365 giorni, Libroarbitrio

“Il Sogno” Emilio Zola

Fragola

La via dormiva ancora, impigrita dalla festa del giorno innanzi. Rintoccarono le sei. Nelle tenebre inazzurrate dal lento e ostinato cadere dei fiocchi, non c’era altro di vivo che una forma indistinta: una fanciulletta di nove anni, che rifugiatasi nella strombatura del portale, vi aveva trascorso la notte a tremare dal freddo, riparandosi alla meno peggio. Era vestita di stracci, con la testa avvolta in un lembo di scialle e i piedini ignudi dentro un grosso paio di scarpe da uomo. Indubbiamente, si era fermata in quel posto solo dopo aver vagato a lungo per la città, che vi era caduta stremata dalla stanchezza. Aveva la sensazione di essere giunta in capo al mondo: più nessuno e più nulla, l’estremo abbandono, la fame che rode, il freddo che uccide; e nella sua debolezza, soffocata dal greve fondo del cuore, ella desisteva da ogni lotta; non le rimaneva che la repulsa fisica, l’istinto di mutar di posto, di rannicchiarsi tra quelle vecchie pietre ogniqualvolta una nuova raffica faceva vorticare la neve.
Una dietro l’altra le ore passavano.
Per un pezzo la bimba era rimasta appoggiata, tra il doppio battente dei due vani gemelli, contro la spalletta, il cui pilastro regge una statua di sant’Agnese, la martire tredicenne, bimba al pari di lei, con un ramo di palma in mano e un agnello ai piedi . E nel timpano, sopra l’architrave, si svolge in altorilievo, con candida fede, tutta la leggenda della vergine fanciulla, fidanzata di Gesù: la volta che i capelli le si allungarono e la rivestirono tutta, quando il governatore, di cui ella rifiutava il figlio, la mandò ignuda in una casa infame; e quando le fiamme del rogo, scostandosi dalle membra di lei, arsero i carnefici non appena ebbero appiccato il fuoco alla legna.(…)
A sommo il timpano, poi, in una apoteosi, Agnese viene finalmente accolta in cielo, dove il suo fidanzato Gesù la sposa, giovane e piccina com’è, dandole il bacio delle eterne delizie.

365 giorni, Libroarbitrio

Il teatro edificante

Roma 17 marzo 2013

Da molti testi letti si evince che il copioso teatro edificante, nonostante la ricchezza e la tenacia dell’impegno, non ha dato opere di grande valore storico letterario. Anch’esso e in particolare quello dei Gesuiti, si fondava piuttosto sui valori dello spettacolo che su quelli strettamente letterari.

Nel teatro sacro si provarono scrittori di interessi diversi da quelli teatrali, come il cardinal Sforza Pallavicino col suo Ermenegildo martire, o Emanuele Tesauro con la sua tragedia Ermegildo.

L’opera di Padre Cinquanta e le tragedie del Tesauro rimangono tra le prove più significative, l’una di un teatro drammatico volto alla realtà, l’altra di un teatro tragico e solenne, che impegna il nuovo stile in un senso religioso.

Il padre Benedetto Cinquanta,  teologo e predicatore dei Minori osservanti, ci ha lasciato una serie di drammi religiosi: Il ricco epulone del 1621, Il figliol prodigo del 1633, Il fariseo e il pubblicano del 1634, Santa Agnese del 1635. Nella Peste del 1630, pubblicata a Milano nel 1632, il Cinquanta colloca la scena nella milanese Porta Tosa; e introduce sulla scena medici, chirurghi, monatti, soldati, commissari, donne e gentil donne, due sacerdoti, un gentil’uomo milanese e un gentil’uomo bolognese. Dalla commedia il Cinquanta deriva il tono narrativo e prosastico dei versi, che tuttavia non impedisce una sostenuta meditazione.

L a meditazione morale muove continuamente da un’analisi precisa della realtà contemporanea, per la quale Egli prova un acuto interesse; come risulta dalla perplessità con cui affronta il problema degli untori, e dalla spregiudicatezza con cui esamina la situazione morale della donna in quel tempo.

A domani

LL