatto con il proprio io piĂą intimo e profondo e con le proprie esigenze: in una parola, il proprio sentire.
Coltivare le proprie esigenze e, dunque, la propria resistenza interiore diventano chiavi imprescindibili per superare momenti di crisi come quelli che si trovarono ad affrontare questi giovani costretti ad abbandonare le proprie case, o come quello che stiamo vivendo noi da quasi un anno. In un mondo che sembra rispondere solo alle regole del mercato e del Dio Denaro, dove il fine utilitaristico è l’unico che conta, penso sia ancor più importante parlare di “cose inutili” come i libri, l’arte, il colore del cielo al tramonto e il suono di una carezza. Forse, la più grande responsabilità che abbiamo oggi è proprio quella di ricordarci delle nostre esigenze e di affermare con forza che un altro modo di pensare è possibile. La mia responsabilità , oggi, è quella di sostenere che una poesia e un bacio possono davvero cambiare il mondo.
“…io non vi so dare altro consiglio che questo: penetrare in voi stessi e provare le profondità in cui balza la vostra vita; alla sua fonte troverete voi la risposta alla domanda…” (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta)
Così Rainer Maria Rilke (1875-1926) si rivolge ad un giovane poeta in cerca di conferme riguardo ai suoi versi. Forse, deludendo un po’ l’aspirante paroliere, Rilke risponde con grande lungimiranza che è all’interno che deve cercare, prima di volgere lo sguardo all’esterno. Ci sono alcune domande alle quali possiamo risponderci solamente dopo un grande “esercizio d’introspezione”.
Spesso siamo così determinati nel cercare conferme e riconoscimenti dagli altri che ci scordiamo di guardarci dentro, ci scordiamo di indagare nel profondo del nostro Essere. Ce ne scordiamo o volutamente rifuggiamo quest’ipotesi? Quanto può essere doloroso guardarsi allo specchio? Eppure, va fatto. Non c’è altro modo e Rilke lo sapeva bene.
Questa “prigione dorata” nella quale ci dimeniamo un po’ tutti da quasi un anno ormai, sta facendo emergere tutta una serie di questioni che prima, forse, facevano appena capolino da qualche angolo sperduto di una casa di campagna. Ora, invece, camminano prepotentemente in mezzo a noi. Ognuno legge la propria verità in tutto questo, prima o poi arriverà il momento di riprendere i fili delle cose importanti e capire cos’è stato davvero, ma per ora la cosa più preziosa che possiamo fare è guardarci- dentro e fuori- osservare noi, gli altri, il mondo, più e meglio di prima.
I consigli che dà il poeta possono essere rivolti, senza ombra di dubbio, a una dimensione più generale, quella del “mestiere di vivere”, se così vogliamo chiamarlo. Bisogna andare più a fondo, con coraggio, quel tipo di coraggio che c’è nel “vivere le domande”, che sta nei primi boccioli, che sfidano quel che resta della neve alla fine dell’inverno, il coraggio di chi “fa le cose per niente”, senza fine utilitaristico, senza chiedere in cambio nulla, ma gioendo della bellezza dell’Essere.