Il bar, angusto e soffocante, saturato dal vociare febbrile del sabato sera, celava un segreto. No, no era la salmonellosi aleggiante nella vetrina frigo tra tramezzi stantii e paste mesozoiche. E no, non erano neanche i topi grassi e ben in tiro tipo agenti immobiliari. Quelli li conoscevamo bene tutti e li chiamavamo per nome oramai. No, quel covo di relitti umani nascondeva, alle spalle del bancone, appena dopo il cesso con un rischio igienico pari al Gange nei giorni di piena, uno stretto corridoio riverniciato dalla muffa che si snodava sino ad una piccola porta cigolante affacciata su di una claustrofobica scala a pioli, che s’avvitava su se stessa nell’oscurità, sino ad una sordida cantina. L’aria ristagnava, mal illuminata dall’unica lampadina ed intrisa di fumo e disperazione, in linea con il resto del quartiere. La sedia, di quelle in legno e paglia, era spigolosa e pizzicava qua e là, la mano in bilico e la posta, beh, la posta era alta, molto alta.
Aprii le mie carte, donna di cuori e donna di quadri. Non male.
Fissai il tizio in completo nero seduto accanto a me passarsi una mano sulla tesa del cappello ben calato sul volto. Con l’altra adagiò un lungo bocchino nel posacenere. La sigaretta all’estremità sfrigolava lieve ma senza consumarsi.
– Diecimila.- Annunciò sorridendo una sorta di Big Jim alla sinistra del tizio. Aveva i capelli color grano e la pelle di quel marroncino bruciato tipo polpettone di steroidi dimenticato in forno.
– Call.- Replicò il nanetto occhialuto, grassottello e stempiato alla sua sinistra, gli occhi fissi sulla scollatura del dealer, una rossa mozzafiato che avrebbe irrigidito persino Signorini. Il tizio alla mia destra sfoggiava l’imperscrutabile espressione del grande giocatore, di chi si sta giocando i risparmi della moglie, una moglie in apprensiva attesa sull’uscio di casa, con una mazza chiodata che neanche Conan il Barbaro però. Bofonchiò qualche imprecazione, e infine si decise.
– Call, anch’io.
Guardai ancora le mie carte. Due donne, non male, e spostai i miei dieci mila al centro del panno verde. Gli occhi del tizio in nero erano adombrati dalla tesa del cappello, ma avrei giurato di vederli brillare per un istante, o forse fu solo la brace della sigaretta. Espirò lentamente il fumo e fece schioccare la lingua.
– All in.- Sibilò senza scomporsi.
Toccava aggiungere pochi spicci e lo feci senza pensarci due volte, come del resto gli altri tre.
E’ sempre quello che ti frega, pensarci troppo: un attimo di esitazione e perdi l’occasione, l’equilibrio, la strada.
La rossa ammiccò al tizio in nero e girò le prime tre carte…
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Gianluca Pavia – Lié Larousse
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