365 giorni, Libroarbitrio

“Che sia un’estate senza rospi sul cuore” Fiori di pesco e pagine scritte – di Martina Benigni

Il 12 dicembre 2020 salpavamo insieme alla volta di questo viaggio fra libri, poesie, riflessioni, paesi del mondo e posti del cuore. Non sapevamo dove saremmo giunti, né come ci saremmo arrivati, sapevamo, però, che era necessario partire, spiegare le vele e lasciarle gonfiare dalla brezza del nostro sentire, senza rotta, né mappa, perché l’unica rotta possibile è il Viaggio stesso.

Spero di essere riuscita a farvi compagnia in questi mesi incredibili, tremendi e meravigliosi, nei quali ognuno di noi, giorno dopo giorno, ha portato avanti il proprio cammino, trasformandosi, spero, senza sosta. Ci siamo scritti, ci siamo letti, ci siamo districati fra gli impegni quotidiani per ritrovarci qui ogni sabato, come le foglie che cadendo, o volteggiando spinte dal vento, tornano sempre alla radice.  In questo viaggio nel quale ci siamo tenuti “virtualmente” per mano, siamo stati in Italia, in Cina, tra le montagne della Resistenza, nei passi infiniti dei migranti e dei viandanti, fra le rime di un verso e in tanti altri posti, reali e sognati, tutto, in fondo, per dedicarci alla ricerca continua dell’Isola Sconosciuta, quella di cui parla Saramago, e della Spiaggia dei Sogni dell’ “Onda Perfetta”,  luoghi a cui tutti tendiamo pur senza saperlo.

Ho cercato di farvi conoscere autori e autrici in base alle mie esperienze e alle mie conoscenze, che grazie a voi ho avuto la possibilità di ampliare, ed è sempre grazie a voi se, oggi, ho ancora più voglia di leggere e di scoprire cose e parole nuove. Ma, più di tutto, voglio ringraziarvi perché di settimana in settimana, scrivendo, sono riuscita a conoscermi sempre meglio e a scoprirmi sempre nuova. Perciò grazie a voi e, soprattutto, a Lié Larousse, che con i suoi capelli rossi profumati, la sua risata contagiosa e la sua dolcezza infinita, mi ha fatto dono di questa splendida possibilità, direttamente a “casa sua”: mi ha donato un posto dove ricercare e ricercarmi, dove far sentire la mia voce, con tutto il coraggio che serve, quello che lei riflette in ogni parola che scrive. Grazie.

Giugno è sempre stato il mese degli “arrivederci”, delle separazioni, delle serate in pizzeria per dirsi: “Ciao! Passa una bella estate.”  Giugno profuma di malinconia e sale sulla pelle, profuma di grattachecche sul lungotevere e maturità. Dietro a tutti questi profumi, però, si cela un retrogusto dolce e amaro di settembre e di scelte che verranno, perché settembre, si sa, è il mese delle scelte e del procrastinare, un po’ come gennaio, ma più bello.

E dunque, anche il “nostro” giugno è arrivato e a me non resta che salutarvi, cari compagni e care compagne di viaggio. Vi saluto e vi auguro di passare una bellissima estate, un’estate vera, pura, un’estate in cui spero possiate soprattutto trovare Tempo: tempo per la gioia, tempo per mettere in disordine e poi riordinare, tempo per la tristezza, tempo per fare un pensiero al tramonto ed uno all’alba, tempo per sognare e leggere un bel libro, tempo per fare ed essere ciò che volete. Vi auguro di imparare cose nuove ogni giorno, di imparare a fare spazio, e di amare, tanto e sempre. Vi auguro e mi auguro, permettetemi, di “togliere il rospo dal cuore”, quello di cui parla Antonio Gramsci nella lettera del 27 giugno 1932 alla sua amata Iulca.

Carissima Iulca,

ho ricevuto i tuoi foglietti, datati mesi e giorni diversi. Le tue lettere mi hanno fatto ricordare una novellina di uno scrittore francese poco noto, Lucien Jean, credo, che era un piccolo impiegato in una amministrazione municipale di Parigi. La novella si intitolava In uomo in un fosso. Cerco di ricordarmela.

