365 giorni, Libroarbitrio

“L’estasi” John Donne (nei dintorni del 1621)

Daria EndresenDaria Endresen

Là dove, come un guanciale su un letto,
una pregna sponda s’ingrossava a offrir riposo
al capo reclinato della viola,
sedevamo noi due, l’uno dell’altra il prediletto.

Le nostre mani erano fermamente cementate
da un balsamo tenace che di lì sgorgava;
i raggi dei nostri occhi s’intrecciavano e infilavano
i nostri occhi su una doppia stringa;

inter innestare così le nostre mani era,
fino a quel punto, il solo mezzo per far di noi uno,
e generare ritratti nei nostri occhi
era tutta la nostra procreazione.

Come fra due eserciti uguali il Fato
sospende una vittoria incerta,
le nostre anime ( che per crescere di stato
erano scese in campo) stavano tra lei e me indecise.

E mentre le nostre anime erano lì a negoziare,
noi giacevamo come statue sepolcrali;
il giorno intero restammo nelle stesse pose,
e nulla noi dicemmo, per il giorno intero.

Se qualcuno, tanto raffinato dall’amore
da intendere il linguaggio delle anime,
e reso tutto spirito dal buon amore,
si fosse trovato ad una distanza giusta,

(pur non sapendo quale anima parlasse,
poiché entrambe intendevano e parlavano lo stesso),
avrebbe di lì tratto una nuova sublimazione,
ripartendo assai più puro di quando era venuto.

Questa Estasi toglie ogni perplessità
(dicevamo) e ci dice cosa noi amiamo,
vediamo grazie a essa che non era il sesso,
vediamo che non vedemmo cosa ci mosse:

ma, come tutte le singole anime contengono
mescolanza di cose, e non sanno quali,
l’amore queste anime mischiate mischia ancora,
e fa di due una, ognuna questa e quella.

Trapianta una singola viola,
e la forza, il colore, e la dimensione
( che eran tutte, prima, misere e stente)
si raddoppiano e si moltiplicano.

Quando l’amore l’una con l’altra così
interanima due anime,
l’anima più capace che ne fluisce
padroneggia i difetti della solitudine.

Allora noi, che siamo questa nuova anima,
sappiamo di cosa siamo composti e fatti,
poiché gli atomi da cui ci formiamo
sono anime, che nessun mutamento invade.

Ma, ahimè, così a lungo, così a distanza,
perché dei nostri corpi facciamo a meno?
Essi sono nostri, seppur non noi; noi siamo
le intelligenze, essi le sfere.

Dobbiamo ringraziarli, poiché essi così
condussero noi a noi dapprima,
e ci cedettero la forza dei loro sensi,
né scorie sono per noi, ma lega.

Sull’uomo l’influsso del cielo non agisce
se prima non impronta l’aria;
così l’anima nell’anima può fluire,
sebbene al corpo dapprima ricorra.

Come il nostro sangue travaglia a generare
spiriti, quanto più può alle anime affini,
poiché ci voglion tali dita per annodare
quel nodo sottile che ci fa uomini:

così devono le anime dei puri amanti discendere
a passioni e a facoltà
che i sensi possano raggiungere e apprendere,
altrimenti un grande Principe giace in prigione.

Ai nostri corpi vogliamoci allora, affinché
i deboli uomini possano guardare all’amore rivelato;
i misteri dell’amore crescono nelle anime,
e tuttavia il corpo è il suo libro.

E se chi ama, che sia come noi,
ha udito questo dialogo di uno,
ci osservi ancora, e vedrà
scarso mutamento quando ai copri noi saremo andati.

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Il Meo Patacca

Roma 21 aprile 2013

Il Meo Patacca è il poema più singolare e fortemente significativo del movimento  culturale dialettico letterario di fine Seicento. Scritto da Giuseppe Berneri legato allo scrivere di curia romana, il suo personaggio Meo Patacca è verosimilmente un classico capopopolo romanesco circondato dai suoi sgherri, prepotente, smargiasso, ma insieme protettore delle donne e dei deboli, buono negli schemi ideologici aristocratici, ma violento e servile in quello popolano.

