365 giorni, Libroarbitrio

James Joyce e il suo “monologo interiore”

Isola d’Elba 20 agosto 2013

James Joyce scrittore

Nacque a Dublino nel 1882 da una famiglia di forti tradizioni cattoliche e nazionaliste.

Studiò nei migliori collegi della sua città e il tipo di educazione ricevuta lo portò prima alle soglie del sacerdozio, poi a una violenta ribellione.

A Dublino, città in cui ambientò le sue maggiori opere narrative, rimase fino al 1904.

Pressato da difficoltà economiche e dall’insofferenza nei confronti dell’ambiente irlandese chiuso e conformista, si trasferì prima a Zurigo, poi a Pola e infine a Trieste, dove rimase fino al 1915 stringendo rapporti di amicizia con intellettuali e scrittori italiani, fra cui Italo Svevo.

La guerra lo costrinse a tornare a Zurigo, ma, al termine del conflitto si stabilì a Parigi, dove rimase per vent’anni frequentando letterati di ogni nazionalità ed entrando in contatto con il mondo della psicoanalisi.

Fu per curare la figlia Lucia che conobbe il famoso psicoanalista Carl Gustav Jung e poté approfondire quelle conoscenze di psicologia che saranno importanti per l’elaborazione del romanzo Ulisse, uno dei testi fondamentali della letteratura moderna.

La narrativa del primo Novecento non poteva rimanere estranea alle nuove idee scientifiche, come la teoria dell’inconscio di Sigmund Freud o la relatività di Albert Einstein, che sconvolgevano non solo le certezze del sapere filosofico e scientifico ottocentesco ma anche la concezione dell’individuo, il suo rapporto con lo spazio, il tempo la società.

Già nei primi racconti l’introspezione e l’indagine psicologica sono per Joyce al centro della narrazione.

Alla rappresentazione oggettiva della realtà egli sostituisce le infinite realtà che si riflettono nelle menti dei personaggi, alle figure eroiche preferisce quelle anonime, quotidiane; alla rappresentazione del tempo come sviluppo cronologico contrappone la sua percezione soggettiva e differenziata; al discorso lineare e ben costruito sostituisce le frasi spezzate, l’abolizione dei nessi logici, le parole inventate.

Nei romanzi, addirittura, abolisce la trama, lasciando al lettore il compito di ricostruirla.

Del resto, ciò che contava per Joyce non era tanto rappresentare la connessione di fatti esterni, quanto il flusso dei personaggi .

Questa tecnica, detta “monologo interiore”, implicava la ricerca di un nuovo linguaggio libero dai vincoli tradizionalmente imposti dalla sintassi, dalla struttura e dal significato comune delle parole.

Dopo aver ottenuto dai critici francesi i primi riconoscimenti, allo scoppio della seconda guerra mondiale Joyce si trasferì definitivamente a Zurigo, dove morì nel 1941.

Joyce pubblicò nel 1915 i racconti Gente di Dublino, i romanzi Ritratto dell’artista giovane nel 1916 e La veglia di Finnegan nel 1939, inoltre fu poeta con Musica da camera 1907 e Poesie da un soldo, 1927.

A domani

LL

365 giorni, Libroarbitrio

La poesia per Mallarmé musicata da Claude Debussy

Roma 12 luglio 2013

La tensione principale della poetica di Mallarmé, naturale sviluppo del processo iniziato da Baudelaire, fu la volontà di realizzare una poesia pura, capace di esprimere l’assoluto e l’inesprimibile, concetti nascosti nell’intimo delle cose e della realtà.

Spogliata di ogni ambiguità descrittiva e sentimentale, la poesia per Mallarmé si realizza in uno spazio astratto e allusivo, dove simboli ed emblemi vivono illuminati da una luce intellettuale.

In questa prospettiva, anche la parola, colta nella sua rarefatta preziosità, presenta una trama di suggestioni misteriose e musicali e campeggia magicamente in un contesto di rottura  della sintassi e della grafica tradizionale.

L’opera poetica di Mallarmé comprende i due famosi poemetti Erodiade e Pomeriggio di un fauno, la raccolta Poesie, in prosa scrisse Divagazioni.

Pomeriggio di un fauno fu musicato da Claude Debussy tra il 1882 e il 1884.

Di tale componimento Mallarmé, dopo averlo ascoltato in casa dello stesso Debussy, disse:

” Non mi aspettavo una cosa simile! Questa musica prolunga l’emozione del mio poema e ne descrive lo scenario più appassionatamente del colore”.

A domani

LL

 

365 giorni, Libroarbitrio

Il romanzo latino: l’Eritreo

Roma 25 marzo 2013

Il romanzo a chiave nel Seicento era un modo per affrontare la realtà, mascherandola e smascherandola insieme, in quest’epoca di particolari successioni storiche politiche: ma il gioco delle maschere e dei labirinti, il moltiplicarsi di un personaggio in altri che lo riflettono era un atteggiamento letterario che si scindeva all’allegoria e come appena detto affamato di  situazioni e necessità politiche che poi andavano riproducendosi in abili poetiche successioni di racconti.

La lingua latina non era soltanto l’espressione di una certa cultura, dell’erudizione, della teologia e della Chiesa, ma era anche l’espressione di una forma di propaganda pubblicistica. L’uso di un linguaggio abbastanza conosciuto da essere un elemento della realtà contemporanea, ma insieme abbastanza raro e convenzionale per essere elemento di stilizzazione e di fissazione, può prestarsi opportunamente a rendere il processo allegorico del romanzo a chiave.

L’opera più letterariamente complessa ed ambiziosa dell’autore italiano Gian Vittorio Rossi è l’ Eudemia. Portato ad uno spiccato senso dell’analisi psicologica, la sua produzione si basa sullo studio dei personaggi,di ritratti di ambienti e di caratteri.

Nato a Roma nel 1577, dottore in legge nel 1596, Gian Vittorio Rossi, si dedicò per molta della sua vita allo studio e alle dotte amicizie. Col suo latino sicuro ed elegante, pieno di nostalgia umanistica veniva riflettendo sulla sua esperienza religiosa che lo portò al servizio del cardinale Andrea Perretti per diciotto anni. Janus Nicius Erythraeus così prese a farsi chiamare, riproponeva le sue riflessioni culturali e del mondo contemporaneo in lavori di scrittura, di fatti  meravigliosi e miracolosi, vere e proprie opere letterarie come la Pinacotheca, Omiliae, Documenta sacra ex evangeliis, Exempla virtutum et vitiorum, ed Epistulae. 

In continua osservazione privilegiando la  dotta satira, compone nel 1664 un romanzo latino l’Eudemia, dove il motivo di un viaggio e di un approdo in terra sconosciuta serve per una ricostruzione reale e fantastica della  Roma contemporanea, in essa l’autore avversa la moda degli scrittori contemporanei rievocando ed invocando l’antica chiarezza: egli si meraviglia che si debba espressamente cercare l’oscurità e rintracciare la vera dottrina e il vero valore nella presunta docta obscuritas.

A domani

LL