365 giorni, Libroarbitrio

Socialmente disturbata o disturbata dal sociale? – L.L.

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Ancora non l’ho capito
Sarà
Perché io non mangio
quello che voi mangiate
Perché io non parlo e non sto zitta
come voi dite o tacete
Perché io non dormo
come, dove e quando voi dormite
Perché io nascondo il mio volto
quando voi invece non fate vedere la vostra faccia
Perché io amo la pittura delle nuvole e giocare col cielo
mentre voi amate plasmarvi dai plasma impilati nei centri commerciali
Perché io sono puntuale e ho i capelli rossi
voi non avete orologi e occhi solo per le bionde e le brune
Perché io non sono commestibile, gestibile né digeribile
voi ingurgitate gestite e digerite tutta la merda che vi passano per “alta cucina”
Perché io nonostante tutto rido e sono felice
voi avete musi lunghi e ridete per deridere
Perché io sono complicata come quello che scrivo
mentre a voi piacciono le cose facili, parole frasi cliché da cogliere al volo e copiare
Perché io non sono niente che già conoscete e il nulla di sicuro
e in un primo momento volete stare con me
ci fate su pure un bel pensierino
ma l’attimo dopo
il cervello v’è andato in tilt
e ve ne state alla larga
nei vostri limiti di tutto questo essermi diversi

Ed ora, come sempre, state pensando
– che stronza, arrogante e presuntuosa.

Io mi sento solo sola.

Ma per carità,
restate dove state!

 

 