Egli decide, coinvolto positivamente dalle notizie provenienti da Vienna assediata dai Turchi, di partire nel 1683 con cinquecento suoi seguaci in soccorso dei cristiani contro la volontà di Nucia, la sua donna.

L’annuncio della liberazione della città risolve tutti i problemi che questa spedizione aveva posto cosicché le risorse economiche e le energie vengono spese in spettacolose e crudeli feste popolari sino a una delle solite cacce all’ebreo e a un violento assalto al ghetto  che non finisce in una strage solo grazie all’intervento, tardo, ma comunque tempestivo, del ” buon” Meo.

Il linguaggio romanesco nel racconto in ottave viene privato delle sue punte e italianizzato oltre i momenti seri o solenni nei quali i protagonisti, lo stesso Meo e più spesso la sua donna, parlano in un toscano leggermente parodistico.

Il dialetto non serve per conoscere il mondo popolare, ma per ridurlo a un aspetto pittoresco e nel posto subordinato e definito che occupa nella società: ciò viene sottolineato con il rapporto tra Meo Patacca e i nobili che finanziano il progetto di spedizione e che assistono alla rassegna e ai giochi. Meo si comporta , pur nella sua dimensione minore e comica , come un nobile con lo spirito e il senso dell’onore feudale: secondo una produzione che diviene addirittura rigida nel suo ripetersi tanto che una gran parte delle vicende incentra sulla bravura dignitosa con la quale il protagonista ottiene che i vari personaggi, da Marco Pepe, suo antagonista, a Titta Scarpellino, gli chiedano scusa e si facciano perdonare.

A domani

LL

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Il poema eroico

Roma 10 aprile 2013

Come abbiamo già letto nei post precedenti, la novità programmatica della lirica del Seicento è quella di Giovan Battista Marino, con la novità del “poema eroico” , in un certo senso di ogni poema, è quella annunciata e indicata, proposta anziché preparata, com’è invece per il  Tasso.

Le strutture e i temi di una lunga serie di opere in ottave ripetono la Liberata talvolta negli stessi argomenti, sempre nei topoi e nelle trame: un guerriero cristiano insidiato da una perfida bellezza, amori tra eroine ed eroi di avversa fede che si concludono con la morte in duello, inferno e cielo, angeli e diavoli in lotta e un’impresa di conquista con eserciti contrapposti e ampie rassegne.

Tuttavia gli scrittori più o meno consapevolmente, pur difendendo ed esaltando il Marino al di sopra degli altri, si trovano quasi a ripercorrere dal punto di partenza la strada che il loro maestro aveva aperto, a sentire  più acutamente, anche se con maggior disinvoltura, i rapporti con gli esemplari classici di Virgilio e di Omero e con i poemi cavallereschi, con l’ Orlando furioso più di ogni altro scritto.

Il teatro, il romanzo e il poema erano, in confronto alla lirica, tre generi letterari che mettevano l’autore in diretto rapporto col pubblico, ma il poema eroico, dalla dedica alle inserzioni genealogiche, ai richiami e ai fini encomiastici sino agli addentellati di attualità, si poneva direttamente come un impegno e un obbligo nella società, con i poli della fede e della Chiesa, della Corte e della guerra.

Di questo doppio aspetto si rendono conto i teorici  del genere, così Paolo Beni contrappone i moderni agli antichi, l’Ariosto a Omero, Virgilio al Tasso, nella quale riconosce una più completa sintesi moderna.

A domani

LL

 

n.b.

Significato topoi :

da topos s.m. gr. (pl. tòpoi); in it. s.m. (pl. orig.)

  • 1 Nella retorica classica, luogo comune, schema a cui si può fare ricorso per sostenere un’argomentazione.
  • 2 In letteratura e in altri campi artistici, tema ricorrente in un autore, in un’opera o in un indirizzo.