Un uomo fortemente vissuto, una sera: forse aveva bevuto troppo, forse la vista continua di belle donne lo aveva un po’ allucinato. Uscito dal ritrovo, dopo aver camminato un po’ a zig-zag per la strada, cadde in un fosso. Era molto buio, il corpo gli si incastrò tra rupi e cespugli; era un po’ spaventato e non si mosse, per timore di precipitare ancora più in fondo. I cespugli si ricomposero su di lui, i lumaconi gli strisciarono addosso inargentandolo (forse un rospo gli si posò sul cuore, per sentirne il palpito, e in realtà perché lo considerava ancor vivo). Passarono le ore; si avvicinò il mattino e i primi bagliori dell’alba, incominciò a passare gente.

L’uomo si mise a gridare aiuto. Si avvicinò un signore occhialuto; era uno scienziato che ritornava a casa, dopo aver lavorato nel suo gabinetto sperimentale. Che c’è? Domandò. – Vorrei uscire dal fosso, rispose l’uomo. – Ah, ah! Vorresti uscire dal fosso! E che ne sai tu della volontà, del libero arbitrio, del servo arbitrio! Vorresti, vorresti! Sempre così l’ignoranza. Tu sai una cosa sola: che stavi in piedi per le leggi della statica, e sei caduto per le leggi della cinematica. Che ignoranza, che ignoranza! – E si allontanò scrollando la testa tutto sdegnato.

Si sentono altri passi. Nuove invocazioni dell’uomo. Si avvicina un contadino, che portava al guinzaglio un maiale da vendere, e fumava la pipa: ah, ah! Sei caduto nel fosso, eh! Ti sei ubriacato, ti sei divertito e sei caduto nel fosso. E perché non sei andato a dormire come ho fatto io? – E si allontanò, col passo ritmato dal grugnito del maiale.

E poi passò un artista, che gemette perché l’uomo voleva uscire dal fosso: era così bello, tutto argentato dai lumaconi, con un nimbo di erbe e fiori selvatici sotto il capo, era così patetico! E passò un ministro di Dio, che si mise a imprecare contro la depravazione della città che si divertiva o dormiva mentre un fratello era caduto nel fosso, si esaltò e corse via per fare una terribile predica alla prossima messa.

Così l’uomo rimaneva nel fosso, finché non si guardò intorno, vide con esattezza dove era caduto, si divincolò, si inarcò, fece leva con le braccia e le gambe, si rizzò in piedi, e uscì dal fosso con le sole sue forze. – Non so se ti ho dato il gusto della novella, e se essa sia molto appropriata. Ma almeno in parte credo di sì: tu stessa mi scrivi che non dai ragione a nessuno dei due medici che hai consultato recentemente, e che se finora lasciavi decidere agli altri ora vuoi essere più forte.

Non credo che ci sia neanche un po’ di disperazione in questi sentimenti: credo che siano molto assennati. Occorre bruciare tutto il passato, e ricostruire tutta una vita nuova: non bisogna lasciarci schiacciare dalla vita vissuta finora, o almeno bisogna conservarne solo ciò che fu costruttivo e anche bello. Bisogna uscire dal fosso e buttar via il rospo dal cuore.

Cara Iulca, ti abbraccio teneramente.

(Lettera di Antonio Gramsci a Giulia Schucht, 1932)

Grazie! Buona estate! Vi abbraccio più forte che posso.

Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Tram per Shanghai: viaggio tra i ricordi e i racconti di Zhang Ailing – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

La malinconia ha le sue leggi, ti viene a trovare quando meno te lo aspetti e ti resta attaccata come il sale dopo un tuffo in mare. Per me è una presenza costante, mi accompagna dovunque vada, solo che a volte tace, seguendomi in punta di piedi, e allora mi illudo che non ci sia. Oggi, invece, mi ha colpito in pieno petto mentre, aspettando il tram, mi ero persa con lo sguardo fra gli altissimi cipressi del Verano, custodi di lacrime e memorie. Il mondo intorno a me faceva tanto rumore: imprecazioni varie per il ritardo, chiacchiere impastate di fumo, scampanellii e clacson rabbiosi, eppure in quell’attimo mi sembrò di non sentire nulla, o meglio, di riuscire solo a percepire quel suono quasi ineffabile della brezza leggera che fruscia tra i bigliettini rossi traboccanti desideri appesi qua e là nei templi buddhisti cinesi. La prima immagine che mi tornò in mente fu quella del tempio del Buddha di giada a Shanghai, un luogo fuori dal Tempo e dalla metropoli, nonostante poco al di sopra delle mura si possano scorgere i grattacieli che invadono la città.

