365 giorni, Libroarbitrio

Donne che corrono coi lupi – Clarissa Pinkola Estés

Una donna può desiderare follemente essere vicino all’acqua
o a pancia in giù, con la faccia nella terra
a odorare quel profumo selvaggio.

Può aver voglia di correre nel vento o di piantare qualcosa,
di togliere qualcosa dalla terra o mettere
qualcosa nella terra.

Può avere voglia di salire su una montagna,
saltando di roccia in roccia e facendo risuonare la sua voce.

Può aver bisogno di ore di notti stellate, quando le stelle
sono come cipria sparsa su un pavimento
di marmo nero.

Può sentire che morirà se non potrà danzare nuda
nella tempesta, sedere in perfetto silenzio,
tornare a casa sporca d’inchiostro, di lacrime, di luna…

365 giorni, Libroarbitrio

COSA RIMANE – La poesia in musica di Emilio Stella e Er Pinto

Emilio-Stella-&-Er-Pinto---Cosa-Rimane

La copertina del singolo è stata disegnata a mano
e colorata in digitale dall’illustratore e Street Artist, Mattia Yest.

Quanto spesso ci chiediamo come vivono la loro vita artistica cantautori e poeti, come passano le giornate? Li sappiamo di notte tra concerti e presentazioni di libri e dischi, li immaginiamo a feste circondati da fiumi di alcool e belle donne fino a mattino, ma che significa essere un poeta e un cantautore per davvero, nell’epoca contemporanea, a Roma, durante una pandemia globale?

Ce lo raccontano il cantautore Emilio Stella ed il poeta Er Pinto, con Cosa Rimane, due uomini che non amano essere etichettati come “artisti” perché per loro l’arte non è un mero status quo ma è una vocazione che ha delle solide basi nella vita di tutti i giorni, con tutto ciò che di buono e cattivo essa porta in se’, con “il peso delle cose” che si trascina dentro ci scriverebbe Er Pinto, con una testa ed un animo tutto “Suonato” ci canterebbe Stella, perché queste non sono solo parole scelte e virgolettate a caso, ma sono i titoli delle loro ultime opere d’arte, uno in poesia l’altro in musica. Con la parola entrambi giocano e la rispettano cercandola, studiandone il significato, apprezzandone la musicalità e il ritmo, ed è proprio questa loro vita di parole che li ha fatti incontrare, un giorno, anni fa per Roma.  Così con il tempo idee e intuizioni si sono trasformate in sceneggiature teatrali e canzoni, con  “E io te amo” (2015) hanno regalato alla loro città Natale una poesia che in brevissimo tempo è diventata una delle più belle dichiarazioni d’amore a Roma, per poi approdare a teatro con lo spettacolo “Tutte le Strade Portano ar Core”, con la partecipazione dell’attore Ariele Vincenti, durante lo spettacolo raccontano di un viaggio in musica e poesia che parte dalla periferia per arrivare al cuore pulsante della città.

Ma è in questi ultimi due mesi, quando il mondo si è ritrovato a fronteggiare una pandemia a cui nessuno era preparato che i due hanno unito riflessioni a passione con ore e ore di discorsi, che si sono tramutate in una minuziosa ricerca, e questa ricerca è divenuta la stesura del  brano scritto a due mani: Cosa Rimane.

A fare da sfondo al brano la passione per uno dei grandi maestri della musica italiana: Rino Gaetano. Immaginando di poter duettare con il loro idolo, i due artisti romani, hanno scritto un omaggio che prende ispirazione dalla “Fontana chiara un poco dolce e un poco amara” cantata dal loro mentore.
Cosa Rimane è una vera e propria poesia musicata, e poi suonata dai musicisti che spesso accompagnano Emilio Stella nei suoi tour in tutta Italia: Primiano Di Biase (piano) – Ruggero Giustiniani (percussioni) – Samuel Stella (chitarre) – Davide Costantini (basso)

 

La data del release è domani
2 Giugno 2020

 

di seguito il link per il Pre-Save su Spotify e il Pre-Order su ITunes

PRESAVE DIGITAL STORE: https://tropicana.lnk.to/CosaRimanePre

 

Il brano Cosa Rimane è sotto Edizioni Aloha Dischi/Tropicana
e distribuito digitalmente da Artist First.
Booking e management: alohadischi@gmail.com
Alessandro Martinelli:    +39 3397992043

 

articolo di Lié Larousse
http://www.libroarbitrio.com

 

365 giorni, Libroarbitrio

AUTOANALISI PER NON PAZIENTI

Lié Larousse 2

Che alle “cose troppo quiete” si tolga la maschera: celano perversioni e bugie.

