365 giorni, Libroarbitrio

“Insediare l’uomo” Antonin Artaud

by Nadezhda Illarionova

Nel 1920 scrivevo poesie,
anche nel 1913,
ciò che non mi è mai riuscito,
quelle poesie erano odiose,
odiose per tutta la mia vita, così trascorsa fianco a fianco con la poesia.
La senti, la vivi, la soffri soprattutto, ah come la soffri e come brucia quando non è là, la poesia.
E tuttavia lei non è là – la soffri e lei non è là.
E’ così che, mentre volevo scrivere poesie che fossero là,
sono passato a fianco della poesia, ma soprattutto a fianco di me
– e non ho cominciato a sentire qualcosa, e me stesso a sentirmi là,
che a partire dal giorno che mi sono ostinato, accanito, aggiogato,
fissato nel dire che non c’era mai stato niente né nessuno,
che il presente era un abisso, un vampiro,
e l’avvenire un presente mai presente.
Cosa fare quando si cerca una poesia?
Dei capezzoli affilati che si muovono al respiro di tutto il corpo
e non soltanto del polmone che dorme.
Vecchio affare di scorbuto, di sifilide, di peste, vecchia talea di cefalgia,
ignobile bagno di giorno la notte,
quando la pipì fuoriesce dall’inchiostro e frigge.
Mai un poeta finora ha detto quello che aveva iniziato a cuocere,
a scaldare nel suo forno interiore quando brancolava nel suo scritto,
brancolando nel non-scritto a margine di tutti gli scritti.
Quando lo dirà?
Quando tutto lo scritto sarà andato.
Quando si metteranno i poeti morti in gabbia,
quando si sarà terminato di soffocare le larve che rivendicano la poesia.
Perché nessun poeta è mai stato capace di apprendere da un poeta altro che sé stesso.
Bisogna fare il vuoto quando si scrive.
E questo spiega perché sono riuscito a scrivere a partire dal giorno in cui ho deciso di non scrivere,
per dire che non potevo penetrare lo scritto.
I veri poeti sono quelli che si sono  sempre sentiti malati e morti
mentre consumavano il loro essere,
i fasulli quelli che hanno sempre voluto essere in buona
salute e vivi quando soggiogano l’essere altrui.
E morti dai secoli dei secoli, morti, essi continuano a voler imporre la loro abbietta paccottiglia
a quei morti che soffrono in piedi davanti alla poesia da quattro soldi
che non contiene che i loro lamenti,
perché se nel 1913 non sapevo per quale ragione non potessi mai scrivere
ora so che è per una semplice,
semplicissima storia di vampiri che si andava forse a vedere al cinema
ma non pensate di inseguirli come uomini, per esempio, in piazza d’Alésia.
Perché è nei vivi che soggiornano queste corti di morti impuniti
e un poeta geloso morto da cinquanta secoli
non è più adesso che un re dei fissi in vita
che, nel vuoto degli scorbuti, delle pesti, delle sifilidi provenienti dalle mie viscere,
sputa dicendo che è finita,
che la mia poesia è finita
e non so più quello che scrivo.

365 giorni, Libroarbitrio

“Dracula” Bram Stoker

Patrizia Risaliti - Due

“Due” opera pittorica di Patriza Risaliti 

Diario di Jonathan Harker
Quando ho scoperto d’esser prigioniero, una sorta di ira selvaggia si è impadronita di me. Correvo su e giù per le scale, provando le porte una ad una, e scrutando da ogni finestra che trovavo; ma dopo un po’ sono stato sopraffatto da una sensazione di totale impotenza. Ripensandoci adesso, dopo qualche ora, credo di essere stato fuori di me, perché mi sono comportato come un topo in trappola. Alla fine, certo dell’inutilità di qualsiasi tentativo, mi sono seduto con calma – la stessa con cui ho sempre affrontato gli eventi della vita –  e ho cominciato a pensare cosa fosse meglio fare. Ci sto ancora pensando, e finora non ho trovato una soluzione certa. Solo di una cosa sono sicuro: è inutile parlarne al Conte. Egli sa bene che sono prigioniero; e poiché è stato lui a volerlo, avrà le sue ragioni, e se gliene chiedessi spiegazione mi darebbe certo false risposte. A mio parere, il mio unico piano può essere tenere per me quanto so, tutte le mie paure, e stare con gli occhi ben aperti. So bene che o sono i miei timori a ingannarmi, come accade ai bambini, oppure mi trovo in una situazione molto difficile. 

J.H.