365 giorni, Libroarbitrio

La conoscenza rende l’essere umano libero – Fiori di pesco e pagine scritte – Martina Benigni

“Considerate la vostra semenza: 
fatti non foste a viver come bruti, 
ma per seguir virtute e canoscenza”

(Dante Alighieri, “La Divina Commedia” – Inferno: C. XXVI)

È appena trascorso il 25 marzo, giornata che dal 2020 è dedicata al Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321) prendendo il nome di “Dantedì”. Una giornata che rimette al centro senza dubbio la cultura, la poesia, il meglio della nostra identità nazionale, come in molti hanno affermato in questi giorni. Sarebbe bello se queste giornate non solo si moltiplicassero, ma che venissero dedicate ad altre artiste ed altri artisti da tutto il mondo, per ricordarci l’universale e innegabile importanza della Bellezza e della Cultura, tra le grandi vittime di questo periodo, considerate inutili orpelli e nulla più.

Fra i canti della Divina Commedia, quello dedicato ad Ulisse (Canto XXVI dell’Inferno) è forse uno dei più noti e amati dai lettori di ieri e di oggi, non solo per via dell’emblematica figura di Odisseo, perenne viaggiatore e sognatore, ma anche per l’esaltazione, attraverso la sua figura, dell’umanità stessa e della sua insaziabile voglia di Conoscenza, quella voglia che, per fortuna, a mio dire, avrebbe spinto Eva a cogliere la mela, proprio perché il desiderio di conoscere è vitale quanto il sangue che ci scorre nelle vene. In una Commedia che sembra tutta rivolta al divino, Dante, uomo di mondo politicamente impegnato, non smette di guardare agli esseri umani, ed è proprio nell’Inferno che troviamo i ritratti più celebri e splendidi di un’umanità che, se liberata dal pesante fardello del peccato originale, ormai inaccettabile, potrebbe splendere in tutta la sua “imperfetta” beltà, come l’amore, ormai eterno, di Paolo e Francesca.

Uno dei grandi temi del XXVI canto dell’Inferno è proprio quello della Conoscenza che Dante decide di celebrare attraverso Ulisse il quale, fraudolento, si trova nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, condannato ad essere avvolto da una lingua di fuoco che divide con il compagno Diomede.  “Lo maggior corno”, Ulisse, racconta al Sommo Poeta la vicenda della sua morte partendo dal ritorno ad Itaca, patria tanto agognata dalla quale, però, decide di dividersi nuovamente perché come scriverà il cretese Nikos Kazantzakis (1883–1957): “Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!”.


L’ardore di “diventare esperto del mondo” è più forte di tutto e non gli lascia altra scelta che quella di rimettersi in viaggio. Raduna così, i suoi compagni “vecchi e tardi” su un’imbarcazione e inizia una navigazione di cinque mesi volta a raggiungere le Colonne d’Ercole (l’attuale stretto di Gibilterra) che all’epoca segnavano il limite oltre il quale era proibito spingersi. Prima di oltrepassare lo stretto, cogliendo la difficoltà dell’impresa, Ulisse incoraggia i suoi compagni con un’orazione breve ma persuasiva, diventata una delle terzine più celebri della Commedia: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Sembra quasi di sentirglielo gridare con le lacrime agli occhi ed il volto imperlato di sudore, mentre le onde tartassano la nave, che nonostante tutto trova il cuore e il coraggio di andare avanti.

In questa memorabile terzina leggiamo, dunque, come la conoscenza sia all’origine stessa della natura umana: “la vostra semenza”, appunto, un seme piantato nel nostro cuore, sempre pronto a far sbocciare nuovi, splendidi, fiori, se ben accudito. Il desiderio di conoscere è sinonimo di vita ed Ulisse è il personaggio più adatto per simboleggiare questo nostro intimissimo aspetto, questa cosa chiamata Conoscenza senza la quale non saremmo veramente Liberi.

Conoscenza e Libertà camminano mano nella mano: l’una è condizione dell’altra.
Dove saremmo oggi se l’essere umano non avesse superato ogni volta le sue conoscenze? Se non si fosse posto delle domande? E se non avesse ricercato a fondo per darsi delle risposte?
La conoscenza è ricerca, è informazione, è coraggio, è saper mettere in discussione se stessi e gli altri. È una navigazione a vele spiegate in mare aperto. È sentirsi vivi e liberi, è avere la possibilità di realizzarsi e di sconfiggere l’ignoranza dalla quale non nascono altro che violenza e ingiustizie.

Solo la Conoscenza potrà farci uscire “a riveder le stelle”.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Sperimentazione Realistica

Roma 8 febbraio 2013

Lo Stilnovo di Cecco Angiolieri

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La dolcezza era la fondamentale novità del nuovo stile, ma essa non era solo il frutto di una  raffinata scelta linguistica; comportava invece la scelta di tutto un mondo di valori umani simboleggiati dall’Amore, inteso come vita esclusiva dell’anima dedita ad uno sforzo di elevamento spirituale e intellettuale, alla meditazione del suo destino esistenziale, all’indagine dei suoi moti interiori.

Lo stilnovo rappresentava la punta avanzata della intellettualità fiorentina di fine Trecento, tesa a trasferire la cultura delle scuole nel vivo dell’esperienza umana. Ma l’operazione era essenzialmente aristocratica, il linguaggio stilnovistico non si misurava con le cose di ogni giorno, né interveniva su temi più strettamente collegati col mondo politico. Era, almeno in Cavalcanti e Dante, impegno culturale, non evasione, eppure mirava a restringere l’agibilità della poesia  entro un cerchi di raffinata distanza dal mondo esterno. Anzi tendeva a dissolvere ogni riferimento esterno nell’evanescenza di un tempo ideale, secondo una direzione che rimarrà pressoché costante nella lirica italiana.

