365 giorni, Libroarbitrio

Italo Calvino e la Resistenza – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Il 25 Aprile 2020 “Bella Ciao” passava a tutto volume fra le strade deserte d’ Italia costellate di cuori appesi ai balconi. Ricordo che c’era un bel sole e la realtà, seppur incerta, sembrava meno opprimente. Cantai quest’inno più volte e mentre le lacrime mi rigavano lentamente il viso, mi sentii abbracciare da migliaia di corpi invisibili, da una storia che parlava anche di me, di noi. Passai l’interna giornata ad ascoltare le storie delle partigiane e dei partigiani, ad immaginarmeli giovani e coraggiosi, spaventati ed innamorati. Una di loro raccontò dell’ultima volta in cui fece l’amore con il suo uomo, fra i campi, laddove si consumava la lotta, e di come le fossero rimasti i segni sulla schiena, forse i più belli mai avuti. La libertà mi sembrò davvero una cosa semplice allora…

Quest’anno le strade saranno un po’ meno deserte, forse, in apparenza. Mi domando se riuscirò a portare un fiore rosso per le vie, se riuscirò a fare qualcosa, se riuscirò a sentirmi parte di un sogno o di una speranza, parole che come mai sembrano mancare all’appello. Spesso mi sono sentita dire che la Resistenza è finita ed è ora di andare avanti, quasi fosse un “inciampo” della storia, ma penso che, invece, ci sia ancora tanto da fare, e che la nostra piccola resistenza quotidiana possa davvero fare la differenza. Proprio come può farla leggere un libro, e lo sapevano bene i nazifascisti che, infatti, ne bruciarono a migliaia senza riuscire ad incenerire le idee.


“Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino (1923-1985), può essere considerato un classico della letteratura della Resistenza: è stato letto e riletto- forse non abbastanza- ma come diceva lo stesso autore: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” e sembra impossibile dargli torto. Questo romanzo neorealista fu pubblicato nel 1947 da Einaudi, riscuotendo da subito un grandissimo successo. Fra gli altri, lo stesso Cesare Pavese (1908-1950) scrisse una recensione al bellissimo romanzo, commentando: “A ventitré anni ltalo Calvino sa già che per raccontare non è necessario «creare i personaggi», bensì trasformare dei fatti in parole. Lo sa in un modo quasi allegro, scanzonato, monellesco. A lui le parole non fanno paura ma nemmeno gli fanno girare la testa: fin che hanno un senso, fin che servono a qualcosa le dice, le snocciola, le butta magari, come si buttano i rami sul fuoco, ma lo scopo è la fiamma, il calore, la pentola.”

La storia, per chi non la conosce, è quella di un bambino del “carrugio”, “sboccato” e “cencioso” di nome Pin, fratello di una prostituta che si ritrova ad andare anche con i tedeschi, cosa che gli costerà le canzonature di tutti gli abitanti del borgo ligure dove vive. Il piccolo Pin ha circa dieci anni ma vuole fare l’adulto e passa le giornate all’osteria fra alcol, sigarette e parolacce, imitando tutti i comportamenti che vede fra i grandi intorno a lui. Un giorno, per provare il suo coraggio, ruba la pistola P38 di un tedesco, cliente della sorella, e va a nasconderla in quel posto speciale che conosce solo lui: il sentiero dove fanno il nido i ragni. Arrestato per il furto, finirà in carcere dove conoscerà alcuni partigiani, ai quali dopo una serie di peripezie finirà per unirsi, costruendo, poi, un rapporto importante e profondo con uno di loro, Cugino.

La storia è ricca di dettagli che rendono il tutto più vivido e vissuto: si ha l’impressione di sentire il freddo della montagna entrare nelle ossa, mischiato all’odore dei campi dorati macchiati di sangue. Viene voglia di abbracciare Pin e di sedersi a mangiare con la brigata per parlare di marinai e di sirene, di amori veri e strade sbagliate, dei sogni di democrazia, dell’Italia liberata e di come migliorarla. I partigiani di Calvino, va detto, non sono degli “eroi”, non hanno tratti nobili, ma piedi lerci e cuori grandi. Sono, come confessa l’autore, i “peggiori possibili”, dei tipi un po’ “storti” che però, nonostante tutto, furono guidati da un grande senso di giustizia e da “un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi”.
La mia piccola resistenza di oggi è quella di condividere con voi un piccolo estratto di questo romanzo perché i libri dicono già tutto, basta solo trovare il coraggio di leggerli.