Shanghai, la “Perla d’Oriente”, è una signora elegante, vecchia e modernissima al tempo stesso. Situata sul delta del Fiume Azzurro, può permettersi il lusso di affacciarsi sul Mar Cinese Meridionale, mentre al suo interno è percorsa da un’arteria pulsante, meglio nota con il nome di fiume Huangpu. Salita sul tram, vedo scorrermi davanti il Bund di Shanghai con la Pearl Tower abbellita da migliaia di luci al neon, a fare capolino dal lato opposto. Dopo un attimo, ecco passare una via di cui non so il nome, ma larghissima e affollatissima: mi vedo schiacciata tra la gente come una formica, e allora, esausta, esco dalla laboriosa calca e mi dirigo verso una viuzza grigia per riprendere fiato. Qui la città sembra silenziosa, mi chiedo se sia ancora la stessa di un secondo fa. Che abbia attraversato qualche confine che ignoravo? No, è sempre la “Parigi d’Oriente, ma della Concessione Francese c’è ben poco qui: non ci sono bar alla moda né forzati accenti inglesi, ma ci sono signore che cucinano su carretti ingialliti dal tempo e dalla frittura, e tanti, tanti operai, con i caschetti gialli e i pantaloni macchiati. Forse vanno a costruire nuovi palazzi in centro o magari qualche albergo di lusso che nemmeno gli “stranieri” più ricchi riescono a permettersi.

Prima fermata, Via dei Sardi, però quando le porte si aprono, mi sembrano quelle del negozio di ravioli dove, dopo un’ora di fila, sono riuscita finalmente ad assaggiare uno di quelli tipici della città, con la zuppa dentro che ti esplode in bocca come uno tsunami di sapori infuocato. Le cuoche avranno la mia età, sono timide ma si lasciano fotografare volentieri dai turisti e ridacchiano tra loro mentre con le dita, velocissime, chiudono un raviolo dopo l’altro. I negozi di souvenirs hanno tutti le stesse cose: nodi rossi portafortuna, monete antiche, calamite della Grande Muraglia, bracciali con perline di legno per le preghiere e chi più ne ha più ne metta. La parte migliore, però, è contrattare con i negozianti in una battaglia all’ultimo Yuan solo per divertirsi a fingere di andar via per farsi rincorrere con l’ultima offerta, che non è mai l’ultima, si sa.

L’umidità di Shanghai, nel frattempo, ha assalito i finestrini del tram e dentro si inizia a sudare, proprio come quel giorno al Giardino del Mandarino Yu (Yu Yuan) dove mi sono ustionata il naso prendendo il sole, seduta sulle pietre del lago Tai incastonate fra le piante più disparate. Una vera oasi, un luogo incantato, nel centro di una delle città più all’avanguardia d’Asia, fra le architetture orientali e l’equilibrio perfetto tra il mondo umano, la casa, e la natura tutta intorno con fiori, alberi, rocce, e laghetti colmi di pesci. In Cina, sin dall’antichità, vige un pensiero per il quale gli opposti non vengono praticamente mai contemplati, tutto è complementare, e così il microcosmo, il mondo umano, è parte integrante e fondamentale del macrocosmo, il mondo naturale e i suoi prodigi.

Ecco la mia fermata, Scalo San Lorenzo. Scendo senza pensarci nemmeno, e mi siedo sulla prima panchina che incontro. Lascio che il sole mi riscaldi il cuore mischiandosi a quella malinconia che già da un po’ stava facendo il suo lavoro, regalandomi di nuovo le sensazioni indimenticabili di quel soggiorno a Shanghai, ormai lontano. La vita scorre veloce al ritmo frenetico della tecnologia e del PIL che cresce a dismisura, ma di Shanghai ho apprezzato soprattutto il fascino antico dei Longtang, vie d’altri tempi che danno vita a veri e propri blocchi di abitazioni dette Shikumen, letteralmente “porta di magazzino in pietra”, che fondono architettura cinese e occidentale in due o tre piani, decorati dalla quotidianità più disarmante, quella che ti riempie gli occhi di una bellezza tutta famigliare che sa di domeniche e pasta fatta in casa. 