 

 

Spunto di lettura
La letteratura italiana, il Seicento
Editore: Iniziative Speciali De Agostini

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Poesia Seicentesca

Roma 1 aprile 2013

Le categorie assolute che interpretano tutto il presunto spirito di un’epoca sono sempre ingannevoli e, nella migliore delle ipotesi, possono tutt’al più definire e descrivere soltanto alcune forme di linguaggio, non la concreta opera né la singola personalità e nemmeno le precise tendenze storiche. Per la lirica, cioè per quel genere nel quale le forme letterarie hanno avuto un valore in un certo modo preminente e autonomo, spesso astratto se non vuoto, occorre precisare e stabilire alcune caratteristiche comuni di linguaggio. La linea che passa, pur modificandosi, attraverso il primo ed il secondo Seicento e attraverso la stessa contrapposizione di marinismo e di antimarinismo è quella del  concettismo, cioè di un sistema, di una combinazione, di un metodo di rapporti metaforici.

Non tutti gli scrittori del Seicento la seguono, ma tutti, e in particolar modo quelli che scrivono in versi, si pongono dinnanzi a questo problema.

Il concettismo è certo una componente nella quale non si risolve  tutta la lirica del Seicento e nondimeno questo riferimento, piuttosto che non un’analogia di valori culturali e morali, può, se non unire, avvicinare alcuni autori pure distinti come il Marino  e il Chiabrera.

A domani

LL

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L’Arte della scenografia

Roma 20 marzo 2013

Già dalla fine del Cinquecento la costruzione del teatro Olimpico di Vicenza e le prospettive illusorie che Vincenzo Scamozzi qui vi crea per gli sfondi sono segno di un interesse crescente per l’arte scenografica. Anche Bernardo Buontalenti  e tutti gli architetti che come lui si dedicano alla costruzione di apparati effimeri  e scenografie per gli allestimenti delle corti contribuiscono a determinare il gusto per il meraviglioso e la sorpresa.

Il Seicento e l’epoca Barocca costituiranno il coronamento e l’apice di questa tendenza.

Nel 1600 si colloca la pubblicazione del Prospectiva libri sex, con un’ampia sezione dedicata all’uso della prospettiva nell’arte scenografica. abbandonata la scena fissa, si introducono cambi a vista e macchine sceniche per creare apparizioni fantastiche , le “meraviglie”. Si inaugura così la grande stagione degli scenografi italiani: Torelli, Pozzo, Burnacini, i Bibiena, i Mauro, capaci di materializzare sul palcoscenico oggetti calati dall’alto, comparse e sparizioni laterali, illusioni prospettiche moltiplicate all’infinito in un gioco di punti di fuga destinato a suscitare la sorpresa.

L’area scenica, che in precedenza era limitata, si estende ora non solo in lunghezza, ma anche in profondità: per far posto alle macchine e ai movimenti scenografici si ricorre anche alla modificazione dello spazio scenico. A questa grande evoluzione del gusto e della tecnica scenografica contribuisce anche lo sviluppo di quegli intermezzi che nel teatro cinquecentesco intervallavano lo spettacolo della corte e che diventano sempre più importanti, arrivando a diventare la parte principale dello spettacolo seicentesco.

A domani

LL

 

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L’Europa Barocca

Roma 19 marzo 2013

Il termine Barocco è usato per la prima volta da Francesco Milizia nel 1781, con il significato di irregolare e bizzarro, per esprimere un giudizio negativo sullo stile architettonico seicentesco.

In Italia il Barocco romano costituisce il filone maestro del nuovo stile. La capitale della cattolicità trova così una nuova sistemazione urbanistica secondo  direttrici prospettiche tipicamente scenografiche.  Torino rappresenterà poi un tipico esempio di città barocca, il cui nucleo storico e monumentale ruota attorno a piazza San Carlo e a piazza  Castello.

I Savoia daranno il via alla realizzazione di splendide residenze barocche.

In Francia, il Barocco trova la sua fisionomia definitiva grazie alle grandi fabbriche reali di Versailles e del Louvre.

In Germania e in Austria l’edilizia di corte trova pienezza, (soprattutto in Baviera, Franconia e Austria)

grazie ad architetti italiani.