Buon 25 Aprile!

“Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano.”

Articolo Martina Benigni

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“Il racconto dell’Isola sconosciuta” José Saramago – la nostra infinita ricerca – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Ogni libreria è un mondo a sé: c’è chi ama ordinare i libri per genere, chi per autore, chi per copertina e chi per niente. I libri, per me, sono sempre stati, e sono, una sorta di calamita, o, forse, una bussola, con la quale orientarmi e perdermi infinite volte. Se vi mostrassi la mia libreria, perennemente in costruzione, notereste subito la presenza di un signore silenzioso, con gli occhiali spessi e le parole giuste sempre a portata di mano. I suoi libri, a mio dire, non sono per nulla semplici, eppure c’è una forza, una profondità luminosa, capace di tenerti incollato alle pagine sino a notte fonda.

José Saramago (1922-2010) è uno di quegli scrittori che tutti dovremmo leggere almeno una volta nella vita: non importa quale libro scegliate, vi troverete sempre grandi verità, anzi, grandi dubbi e spunti di ricerca, soprattutto interiore. Chi conosce l’autore, sa quanto fitte siano le sue pagine: la punteggiatura segue regole proprie, i periodi sono lunghissimi, e spesso, si arriva al punto senza fiato, boccheggiando. I dialoghi devono essere intuiti, non c’è alcuna virgoletta a segnalarne l’inizio, una foresta di virgole che si fondono le une sulle altre, fino al punto e al nuovo capitolo, spesso privo di nome. Tutto ciò richiede un certo coraggio, non solo per via della forma non sempre scorrevole, ma anche per le tematiche universali che l’autore tratta con la dolcezza, e la crudezza, del poeta, quale fu. Richiede quel coraggio che lo stesso Saramago metteva in ogni singola parola, in quel suo portoghese che, come pochi prima di lui, ha saputo riscoprire e rivoluzionare.

Lo scaffale dedicato a Saramago sta lentamente crescendo, unendosi a libri di scrittori di altri paesi ed altre epoche, che mi piace immaginare si parlino muti nella lingua dell’inchiostro. Ad ingrandire le fila di questo scaffale, qualche tempo fa, è arrivato un libricino di circa quaranta pagine, ma di grande significato: quasi una sintesi di un pensiero che si lascia sfuggire a qualsiasi semplificazione, ed infatti Saramago non semplifica mai.

“Il racconto dell’isola sconosciuta” (1997) è una favola moderna, un sogno che echeggia nella brezza marina dell’alba, è un inno alla ricerca di sé, perché l’Isola, si intuisce subito, siamo noi stessi. La storia si muove sulle gambe di due protagonisti: un uomo che vuole una barca, e una donna delle pulizie che passa per la “porta delle decisioni”, che “viene usata di rado, ma quando viene usata, lo è per davvero”.
L’uomo chiede una barca al re per andare alla ricerca di un’isola sconosciuta, il re lo prende per pazzo perché di “isole sconosciute non ce ne sono più, ma l’uomo non si scoraggia. Alla fine, il re che non vede l’ora di tornare alla sua “porta degli ossequi”, si decide a dare la barca all’uomo. Arrivato al molo, scopre che la donna delle pulizie che lavorava per il re, lo aveva seguito per mettersi con lui in mare, costi quel che costi. Diventa chiaro da subito che è la donna il personaggio positivo del racconto, proprio come in “Cecità” ed in altri romanzi dello stesso autore, è lei infatti a spronare l’uomo a mettersi in viaggio nonostante le difficoltà perché non ci si può “perdere d’animo alla prima contrarietà”.


Il viaggio alla scoperta dell’isola, e dunque di sé stessi, è un viaggio inesauribile, bisogna essere pronti a tutto con la nostra caravella, il mare non è sempre calmo, spesso è “tenebroso”, ma proprio allora si diventa veri navigatori, perché non c’è miglior insegnante del mare stesso. Dalla riflessione dei due sul senso dell’Isola e dell’Essere, scaturiscono meravigliosi versi che narrano di Noi e che ci invitano a continuare il viaggio, o a salpare, di nuovo e sempre: “Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi.”