La peculiarità di questa direzione non sconosciuta alla poesia provenzale, anzi in parte ad essa risalente, provocò quasi un contraccolpo nella cosiddetta poesia realistica, la quale recuperava le voci popolari, escluse per il loro stridore e la materialità del senso dalla scelta aristocratica della lirica d’amore, gli aspetti dell’esistenza rimossi dalla tensione mistica propria della poesia d’alto stile.

Realismo vuol dire in questo caso  rifiuto della idealizzazione, gusto del comico, del volgare, utilizzato in senso satirico e burlesco, non maggiore aderenza alla realtà umana, alla realtà sociale, le quali vengono comunque deformate dall’immaginazione per rispondere  al piacere, spesso bizzarro, di capovolgere i valori positivi del bello e del buono.

Famoso interprete di questo gusto letterario fu Cecco Angiolieri  – 1260/1313 – , nativo di Siena, alcune notizie della sua vita, condanne per inosservanza delle leggi e risse , sembrano avvalorate dalla spregiudicatezza dei suoi versi, che rivelano quasi il piacere di manifestare la miseria, la sregolatezza, i vizi pratici. Soprattutto la scoperta contrapposizione di una donna avida e sgradevole dal nome orribile, la Becchina, al personaggio angelico dello stilnovo, indica il carattere subalterno di questa poesia, che si muove, con intenti satirici e parodistici, sul modello anch’esso stilizzato e retorico del comico. Cecco ebbe con Dante uno scambio di scortesie e di ingiurie, e si accomunò nel sonetto  Dante Alighier s’io son buon bagolardo  al poeta fiorentino per la disonorevole sventura, la miseria, l’esilio e la forzosa condizione di cliente. Mentre altrove, specie nel sonetto  S’ì fosse foco il ribaltamento dei valori morali e la confessione della propria natura demoniaca hanno un esito fantasioso.

A domani LL

365 giorni, Libroarbitrio

Il Nuovo Stile

Roma 7 febbraio 2013

Il manifesto della nuova poesia

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Negli anni 80 del XIII secolo si verificò nel genere lirico una svolta, destinata a caratterizzare  un nuovo percorso poetico presente in tutta la produzione letteraria del secolo successivo e a diventare un punto constante nella storia della letteratura italiana. L’elaborazione delle nuove forme liriche, nel corso del Duecento, era avvenuta sull’onda della crescente cultura retorica proveniente dai centri universitari. La diffusione della lirica in lingua d’ oc nelle corti  e nei centri cittadini dell’Italia del secolo XIII si era incontrata con lo sforzo da parti d’intellettuali formatisi alla scuola laica , di dare alla società feudale e borghese una poesia in volgare italico. Tale sforzo aveva puntato ad arricchire le forme per adeguarle ad un livello colto di scrittura, che potesse reggere il confronto con la contemporanea produzione latina di scuola, divenuta così preziosa nella forma e così densa di significati e riferimenti dottrinali.

I protagonisti di questa svolta sono uomini della medesima classe sociale e della medesima formazione intellettuale di chi aveva promosso nella Magna Curia e poi in Toscana la lirica cortese e moraleggiante. Giuristi  come Guido Guinizzelli, Lapo Gianni, Cino da Pistoia,  educati alle scuole dei religiosi come Guido Cavalcanti e Dante Alighieri.

Quel che distingue ulteriormente la nuova generazione di poeti dalle precedenti è invece, soprattutto, una sensibilità diversa, aristocratica e raffinata, nella ricerca di un linguaggio poetico sceltissimo, non tanto artificiosamente manierato, quanto conveniente ad una tematica esclusivamente amorosa, arricchita di elementi spirituali e speculativi. Questa sensibilità diversa, questo gusto diverso della poesia furono avvertiti e denunciati come sottigliezza, cavillosità, come intellettualismo, e perciò come oscurità di espressione, dai poeti della generazione formatisi alla scuola guittoniana; queste reazioni possono cogliersi in un famoso sonetto che Bonaggiunta Orbicciani da Lucca rivolse a Guido Guinizzelli, il poeta bolognese al quale si attribuisce l’inizio del nuovo stile,  per rimproverarlo di aver mutato la maniera, lo stile, ma di non essere riuscito a superare l’astro splendente  di Guittone.

La risposta del Guinizzelli non rivela l’elaborazione di una nuova concezione della poesia ma si difende cercando di nascondere il suo vero pensiero per evitare che esso venga frainteso, “date le varie capacità intellettuali degli uomini”. infatti, Egli, prediligeva  l’analisi psicologica accanto alla contemplazione estatica, inseguendo la ricerca di un tono medio, modulato dolcemente, che costituirà il modello della nuova generazione di poeti toscani, senza dimostrare di aver definito in sé una vera e propria poetica nuova, di fondare cioè sopra una convinzione teorica la sua scelta di stile. Eppure lo sviluppo che ha in lui la lode iperbolica della donna, vista rispecchiarsi nella bellezza della natura, introduce un elemento di oscuro e ambiguo misticismo, di intellettuale aristocraticità, che allontana le sue rime dalla specifica tradizione cortese.

La canzone di Guido Guinizzelli, assunta poi a manifesto della nuova poesia, Al cor gentile rempaira sempre Amore, ebbe un effetto propulsivo ben superiore ai suoi propositi innovativi.

A domani

LL