Roma 7 maggio 2013
Foscolo nasce un’epoca di passaggio, fine Settecento ove sarà sempre esule, e segnato dall’illusione di riscatto, albori dell’Ottocento, nonostante la tragicità relegata dalla sua origine, alla vita e alle opere.
Nel mutare degli orizzonti politici di un’Europa attraversata dalla tempesta napoleonica e sottoposta poi alla Restaurazione, nel vortice degli eventi di cui fu partecipe, egli vide il suo amor di patria dapprima vittima del trattato di Campoformio, che concesse Venezia al dominio austriaco , in seguito irreparabilmente offeso dalla consacrazione, nel 1815, di quello stesso dominio.
Ciò nonostante egli potè ritrovare sempre la sua vera patria. Dentro di sé. Questo concetto è ben descritto nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis ove anche se non si era in grado di lavare via il sangue, il riflesso di quel sorriso, il lampo di femmineo pudore di Teresa, sua protagonista, consolava il cuor.
Il carme Dei sepolcri, apparso a Brescia nel 1807, traccia intorno al motivo della tomba, simbolo concreto dell’apparente condanna dell’uomo alla dissoluzione ma anche della sua permanenza nella memoria, un affresco della storia umana e della condizione dei singoli: entrambe sempre oscillanti tra grandezza e miseria, tra slancio ideale e rovinose cadute.
Negli endecasillabi foscoliani la tragedia del destino umano, proteso al morire, risuona con la gravità austera e maestosa del canto attribuito alle Parche. Questo canto, oscuro e dolente, fa vibrare il carme per il mistero dello scoprirsi, in quanto uomini, nudi e indifesi.
Un altro canto però risuona, subito dopo, non a rinnegare l’inno delle Parche, bensì a completarlo, quasi a farlo risplendere mentre lo rende sopportabile, ed è il canto delle Pimplèe: le Muse.
Le Muse che son bellezza cantano la bellezza.
Le Parche sillabano con lenti rintocchi un inevitabile morire.
Ma i versi delle Muse pulsano di un’eco iridata che risuona “oltre”: oltre il tempo, oltre la fine del mondo e delle cose.
A domani
LL
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