La meravigliosa “favola” di Saramago, però, non avrebbe potuto avere luogo senza il rapporto tra i due: un rapporto di desiderio reciproco, rispetto e riconoscimento dell’identità dell’altro. Sebbene la ricerca dell’isola sia personale e per tutti diversa, essa non potrebbe avere luogo senza il rapporto con gli altri, proprio come scrisse il poeta inglese John Donne (1572-1631):  “No man is an island entire of itself”, nessun uomo- essere umano- è un’isola, siamo tutti parte di un insieme più grande, di un mondo unico, un universo, verrebbe da dire, di cui facciamo parte e nel quale nessuno potrebbe essere completamente senza l’altro, senza il rapporto, appunto.

Che possiate, dunque, più che trovare l’isola, avere il cuore di salpare, mollare gli ormeggi, di mettervi in viaggio e di ricostruire la caravella tutte le volte che vi sarà necessario, di rinnovarla e abbellirla, di invitarvi altri viaggiatori e di navigare a lungo con i sogni nelle vele.

“L’uomo e la donna andarono a dipingere sulla prua dell’imbarcazione, da un lato e dall’altro, a lettere bianche, il nome che ancora bisognava dare alla caravella. […] L’isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca di se stessa.”

Buon viaggio.

articolo di Martina Benigni

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DANIEL VARUJAN – IL CANTO DEL PANE

 

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Il Canto del Pane 

                                                                                                                           Luglio 1915 deserto d’Anatolia

Un giovane contadino miete la terra e canta poesie. Ha da poco compiuto il trentesimo anno di età. Si siede ai piedi di uno dei salici che costeggiano il fiume dove il bue s’abbevera. La carrareccia curva e una piccola casa di mattoncini rossi s’affaccia. Dalle finestre l’odore della pasta del pane adagiata in fazzoletti di lino a lievitare per la sera. E’ la mezza. Una pentola sul fuoco e una mano di donna che apparecchia la tavola. Il giovane contadino ha legato una bisaccia sulla cinta che gli tiene su il pantalone in vita, dentro c’è un piccolo quaderno rilegato dalle stesse mani che ora versano la minestra nei piatti, e una penna. L’odore della pasta del pane si mescola appena fuori dalla finestra con quello delle patate bollite e del fieno bagnato dal mezzogiorno.
– Daniel. Caro venite! E’ pronto!
Daniel Varujan volta lo sguardo alla scia della voce della donna, la sua donna. Sorride e svelto scrive:

Alla Musa

Come vigoroso il lavoratore afferra
la curva impugnatura dell’aratro,
lacera il fianco delle terre
e sotto il torrente dei raggi solari
i solchi aridi diventano fertili,

– Daniel se il brodo di patate si fredda poi non ti piace più! E non farmi gridare! Che il pane poi smette di crescere!
E Daniel ora quasi ride, sa che deve affrettarsi perché è vero, il brodo di patate freddo proprio non gli piace, ma il volto dolce e fintamente arrabbiato della sua amata, quello, gli piace tanto, come ogni cosa di lei, come

Come il grano fulvo nell’aia
si ammassa e i mulini ruggiscono;
come trabocca dalla vasca la pasta lievitata,
e il contadino la cuoce in forno
che è sempre acceso,

il piacere, il vigore creatore
che diffonde il pane,
tu insegnami, Musa mia amata,
Musa dei miei padri,

insegnami, e incorona di spighe la mia lira,
come questa penna, perché sull’aia,
alla fresca ombra del salice,
io mi possa sedere e generare
le mie canzoni, le mie poesie.