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LL

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La tragedia regolare

Roma 16 marzo 2013

Durante tutto il Seicento permane, riallacciandosi alla tragedia cinquecentesca, la tragedia letteraria più comunemente conosciuta e vantata come tragedia regolare.

Nel Settecento gli scrittori che continuano questo teatro come il marchese Scipione Maffei, o ne fanno in qualche modo una specie d’inventario come il Napoli Signorelli, sostengono appunto questa continuità.

Scipione Maffei, volendo appoggiare la sua gloria di autore della Merope e insieme di rinnovatore del teatro a una tradizione italiana indipendente da quella francese, pubblicherà nel 1723 a Verona un Teatro italiano o sia scelta di tragedie per l’uso della scena, avvicinando alle tragedie cinquecentesche, dalla Sofonisba del Trissino e dal Torrismondo tassesco alla Merope del Torelli, quelle settecentesche, l’ Alcippo e le Gemelle capuane del Cebà, il Solimano del Bonarelli, la Cleopatra del cardinal Delfino e l’Aristodemo di Carlo de’ Dottori.

Il canone così stabilito, dentro il quale la critica moderna, dopo il giudizio di Croce, ha riconsacrato il valore poetico di almeno una di queste tragedie, cioè l’ Aristodemo, può essere completato non soltanto con le opere di Federico Della Valle, ma anche con altre tragedie come quelle del cardinal Delfino, l’Ipanda dell’Alberi e, forse, l’Evandro del Bracciolini.

A domani

LL

 

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Va in scena la vita

Roma 7 marzo 2013

Teatro

Siamo agli inizi del secolo XVI e tutto a partire da adesso apparirà eccezionalmente teatrale. Il Seicento è il secolo che dona natali artistici a personaggi quali Shakespeare e Tirso da Molina. Questa è un epoca catalizzata dall’importanza del pubblico per il pubblico stesso che viene a porsi con vivo e d acuto interesse da critico artistico letterario, ma anche d’interprete dell’arte. Nasce così la figura dell’ “attore”. L’uomo del Seicento esige rappresentarsi e ritrovarsi partecipe dell’opera ponendosi al centro della scena, questo senso della recita, della rappresentazione e dello spettacolo trova espressione diretta in una particolare attività del tempo, cioè nella scenografia, elemento necessario della vita civile  e della vita religiosa e componente essenziale della poetica delle arti figurative, dall’architettura all’urbanistica, La scenografia diviene un nesso tra le differenti arti. Dagli spettatori questa forma scenica e la rappresentazione dell’opera attraverso l’attore viene percepita come interpretazione del mondo, come un modo per capire l’uomo e seguirlo nel suo agire e nel suo sentire. Così in Italia e nel resto dell’Europa si afferma la figura dell’attore come creatore ed interprete pertanto gli attori sono anche scrittori e gli scrittori divengono attori per la loro frequentazione del teatro, vivendolo e sentendolo stillano una nuova forma e un nuovo stile letterario – teatrale.

Gabrielle Tèllez

Il vero nome di Tirdo da Molina è Gabriele Tèllez, nato a Madrid nel 1584 ed entrato nell’Ordine della Mecede. La sua attività di drammaturgo, pur rendendolo celebre presso corti ed accademie, non è gradita dai suoi confratelli. Infatti una diffida del tribunale ecclesiastico lo invita a non scrivere più e lo induce a sospendere la sua attività che però non termina del tutto. Pubblicherà la prima delle cinque Partes che raccolgono i suoi lavori e che poi sarà completata  dalle successive quattro nella pubblicazione postuma fatta dal nipote Francisco Lucas de Avilla.  Il suo nome è reso celebre dal personaggio ripreso da un tema popolare il Don Juan “Don Giovanni” e alla sua tradizione nel teatro europeo. Tirso da Molina scrive soprattutto commedie a soggetto storico in cui spesso un personaggio rappresenta una virtù. Egli rifiuta le convenzioni del mondo cavalleresco, cortese , mitologico e pastorale, ma trae spunto e si occupa della realtà che lo circonda.

A domani

LL