365 giorni, Libroarbitrio

Emile Zola – Germinal

Oleg Oprisco

Nella pianura rasa, nella notte senza stelle, d’una oscurità fitta come d’inchiostro, un uomo, solo, percorreva la strada che da Marchiennes va a Montsou, dieci chilometri di massicciata che tagliavano dritto attraverso i campi di barbabietole. Non vedeva davanti a sé nemmeno la terra nera, e non s’accorgeva dell’immenso, piatto orizzontale che per i soffi del vento di marzo, delle folate larghe come quelle che trascorrono sul mare, gelate per aver spazzato leghe di paludi e terre desolate. Nemmeno l’ombra di un albero macchiava il cielo, la strada si snodava dritta come una diga, nella caligine accecante delle tenebre.
L’uomo camminava a grandi passi, tremando sotto il cotone liso della sua giacca  e dei suoi pantaloni di velluto, piuttosto impacciato da un fagottino, legato in un fazzolettone a quadri. Egli se lo stringeva contro i fianchi, ora da una parte, ora dall’altra, per poter cacciare in fondo alle tasche le due mani insieme, mani pesanti che la sferza del vento di levante faceva sanguinare. Camminava così da un’ora, quando a sinistra, a due chilometri da Montsou, scorse dei fuochi rossi, tre bracieri bruciavano all’aria aperta, come sospesi a mezz’aria. Dapprima esitò, preso da timore; poi non poté resistere al bisogno doloroso di scaldarsi un istante le mani.
Un sentiero infossato si spingeva verso l’interno.
Tutto disparve.
L’uomo aveva a destra una palizzata, una specie di muro di grosse tavole che chiudeva una strada ferrata; mentre a sinistra s’innalzava un terrapieno erboso, sormontato da una confusione di comignoli, uno scorcio di villaggio dai tetti bassi e uniformi.
Fece circa duecento passi.
Di colpo, a una svolta del sentiero, i fuochi riapparvero più vicini, senza che egli potesse comprendere come mai bruciassero così in alto nel cielo smorto, come lune fumiganti. Ma, al livello del suolo, un altro spettacolo lo aveva fatto fermare. Era una massa pesante, un mucchio di costruzioni schiacciate, da cui si drizzava l’ombra di una ciminiera d’officina; rare luci uscivano dalle finestre dai vetri sporchi, cinque o sei lanterne erano appese di fuori, sospese a dei travi il cui legno annerito faceva intravedere  vaghi profili di cavalletti giganteschi; e da questa apparizione fantastica, immersa nel buio e nella nebbia, una sola voce si levava, il respiro lungo e pesante di una macchina a vapore che non si vedeva.
Allora l’uomo riconobbe un pozzo. Fu ripreso da un senso di vergogna: a che sarebbe servito ? Lavoro non ce ne sarebbe stato. S’arrischiò in fine a scalare il terrapieno su cui bruciavano i tre fuochi di carbone, nei bracieri di ghisa, per riscaldare e far luce agli uomini addetti al lavoro.
<< Buon giorno >>, disse egli, avvicinandosi ad uno dei bracieri.
<< Buon giorno >>, rispose un vecchio. Un pezzo d’uomo rosso di capelli.
Poi silenzio. L’uomo che si sentiva guardato con occhio sospettoso, disse subito il suo nome.
<< Mi chiamo Etienne Lantier; sono macchinista…Non c’è lavoro qui? >>
Le fiamme lo rischiaravano; doveva avere ventun anni, molto bruno, bel ragazzo, d’aspetto forte, sebbene minuto di membra.
Più in là, si mostrava nel buio, di cui il giovane aveva indovinato i tetti, il villaggio dei Deux-Cent-Quarante dormire sotto la notte nera, in mezzo ai campi di grano e di barbabietole. In casa Maheu, al numero 16  del secondo isolato, nulla s’era mosso: tenebre spesse affogavano l’unica camera del primo piano schiacciando quasi col loro peso il sonno della gente ch’era là ammucchiata, a bocca aperta, sfinita dalla fatica. Malgrado il freddo vivo del di fuori, nell’aria pesante c’era quel calore animale, quel soffoco caldo che odora di gregge umano.
Suonarono le quattro all’orologio a cucù del piano terreno. Catherine s’alzò, d’un tratto. Immersa nella stanchezza, aveva contato per abitudine i quattro rintocchi, che venivano attraverso il solaio, senza trovare la forza di svegliarsi completamente. Poi, colle gambe fuori dalle coperte, andò tastoni, fregò un fiammifero, e accese la candela; ma restava a sedere colla testa tanto pesante che le si rovesciava  fra le spalle cadendo al bisogno invincibile di ricascare sul cuscino. Catherine fece uno sforzo disperato. si stirava, ficcava le mani nei suoi capelli rossi che le ingarbugliavano la fronte e il collo. Del suo corpo sparuto di sedici anni, non uscivano dalla camicia che dei piedi macchiati di azzurro, come tinti di carbone, e delle braccia delicate d’una bianchezza lattea, che contrastavano colla tinta smorta del viso, già guasto dalle continue lavature di sapone nero. Un ultimo sbadiglio le aprì la bocca un po’ grande, dai denti superbi, splendidi nel pallore clorotico delle gengive, mentre i suoi occhi lagrimavano per la lotta col sonno, con un’espressione dolorosa e straziante, che pareva riempisse di stanchezza la sua nudità interna.
Ma un grugnito arrivò dal corridoio, la voce grossa di Maheu balbettava:
<< Sacro Dio! è l’ora…Sei tu, Catherine, che accendi? >>
<< Sì, babbo…ha suonato ora da basso>>
<< Spicciati dunque, fannullona! Se domenica tu avessi ballato meno, ci avresti svegliato prima…Eh, va là è una bella vita!>>
E continuò a brontolare; ma il sonno lo riprese e i suoi rimproveri s’ingarbugliarono e si spensero in un nuovo russare.
Catherine infilò i suoi calzoni da minatore, si mise la giacchetta di tela, legò il berretto azzurro intorno ai capelli raccolti, e in questo  abbigliamento pulito del lunedì, aveva l’aria di un ragazzo, altro non le restava del suo sesso che il dimenarsi leggero dei fianchi.

365 giorni, Libroarbitrio

“Se io fossi un angelo” Lucio Dalla

Se io fossi un angelo
chissà cosa farei
alto, biondo, invisibile
che bello che sarei
e che coraggio avrei
sfruttandomi al massimo
è chiaro che volerei
zingaro libero
tutto il mondo girerei
andrei in Afganistan
e più giù in Sudafrica
a parlare con l’America
e se non mi abbattono
anche coi russi parlerei
angelo se io fossi un angelo
con lo sguardo biblico li fisserei
vi do due ore, due ore al massimo
poi sulla testa vi piscerei
sui vostri traffici,
sui vostri dollari,
sulle vostre belle fabbriche
di missili, di missili
se io fossi un angelo,
non starei mai nelle processioni
nelle scatole dei presepi
starei seduto fumando una Marlboro
al dolce fresco delle siepi
sarei un buon angelo, parlerei con Dio
gli ubbidirei amandolo a modo mio
gli parlerei a modo mio e gli direi
“Cosa vuoi da me tu”
“I potenti che mascalzoni e tu cosa fai li perdoni”
ma allora sbagli anche tu
ma poi non parlerei più
un angelo non sarei più un angelo
se con un calcio mi buttano giù
al massimo sarei un diavolo
e francamente questo non mi va
ma poi l’inferno cos’è
a parte il caldo che fa
non è poi diverso da qui
perché io sento che, son sicuro che
io so che gli angeli sono milioni di milioni
e non li vedi nei cieli ma tra gli uomini
sono i più poveri e i più soli
quelli presi tra le reti
e se tra gli uomini nascesse ancora Dio
gli ubbidirei amandolo a modo mio
a modo mio…