Daniel chiude soddisfatto il quaderno, lo ripone con la penna nella bisaccia e prende a correr verso casa, ma. I suoi passi risuonano in uno strano silenzio, poi un improvviso chiacchiericcio dall’interno della casa accompagna la presenza di due figure militari.
– Lei è il Signor Daniel Varujan, il poeta Daniel Varujan?
– Sì, sono io, come posso
– Ci segua per favore, prenda il documento di identificazione e ci segua, un semplice controllo.
La donna non riesce a trattenersi.
– Ma Daniel, stavo proprio dicendo ai signori che magari poi andare subito dopo pranzo, insomma, che modi sono questi e poi.
– Cara, copri il piatto, come dicono i signori sarò subito di ritorno, tu mangia non aspettarmi.
– No io ti aspetto invece
– D’accordo. Intanto potresti riporre questa, magari se ti va leggila, così poi mi dici se ti piace.
Daniel slega la bisaccia dalla cinta e la ripone nelle mani della giovane donna, prende il cappello dal portabiti, le dà un bacio, ed esce da casa a passo svelto. Lei lo insegue, il cuore in petto le batte fortissimo, lo tira a sé per un braccio, i militari si fermano innervositi.
Daniel ha quel sorriso buono negli occhi, la guarda per un tempo infinito.
Lei lo stringe fortissimo. All’orecchio si parlano piano.
– Allora vado a riordinare le tue poesie, e poi, e poi ti scaldo il brodo di patate, e non ti preoccupare di nulla e, e io ti aspetto!
– Amore mio, risolvo questa questione e torno.

Daniel Varujan quello stesso giorno fu mandato nel deserto, con altri uomini del suo paese, a camminare, senza metà, per nessun luogo, fino a morire di stenti.

                                                        Le sue poesie e quel che è stato della sua breve vita
potete leggerle, ed andare a conoscere la sua storia, visitando di persona
l’Isola di San Lazzaro Congregazione degli Armeni – Laguna di Venezia

Luglio 2016 – Venezia – Lié Larousse

365 giorni, Libroarbitrio

“Come di fossili e farfalle” Alessandro Baricco

Anne-Marie Zilberman - Larme d'or
E a proposito della quale ieri un vecchio amico mi ha chiesto, candidamente, se c’entrava qualcosa con le vicissitudini che mi stanno uccidendo in questi mesi e cioè nello stesso periodo in cui mi ritrovo a raccontare questa storia che, pensava il vecchio amico, poteva anche avere a che fare con la storia di ciò che mi sta uccidendo. La risposta giusta – no- non era difficile da dare, eppure sono rimasto in silenzio e non ho risposto niente, e questo perché avrei dovuto spiegare come tutto quello che scriviamo c’entra naturalmente con cosa siamo, o siamo stati, ma per quanto mi riguarda non ho mai pensato che il mestiere di scrivere si possa risolvere nel confezionare in modo letterario gli affari propri, col penoso stratagemma di modificare i nomi e talvolta la sequenza dei fatti, quando invece il senso più giusto di quello che possiamo fare mi è sempre parso mettere tra la nostra vita e quel che scriviamo una distanza magnifica che, prima prodotta dall’immaginazione, poi colmata dal mestiere e dalla dedizione, ci porta in un altrove dove risultano mondi, prima inesistenti, in cui quanto c’è di intimamente nostro, inconfessabilmente nostro, torna ad esistere, ma a noi quasi ignoto, e toccato dalla grazia di forme delicatissime, come di fossili e farfalle.

365 giorni, Libroarbitrio

“Ti condurrò fuori dalla notte” Giampaolo Pansa

Arlene Graston

Come le sembrava brutto, quell’uomo!
Brutto e abbastanza vecchio. Un magrone stagionato e rinsecchito, la fronte ossuta, le labbra avare.
Gli occhi no: erano di una persona triste, o sorpresa dal fotografo in un momento di malinconia, però possedevano un guizzo che l’attraeva, di determinazione e di dolcezza.
L’insieme le suggeriva un tipo abbastanza sicuro di sé, abituato a fare da solo, pratico. Ma anche alle prese con qualche pena segreta, immaginò lei, pur domandandosi se quest’ultima suggestione non le fosse dettata dal proprio stato d’animo, ossia dalla delusione disperata che l’assaliva in quegli istanti.
Nella sua casa di Parigi, Angela Mercier prese una lente d’ingrandimento e si chinò sulla pagina del “Corriere della Sera”, a scrutare con attenzione la fotografia dello sconosciuto. Ma da quello studio non ricavò nulla di nuovo. A parte una costatazione che riguardava lei: il suo cuore batteva sempre più svelto.
E le ordinava di piangere.