Che l’insensata voglia di non essere mai turbati sia motivo di ravvedimento, per chi è ancora in tempo.

Che la massima antica riscatti chi ama ciò che è in continuo moto.

Che si sappiano sani, non pazienti possibili o già ritenuti tali, gli scontenti non per capriccio o insaziabile voglia di serenità.

Che costoro possano scoprire quanta amicizia sodale il severo esercizio autoanalitico, così tacciato di egolatria, può donare a chi lo coltivi insieme ad altri.

Che i racconti interiori interpretino, giorno per giorno, una condizione umana, un destino da accettare ed esprimere.

Che lo scrivere non plachi mai un’onesta passione di esistere senza ritegno, nelle sublimi solitudini di chi ne cerca la voce.

 

Estratto dallo studio che sto facendo sulla psicoanalisi con Duccio Demetrio.
Io ritratta dal fotografo Davide Petronzio

365 giorni, Libroarbitrio

Del vivere vero – Clemente Rebora

Signor N.

Lucciola, apro la mano
a me rimanga il folle
fosforo nelle vene
a te caldo un barlume
di proteggente culla.

C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorate
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può e del fango.

 

365 giorni, Libroarbitrio

Emile Zola – Germinal

Oleg Oprisco

Nella pianura rasa, nella notte senza stelle, d’una oscurità fitta come d’inchiostro, un uomo, solo, percorreva la strada che da Marchiennes va a Montsou, dieci chilometri di massicciata che tagliavano dritto attraverso i campi di barbabietole. Non vedeva davanti a sé nemmeno la terra nera, e non s’accorgeva dell’immenso, piatto orizzontale che per i soffi del vento di marzo, delle folate larghe come quelle che trascorrono sul mare, gelate per aver spazzato leghe di paludi e terre desolate. Nemmeno l’ombra di un albero macchiava il cielo, la strada si snodava dritta come una diga, nella caligine accecante delle tenebre.
L’uomo camminava a grandi passi, tremando sotto il cotone liso della sua giacca  e dei suoi pantaloni di velluto, piuttosto impacciato da un fagottino, legato in un fazzolettone a quadri. Egli se lo stringeva contro i fianchi, ora da una parte, ora dall’altra, per poter cacciare in fondo alle tasche le due mani insieme, mani pesanti che la sferza del vento di levante faceva sanguinare. Camminava così da un’ora, quando a sinistra, a due chilometri da Montsou, scorse dei fuochi rossi, tre bracieri bruciavano all’aria aperta, come sospesi a mezz’aria. Dapprima esitò, preso da timore; poi non poté resistere al bisogno doloroso di scaldarsi un istante le mani.
Un sentiero infossato si spingeva verso l’interno.
Tutto disparve.
L’uomo aveva a destra una palizzata, una specie di muro di grosse tavole che chiudeva una strada ferrata; mentre a sinistra s’innalzava un terrapieno erboso, sormontato da una confusione di comignoli, uno scorcio di villaggio dai tetti bassi e uniformi.
Fece circa duecento passi.
Di colpo, a una svolta del sentiero, i fuochi riapparvero più vicini, senza che egli potesse comprendere come mai bruciassero così in alto nel cielo smorto, come lune fumiganti. Ma, al livello del suolo, un altro spettacolo lo aveva fatto fermare. Era una massa pesante, un mucchio di costruzioni schiacciate, da cui si drizzava l’ombra di una ciminiera d’officina; rare luci uscivano dalle finestre dai vetri sporchi, cinque o sei lanterne erano appese di fuori, sospese a dei travi il cui legno annerito faceva intravedere  vaghi profili di cavalletti giganteschi; e da questa apparizione fantastica, immersa nel buio e nella nebbia, una sola voce si levava, il respiro lungo e pesante di una macchina a vapore che non si vedeva.
Allora l’uomo riconobbe un pozzo. Fu ripreso da un senso di vergogna: a che sarebbe servito ? Lavoro non ce ne sarebbe stato. S’arrischiò in fine a scalare il terrapieno su cui bruciavano i tre fuochi di carbone, nei bracieri di ghisa, per riscaldare e far luce agli uomini addetti al lavoro.
<< Buon giorno >>, disse egli, avvicinandosi ad uno dei bracieri.