Mentre gusto queste dolcissime memorie all’aroma di tè, ripenso alla Shanghai che non ho conosciuto, quella degli anni ’40 che però ho immaginato tante volte grazie alle parole della scrittrice Zhang Ailing (1920-1955) che, cosmopolita come la sua città, ha saputo ritrarre soprattutto le donne di questa ormai megalopoli, con tutte le loro emozioni ed immerse nel loro mondo, costellato di eleganti qipao, tradizionale abito femminile, e vivaci salotti. Mi sembra di sentire il rumore delle tessere di majiang che vengono spostate e rimischiate continuamente nella speranza di trovare la giusta combinazione, un po’ come si fa per la vita. Zhang Ailing in racconti come “Lussuria” – da cui l’omonimo film- ci racconta la Shanghai della guerra antinipponica, dello spionaggio e degli intrighi, dei tradimenti e degli ideali ma soprattutto degli amori che, spesso, si rivelano fatali soprattutto per le donne che mettono sempre un po’ di cuore in più. L’autrice guida il lettore per le vie più distinte e gli anfratti più deprimenti, passando sempre per i fitti pensieri dei suoi personaggi e dedicando ampie pagine descrittive agli oggetti, a tutti quei piccoli dettagli che contribuiscono a costruire in maniera credibile l’atmosfera di un’epoca.

Sperando di avervi invogliato a compiere questo viaggio nel tempo e nello spazio vi lascio un estratto da “Lussuria”:
“Sopra il tavolo da majiang la luce resta accesa anche di giorno e, quando si mescolano le tessere, gli anelli di diamanti sprizzano bagliori a destra e a manca. La tovaglia bianca, i cui angoli sono fissati alle quattro gambe del tavolo, è così perfettamente tesa da sembrare ancora più bianca, d’un candore niveo, quasi abbacinante. L’intenso contrasto tra luci e ombre mette in risalto i seni ben modellati di Jiazhi, e il suo viso, che regge bene anche la spietata illuminazione dall’alto.”

(Zhang Ailing, “Lussuria”, trad. it. M. Gottardo e M. Morzenti, 2007)

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

“Il racconto dell’Isola sconosciuta” José Saramago – la nostra infinita ricerca – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Ogni libreria è un mondo a sé: c’è chi ama ordinare i libri per genere, chi per autore, chi per copertina e chi per niente. I libri, per me, sono sempre stati, e sono, una sorta di calamita, o, forse, una bussola, con la quale orientarmi e perdermi infinite volte. Se vi mostrassi la mia libreria, perennemente in costruzione, notereste subito la presenza di un signore silenzioso, con gli occhiali spessi e le parole giuste sempre a portata di mano. I suoi libri, a mio dire, non sono per nulla semplici, eppure c’è una forza, una profondità luminosa, capace di tenerti incollato alle pagine sino a notte fonda.

José Saramago (1922-2010) è uno di quegli scrittori che tutti dovremmo leggere almeno una volta nella vita: non importa quale libro scegliate, vi troverete sempre grandi verità, anzi, grandi dubbi e spunti di ricerca, soprattutto interiore. Chi conosce l’autore, sa quanto fitte siano le sue pagine: la punteggiatura segue regole proprie, i periodi sono lunghissimi, e spesso, si arriva al punto senza fiato, boccheggiando. I dialoghi devono essere intuiti, non c’è alcuna virgoletta a segnalarne l’inizio, una foresta di virgole che si fondono le une sulle altre, fino al punto e al nuovo capitolo, spesso privo di nome. Tutto ciò richiede un certo coraggio, non solo per via della forma non sempre scorrevole, ma anche per le tematiche universali che l’autore tratta con la dolcezza, e la crudezza, del poeta, quale fu. Richiede quel coraggio che lo stesso Saramago metteva in ogni singola parola, in quel suo portoghese che, come pochi prima di lui, ha saputo riscoprire e rivoluzionare.

Lo scaffale dedicato a Saramago sta lentamente crescendo, unendosi a libri di scrittori di altri paesi ed altre epoche, che mi piace immaginare si parlino muti nella lingua dell’inchiostro. Ad ingrandire le fila di questo scaffale, qualche tempo fa, è arrivato un libricino di circa quaranta pagine, ma di grande significato: quasi una sintesi di un pensiero che si lascia sfuggire a qualsiasi semplificazione, ed infatti Saramago non semplifica mai.

“Il racconto dell’isola sconosciuta” (1997) è una favola moderna, un sogno che echeggia nella brezza marina dell’alba, è un inno alla ricerca di sé, perché l’Isola, si intuisce subito, siamo noi stessi. La storia si muove sulle gambe di due protagonisti: un uomo che vuole una barca, e una donna delle pulizie che passa per la “porta delle decisioni”, che “viene usata di rado, ma quando viene usata, lo è per davvero”.
L’uomo chiede una barca al re per andare alla ricerca di un’isola sconosciuta, il re lo prende per pazzo perché di “isole sconosciute non ce ne sono più, ma l’uomo non si scoraggia. Alla fine, il re che non vede l’ora di tornare alla sua “porta degli ossequi”, si decide a dare la barca all’uomo. Arrivato al molo, scopre che la donna delle pulizie che lavorava per il re, lo aveva seguito per mettersi con lui in mare, costi quel che costi. Diventa chiaro da subito che è la donna il personaggio positivo del racconto, proprio come in “Cecità” ed in altri romanzi dello stesso autore, è lei infatti a spronare l’uomo a mettersi in viaggio nonostante le difficoltà perché non ci si può “perdere d’animo alla prima contrarietà”.