365 giorni, Libroarbitrio

“Il dio vicino” di Rabindranath Tagore

Moon 

Se vuoi riempire la tua brocca, vieni, vieni al mio lago.
L’acqua bagnerà i tuoi piedi e ti mormorerà
il tuo segreto.
La traccia della pioggia vicina è già sulla sabbia,
le nuvole sono basse sulla linea azzurra
degli alberi come i folti capelli sopra i tuoi occhi.
Conosco bene il ritmo dei tuoi passi:
batte nel mio cuore.
Vieni, vieni al mio lago, se devi riempire la tua brocca

365 giorni, Libroarbitrio

“Adrienne Mésurat” Julien Green

Bar aux le Folies Berger - Manet

In piedi, le mani dietro la schiena, Adriana guardava il “cimitero”. In casa Mesurat così chiamavano un gruppo di dodici ritratti appesi in sala da pranzo sopra una credenza, uno presso l’altro, in modo da coprire tutta una parete. Si contavano sette Mesurat, tre Serre e due Lécuyer, membri di famiglie imparentate ai Mesurat, tutti morti.
Fatta eccezione per un dipinto del quale riparleremo, erano di quelle fotografie come se ne faceva venticinque anni fa, aride e fedeli, nelle quali il volto appariva su un fondo bianco senza che un’ombra indulgente ne addolcisse i difetti; la verità sola parlava il suo duro linguaggio.

 

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“Futuro” Billy Collins

Fabian Perez - SABA ON THE STAIRS

Quando alla fine ci arriverò –
e ci vorranno molti giorni e molte notti –
mi piace pensare che ci saranno altri in attesa
e che vorranno perfino sapere com’era.

E così mi abbandonerò al ricordo di un cielo particolare
o di una donna con un accappatoio bianco
o della volta in cui ho visto uno stretto molto angusto
dove si era svolta una famosa battaglia navale.

Poi squadernerò su un tavolo
una grande mappa del mio mondo
e spiegherò al popolo del futuro
dagli abiti sbiaditi com’era –

come le montagne si alzavano tra le valli
e questa era detta geografia,
come le navi cariche di merci percorrevano i fiumi
e questo era detto commercio,

come il popolo di questa zona rosa
si spostava in questa zona verde chiaro
e come si incendiava e uccideva chiunque trovasse
e questa era detta storia –

e loro ascolteranno, con lo sguardo gentile e in silenzio
mentre altri arriveranno ad unirsi al cerchio,
come onde che non si allontanano,
ma si muovono verso un sasso lanciato in uno stagno.

365 giorni, Libroarbitrio

“Di vetro son fatti” Giovanni Boccaccio

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William Turner  – Sunset over a lake

Vetro son fatti i fiumi, e i ruscelli
gli serra di fuor ora la freddura;
vestiti son i monti e la pianura
di bianca neve e nudi gli arbuscelli,
l’erbette morte, e non cantan gli uccelli
per la stagion contraria a lor natura;
Borea soffia, ed ogni creatura
sta chiusa per lo freddo ne’ sua ostelli.
Ed io, dolente, solo ardo ed incendo
in tanto foco, che quel di Vulcano
a rispetto non è una favilla;
e giorno e notte chiero, a giunta mano,
alquanto d’acqua al mio Signor, piangendo,
né ne posso impetrar sol una stilla.

365 giorni, Libroarbitrio

” Il lato oscuro del cuore” Corrado Augias

“Deborah adesso non si limitava più a pulire il pavimento e a rigovernare le tazzine. Si muoveva con disinvoltura alla macchina dell’espresso, aveva imparato le infinite varianti delle capricciose preferenze dei clienti in fatto di caffè: lungo, corto, macchiato, schiumato, bollente, tiepido, al vetro, in tazza grande, perfino americano ristretto, puro paradosso se preso alla lettera.
Come diceva Roberto, facendo un po’ il verso a De Gaulle, non si può governare un Paese dove esistono decine di varietà differenti di caffè.”