<< Buon giorno >>, rispose un vecchio. Un pezzo d’uomo rosso di capelli.
Poi silenzio. L’uomo che si sentiva guardato con occhio sospettoso, disse subito il suo nome.
<< Mi chiamo Etienne Lantier; sono macchinista…Non c’è lavoro qui? >>
Le fiamme lo rischiaravano; doveva avere ventun anni, molto bruno, bel ragazzo, d’aspetto forte, sebbene minuto di membra.
Più in là, si mostrava nel buio, di cui il giovane aveva indovinato i tetti, il villaggio dei Deux-Cent-Quarante dormire sotto la notte nera, in mezzo ai campi di grano e di barbabietole. In casa Maheu, al numero 16  del secondo isolato, nulla s’era mosso: tenebre spesse affogavano l’unica camera del primo piano schiacciando quasi col loro peso il sonno della gente ch’era là ammucchiata, a bocca aperta, sfinita dalla fatica. Malgrado il freddo vivo del di fuori, nell’aria pesante c’era quel calore animale, quel soffoco caldo che odora di gregge umano.
Suonarono le quattro all’orologio a cucù del piano terreno. Catherine s’alzò, d’un tratto. Immersa nella stanchezza, aveva contato per abitudine i quattro rintocchi, che venivano attraverso il solaio, senza trovare la forza di svegliarsi completamente. Poi, colle gambe fuori dalle coperte, andò tastoni, fregò un fiammifero, e accese la candela; ma restava a sedere colla testa tanto pesante che le si rovesciava  fra le spalle cadendo al bisogno invincibile di ricascare sul cuscino. Catherine fece uno sforzo disperato. si stirava, ficcava le mani nei suoi capelli rossi che le ingarbugliavano la fronte e il collo. Del suo corpo sparuto di sedici anni, non uscivano dalla camicia che dei piedi macchiati di azzurro, come tinti di carbone, e delle braccia delicate d’una bianchezza lattea, che contrastavano colla tinta smorta del viso, già guasto dalle continue lavature di sapone nero. Un ultimo sbadiglio le aprì la bocca un po’ grande, dai denti superbi, splendidi nel pallore clorotico delle gengive, mentre i suoi occhi lagrimavano per la lotta col sonno, con un’espressione dolorosa e straziante, che pareva riempisse di stanchezza la sua nudità interna.
Ma un grugnito arrivò dal corridoio, la voce grossa di Maheu balbettava:
<< Sacro Dio! è l’ora…Sei tu, Catherine, che accendi? >>
<< Sì, babbo…ha suonato ora da basso>>
<< Spicciati dunque, fannullona! Se domenica tu avessi ballato meno, ci avresti svegliato prima…Eh, va là è una bella vita!>>
E continuò a brontolare; ma il sonno lo riprese e i suoi rimproveri s’ingarbugliarono e si spensero in un nuovo russare.
Catherine infilò i suoi calzoni da minatore, si mise la giacchetta di tela, legò il berretto azzurro intorno ai capelli raccolti, e in questo  abbigliamento pulito del lunedì, aveva l’aria di un ragazzo, altro non le restava del suo sesso che il dimenarsi leggero dei fianchi.

365 giorni, Libroarbitrio

“Billie’s Blues” Willem M.Roggeman

A.S.

In ogni camera d’albergo incontra
ogni volta un altro io in ogni specchio.

Allora Billie Holiday alza una mano
come per scacciare velocemente la luce.

Una domenica bianca di eroina
la luna scende nel suo corpo.

Nel night club da secoli il mito
l’attende al varco.

Sente il fruscio delle ali degli angeli
mentre canta il dolore e i frutti esotici.

E ogni giorno lei diventa più sottile e molle.

Il suo corpo si fa valanga.

La sua voce si scioglie lentamente.

Poi il mondo si fa tutto muto
e azzurro.

365 giorni, Libroarbitrio

“Gli uomini sono lo scherno degli angeli” Geoffrey Hill

Umanità

Certi giorni un’ombra filtrata
Osservo una lumaca
Scalare il lucente strapiombo
Della sua bava. Le grida,
Come arrivano, sono mie; poi
Di Dio: mia la giustizia, le ferite, l’amore,
La luce, il pane, la lordura.

Starmene qui nella mia strana
Carne mentre il Tormento satollo
Dorme, macchiato dal cibo pronto,
E’ una gioia che va oltre ogni preoccupazione
Del mondo, per una volta.
Ma ci viene ordinato di
Alzarci quando, in silenzio,
vorrei comporre la mia voce.