365 giorni, Libroarbitrio

“Sono viva – Lo suppongo” Emily Dickinson

Casa Deco

Sono viva – lo suppongo – 
sulla mia mano i rami
sono pieni di convolvoli – 
e sulla punta delle dita
punge caldo il carminio –
e se accosto un bicchiere
alla bocca – si appanna –
il medico attesta che respiro –
Sono viva – perché
ancora non mi ritrovo in quella stanza –
il salotto – comunemente – dove
viene gente a farmi visita –
e si china – e mi guarda di lato –
e dice “Che fredda” – e poi…

365 giorni, Libroarbitrio

Foulard’aria

Nessun suono migliore per farsi incantare

“Nessun suono migliore per farsi incantare” 
opera di Pietro Mancini

Bambino credi di esserti perso?
Una foulard’aria  nebulosa stoffa cristallizzata di sabbia ed acqua marina ti parla.
Vieni a spasso con me.
La voce si sparpaglia, t’avvolge piroettando e in una spirale come di galassia di latte e piccoli astri accoglie a sé foglie cadute estirpando delicata radici fresche della terra tra lo svolazzare imbizzarrito di farfalle, poi l’ombra di un volto di bambina appare.
Vieni questo è mondo nuovo. Qui non ci sono veleni.
Ti prende la mano. Le dita di radici mutano morbide e il palmo caldo e rosa pallido. La stretta è forte, lei così più piccina di te eppure ti senti al sicuro.
Bambino hai le mani di uomo grande tu. Rosse e gonfie come già stanche, ma non temere, non c’è stanchezza nel tuo cuore né nella tua mente.
E lei ride e a te viene da ridere con lei.
Bambino perché hai gli occhi chiusi? Aprili!
Non hai gli occhi chiusi, eppure, fai per aprirli come appena sveglio. Ed è bellissimo. Il mare tranquillo dorme e luccica abbracciato al cielo cosparso di stelle blu scintillante pietra primitiva, cammini coi piedi nudi su di una coltre iridescente di cespugli di bacche circondato da castagni e soffice grano cullato dal vento che tacito soffia profumo di petali d’alba ninfea. Sei in cima ad un bosco su una scogliera. C’è casa tua. Ha le fondamenta che traspaiono e le vedi correre ed aggrapparsi al nucleo della terra. E la Terra è tua madre e il Cielo che t’abbraccia è tuo padre.
Ora finalmente vedi. Qui nulla può farti del male!
Le credi. Le credi davvero, e avverti la testa alleggerirsi il collo le spalle il petto le cosce perdere ogni costrizione. Sorpassi l’uscio. Il mare e il bosco t’accompagnano, in dono creano di giunco una seduta e gambe al tuo tavolo da lavoro di pura salsedine. Ti accomodi. L’albatro canta il tuo arrivo lasciando cadere una sua piuma nel tuo palmo, nell’altro un petalo di magnolia si trasforma in pagina e tu.
Sei bambino uomo poeta tu. Non avere mai paura di perderti. A te non accadrà.

L.L.

 

365 giorni, Libroarbitrio

Upanisad

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Chi sospinge il pensiero nel suo volo?
Chi suscita il primo respiro?
Chi anima la parola pronunciata?
La vista, l’udito…quale dio li comanda?

L’udire dell’udito,
il pensare del pensiero,
il parlare della parola,
il respirare del respiro,
il vedere della vista!
I saggi che vanno al di là di queste cose,
lasciato questo mondo, diventano immortali.

Là la vista non arriva,
né la parola, né il pensiero.
Non sappiamo, né comprendiamo
come ciò si possa insegnare.
E’ diverso da quello che ci è noto
e supera anche l’ignoto.
Così abbiamo udito
dalle lezioni degli antichi.

Ciò che è inesprimibile con la parola,
ciò che permette alla parola di esprimere,
questo in verità conosci come Brahman,
non ciò che la gente venera.

Ciò che è impensabile con il pensiero,
ciò che permette al pensiero di pensare,
questo in verità conosci come Brahman,
non ciò che la gente venera.

Ciò che è invisibile con la vista,
ciò che permette alla vista di vedere,
questo in verità conosci come Brahman,
non ciò che la gente venera.

Ciò che con l’udito non si può sentire,
ciò che permette all’udito di udire,
questo in verità conosci come Brahman,
non ciò che la gente venera.

Ciò che non è respirato dal respiro,
ciò che permette al respiro di respirare,
questo in verità conosci come Brahman,
non ciò che la gente venera.