Il viaggio alla scoperta dell’isola, e dunque di sé stessi, è un viaggio inesauribile, bisogna essere pronti a tutto con la nostra caravella, il mare non è sempre calmo, spesso è “tenebroso”, ma proprio allora si diventa veri navigatori, perché non c’è miglior insegnante del mare stesso. Dalla riflessione dei due sul senso dell’Isola e dell’Essere, scaturiscono meravigliosi versi che narrano di Noi e che ci invitano a continuare il viaggio, o a salpare, di nuovo e sempre: “Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi.”

La meravigliosa “favola” di Saramago, però, non avrebbe potuto avere luogo senza il rapporto tra i due: un rapporto di desiderio reciproco, rispetto e riconoscimento dell’identità dell’altro. Sebbene la ricerca dell’isola sia personale e per tutti diversa, essa non potrebbe avere luogo senza il rapporto con gli altri, proprio come scrisse il poeta inglese John Donne (1572-1631):  “No man is an island entire of itself”, nessun uomo- essere umano- è un’isola, siamo tutti parte di un insieme più grande, di un mondo unico, un universo, verrebbe da dire, di cui facciamo parte e nel quale nessuno potrebbe essere completamente senza l’altro, senza il rapporto, appunto.

Che possiate, dunque, più che trovare l’isola, avere il cuore di salpare, mollare gli ormeggi, di mettervi in viaggio e di ricostruire la caravella tutte le volte che vi sarà necessario, di rinnovarla e abbellirla, di invitarvi altri viaggiatori e di navigare a lungo con i sogni nelle vele.

“L’uomo e la donna andarono a dipingere sulla prua dell’imbarcazione, da un lato e dall’altro, a lettere bianche, il nome che ancora bisognava dare alla caravella. […] L’isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca di se stessa.”

Buon viaggio.

articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Paradiso – Er Pinto

 

Bosch-Giardino della delizia

Quanto è lontano da qui il paradiso?
Sembra vicino, lo sembra alle volte
Quando spiragli ci sfiorano il viso
Nei smarrimenti di notti sconvolte

Forse la vita è soltanto una scala
Ed ogni giorno soltanto un gradino
Verso qualcosa che infine regala
La pace ed il senso del mero destino

Son contenitori di sogni e energie
I nostri corpi, che ne misurano il viaggio
Per accettarlo scrivo poesie
Le mie fantasie mi rendono omaggio

Non c’è nessun Dio che ci dà la forza
Niente è infinito così è la natura
Che così bella ci incanta e si sforza
Di farci coraggio se abbiamo paura

La sensazione di essere vivo
Che provi se guardi un cielo stellato
È il vero segnale, il gesto incisivo
Che il dono prezioso è l’essere nato

Salgo le scale sudandone il prezzo
Non c’è l’inferno, non c’è il paradiso
Ogni scalino che salgo la apprezzo
La vita ti ha dato, la stessa ti ha ucciso

Se fosse freddo come d’inverno
L’inferno che invece pensiamo di fuoco
Se fosse vivere e pensare in eterno
Il vero finale, la beffa del gioco

Se fosse calda come l’estate
La lacrima che ti solletica il viso
Se fosse l’occhio nelle passeggiate
La porta segreta che è già il paradiso