365 giorni, Libroarbitrio, Pubblicazioni

“Uno” Lié Larousse & Premio Letterario Nazionale Bukowski

Premiazione Bukowski 2015  - Uno -

Cammino a passo svelto, vestito in borghese, stretto nelle spalle con il volto ritto sulla strada e le mani al sicuro nelle tasche dei jeans. Scosto il corpo di traverso avendo cura di non farmi toccare dai passanti che affollano la piazza alle prime ore della sera. Destra, seduta al bar la donna con il vestito celeste a fiori lascia il tavolino tondo scostando goffa la sedia incurante della presenza del cameriere col vassoio in precario equilibrio dietro le sue spalle facendolo ruzzolare a terra. Sinistra, la mano furba di un bambino trafuga svelta da vasi blu due traboccanti sbiadite arance accatastate in un’acerba piramide che crolla l’attimo dopo esser stata derubata del suo equilibrio. Davanti ai miei occhi le porte della chiesa di Santa Maria in Trastevere s’aprono maestose a far entrare la bara di un cristiano seguito da una manciata di parenti, cuscini di rose, gigli e condensa che sale dal nero sampietrino arso dal petrolio infiammato dal mangiafuoco teatrante. Le campane invitano i commensali d’ostia alla solenne messa. L’orologio sottostante il campanile picchetta le 18:00. Tutto è così come deve essere. Ogni atto combacia così come l’ho già osservato nella mia visione, e la prima goccia di pioggia acida cade sul mio labbro, e subito le nuvole rovesciano l’acquazzone sopra la mia testa mettendo in fuga le mamme con i passeggini che mi sfrecciano di fianco che quasi scivolo.
– Perfetto, bisbiglio. Freme sotto il mio naso il puzzo di panni stesi e d’umida carne di pesce espandendosi nello stretto vicolo che ho appena imboccato. Inspiro profondamente e il primo dei brividi mi percuote. Svolto l’angolo. Venditori ambulanti in balia del mal tempo coprono le loro chincaglierie con lenzuoli bianchi tristi in volto. Il papà con la camicia a quadri s’affretta a far rientrare la piccola figlia in casa, snoda un braccio di corda dal ramo dell’albero che sosteneva insù il sellino abbandonandolo al suo dondolio floscio e obliquo. L’odore dolciastro della corda bagnata insinua le mie narici e il secondo brivido mi contorce il petto. I due soldati in un via vai sul posto parlottano se rientrare o meno al coperto, loro di fronte, il pittore col cappello viola e il papillon turchese è seduto a dipingere su fogli rettangolari mentre la pioggia ne bagna gli angoli, incurante delle bizzarrie del tempo nel mese di luglio. La scalinata è alle sue spalle. Alzo di poco lo sguardo, leggo la scritta Trastevere Noir Festival sventolare su di un nastro di raso. Avanzo lento verso di lui. L’assenza di persone in coda sugli scalini e lungo le vie che sfociano nella piazza allargano lo spazio circostante, il nero dei sampietrini s’addensa, le fessure che ne delineano il perimetro si dilatano, acqua e terra si plasmano in una pellicola vischiosa e molle. Inspiro profondamente l’odore crudo delle pietre fradice. Tutto attorno m’appare oscura piuma di corvo, la mia vista è nera. Il brivido ora è un impulso costante d’elettricità. Tiro fuori una mano dalla tasca, afferro la ringhiera della scalinata per sorreggermi. Tiro fuori l’altra e con uno schiaffo mi premo l’indice e il medio contro la tempia. Il tormento mi soffoca, penetra nelle narici, scivola nella trachea, affoga nei polmoni. Chiudo gli occhi camminando nella mia visione. Inspiro profondamente odore di ruggine e ferro e bianco. Finalmente quel bianco e le luci dei lampioni in contrasto con il crepuscolo della sera illuminano i volti delle persone che ovunque parlano, sorridono, scendono dalla scalinata, in gruppi di cinque e di tre. Alcuni sono già amici, altri lo sono appena diventati. Solo lei è Uno. Solo lei è sola e già ai piedi della scalinata. E’ di spalle, la osservo. Eccola, la visione con la quale mi sono svegliato, che inseguo da tutto il giorno, che esamino e rileggo e incontro nella mia mente e di nuovo ora. Mi vedo sussurrarle – Oggi tu sei il mio Uno.