Er Pinto

Opera pittorica
Il giardino delle delizie
di Hieronymus Bosch

365 giorni, Libroarbitrio

Piccola come un granello ama – Pierluigi Ferrari

Confession, by Jack Vettriano

Vado verso te
Sconosciuta
Ma già vissuta
Donna forte
Con note stonate
Ma donna
Vera
Quanto sei vera
Ti guardo
E aspetto
Vieni da me
Mi fermo
E aspetto
Non capisco
Ma aspetto
Non ti turbo
Ti osservo
E ti stimo
Ti vedo lontana
E ti ammiro
Mi fermo e rifletto
Sei tu che voglio
Ma sei lontana
Ma ti aspetto
Mi aspetto di tutto
Un sorriso
Un bacio
Un saluto
Vabbene lo ammetto
Tu mi piaci
Però io rifletto
Ti guardo
Ti penso
Ti sogno
E lo ammetto
Sono nel letto
E ti penso ancora
Piccola come un granello
Che cambia il mio sguardo
Il mio umore
Questo è amore
Ti aspetto
Aspetto che parli
Aspetto che parti
Ma rimango fermo
A seguire i tuoi passi
Spero nel meglio
Per me
Per te
Ora vai
Non pensarmi
Pensa a te
E non guardarmi
Io sono grande
So capire se rimani
O se per piacere
Vuoi allontanarti
Vai
Corri
Vivi
E ama
Come piace a me
Senza regole
Senza chiedersi perché.

365 giorni, Libroarbitrio

Avventura – Elsa Morante

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Come una rosa in un giardino
d’Africa o D’Asia assai lontano,
come una bandiera alzata
in cima ad una nave pirata,
come uno scudo d’argento
appeso in un barbaro tempio,
feroce lotterò per il tuo indolente cuore,
l’eroico, il tuo regale, intatto cuore,
il cuore dell’amore mio.

Lungo e incerto
il mio viaggio sarà.
Inesperta son io,
ma viva o morta giungerò.

Addio, dunque, parenti, amici, addio!

Prima bisogna guardare il lago stagnante
della paura,
e i Grandi Orgogli oltrepassare,
fastosa catena di rupi.
Snidare bisogna l’invidia che s’imbosca
e i mostri di gelosia mettere in fuga,
per notti occhiute, selve purpuree,
dove incontrare potrò centauri e ippogrifi,
e bere il magico sangue dei narcisi.
Si levan poi le triplici mura di Sodoma
attorno a campo straniero
dalle sette torri merlate.
Incantare dovrò i guardiani,
riscattare le spose comprate,
e a lungo errerò per corti e fughe di scale,
tra un popolo d’echi e d’inganni
fino alla cara porta del tuo cuore, che reca la scritta crudele:
Indietro, o pellegrina. Qui, amore non si riceve. Pena la morte

Ah, fossi alato usignolo, foss’io centaura,
ah, sirena foss’io,
ma non sono che una semplice ragazza
dalla mente più leggera del fuoco
non torno indietro, il solo mio valore
è questa impresa
alla conquista del tenero assassino
a me caro.

365 giorni, Libroarbitrio

Senza stelle – Lindze

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E come fosse un quadro
dipinto da un pittore
depresso e stanco
fisso questo cielo nero
dove solo poche
tenaci stelle
sopravvivono
a questa città scellerata
che tutto fagocita,
anche la gloria
di uno stellato
cielo notturno.
E sporadica,
in questa immagine fissa
che ha i tempi dell’eterno,
una luce passa
lontana e pulsante
persa in quell’oceano di scuro.
E immagino
le vite in essa racchiuse
dove mai siano dirette
quel pulviscolo di consapevolezza
in quell’immenso immanente e meccanico.
E le invidio
per il loro essere
in viaggio, tese in una retta
inesorabile e fragile
io che sto qui sdraiato
statico in uno stallo
senza sonno
senza troppa speranza.
Solo i miei  pensieri
per viaggiare,
solo le mie parole per trovare
una sorta di pace,
possano
almeno loro
viaggiare lontano.

365 giorni, Libroarbitrio

E ti senti uno sconosciuto – Wislawa Szymborska

Ibrahim Canakci

E voleva comprare un biglietto,
andarsene via per un po’,
scrivere una lettera,
spalancare la finestra dopo la pioggia,
aprire un sentiero nel bosco,
stupirsi,
guardare il lago
increspato dal vento.

Conosciamo noi stessi solo fin dove
siamo stati messi alla prova.
Poi?
Ti senti uno sconosciuto.

 

 

365 giorni, Libroarbitrio

“Un mattino” Mark Strand

Stellium Luna d'ambra

L’ho portato con me ogni giorno, il mattino che presi
la barca di mio zio dalla cala d’acqua bruna
e puntai su Mosher Island.
Increspature si frangevano sulla carena
e il cigolare sordo di scalmo e remo
s’alzava nei boschi di pino nero incrostati di licheni.
Mi muovevo come una stella oscura, alla deriva sulla metà
affogata del mondo fino a che, per un suggerimento arcano,
guardai fuoribordo e vidi sotto la superficie
una stanza luminosa, una tomba colma di luce, vidi per la prima volta
l’unico luogo limpido che ci è dato quando siamo soli.