Questo è solo l’incipit del mio racconto “Uno”, pubblicato nell’Antologia Bukowski Inediti di ordinaria follia, e se il vostro desiderio è quello di continuare nella sua lettura allora potete farlo acquistandolo cartaceo o anche nella versione e-book al sito:
http://www.amazon.it/gp/product/8863966559/ref=as_li_ss_sm_it_fb_asin_tl?ie=UTF8&camp=3710&creative=25222&creativeASIN=8863966559&linkCode=shr&tag=aqualcpiaceci-21&qid=1435580647&sr=8-2&keywords=inediti+di+ordinaria+follia

Ringrazio col mio sorriso più sorrisevole e con tanto di cuore ora qui nella mia mano, in ordine non alfabetico, lo scrittore Gianluca Pavia per i consigli, le aggiunte, le correzioni, e l’infinitesimale pazienza con le colorate ansie scritturali della sottoscritta me Lié battezzata nelle acque marine toscane col sassodelfino e le conchiglie colore dei miei capelli; gli insegnanti- editor- Prof- e tanto altro ancora Enrico Valenzi e Paolo Restuccia che fin da quel fatidico dì che mi sono presentata alla loro Scuola di Scrittura Omero col mio Circo e le bestie feroci mi hanno tenuta con loro aiutandomi a gestire zanne e zampe tra la mancanza di senso, virgole e punti, e che sono pure nel racconto, Enrico e Paolo intendo, non il senso le virgole e i punti, e a tal proposito ci tengo ad enunciarvi che  “Uno” è nostro figlio! Ma voi lo sapevate già, perché concepito e nato durante il Festival del Noir nella pausa dei quindici minuti d’estro…; gli scrittori FedericaFioreFiorenza, Deepetta, Debby, Antonio ed Andy che fanno i vaghi in classe quando parlo e non si capisce nulla di ciò che dico ma loro mi sorridono comprensivi ed io sono tanto felice!

Grazie ai folli Bukowskiani e alla Giovane Holden Edizioni, soprattutto all’organizzatore Marco Pelagi,  al direttore editoriale Miranda Biondi e alla traduttrice letteraria ufficiale di Bukowski Simona Viciani Campani

E 24.372MILA GRAZIEEEE
A TUTTI VOI FOLLOWERS CHE SOSTENETE ME E QUESTO BLOG SQUINTERNATO
E AGLI OCCASIONALI CHE BUTTANO UN OCCHIO E STANNO UN POCO CON ME
E PURE A QUELLI CHE DANNO SOLO LE SBIRCIATINE

VOSTRA LIE’ 

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lielarousse@yahoo.it
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365 giorni, Libroarbitrio

“Origami” Tan Taigi

The quiet forest - El bosque silencioso by Cruz Vicente

Le stelle
a una a una
nel cielo freddo della sera
si affacciano.

Al di là del valico
una città fortificata
e stormi di aquiloni.

Senso di debolezza,
un lampo luminoso:
dalle barche giungono voci
di fantasmi che chiamano.

365 giorni, Libroarbitrio

“Non si muore tutte le mattine” Vinicio Capossela

Lié 2000

Siamo rimasti solo voce.
Come la ninfa Eco, a furia di consumarsi, per passione, finì col rimanere voce…
eco di voce,
eco della sua voce.
Non abbiamo più peso, né corpo, né vita, siamo soltanto voce.
La voce che si spande nei canali della quantità,
la voce rinchiusa,
asserragliata a spurgare,
incarcerata.
La voce dei motel, la voce rimasta impigliata nella rete dei telefoni, delle strade, dei binari.
Siamo rimasti Voce, senza più corpo,
sul bordo della nostra gioventù,
sull’orlo di come sarebbe dovuta andare.
La voce delle serenate, che ci echeggiano nelle orecchie, e non ci lasciano in pace.
Puniti dalla troppa passione, ci si è portati al di rimanere fermi davanti ai bivi.
Allora ci è voluto il ritiro,
l’impresa e l’epopea.
La voce è diventata la nostra divinità,
il nostro nume.
Essa soltanto ci tutela e conserva,
ci riproduce,
che ci ha infebbrato la vita,
ingravidati,
e solo la voce è rimasta per sgravare quella colica d’immaginazione,
quel mare grosso che ci ha sollevati fino a dove Dio si è fatto intravedere e poi ancora,
ci ha annegati,
ributtati dalla parte di sotto.
La voce è la nostra barca,
il nostro confine,
quel che resta di noi,
l’eco della nostra voce,
rimbalzante per tutti gli spigoli dai quali ci siamo intravisti.
La voce, eco della visione.