
Scritto da Sara Colonnelli edito da Porto Seguro

Scritto da Paola Cereda edito da Giulio Perrone Editore

Scritto da Selene Calloni Williams edito da Edizioni Mediterranee
365 giorni
Buongiorno un corno !
Questo è il nome del programma tv e radiofonico che va in onda ogni giovedì dalle 11:00 alle 12:00 sulle piattaforme digitali, condotto da Sara Colonelli, Valeria Vitolo e prodotto da Studio Sound. Durante ogni puntata interverrò con la rubrica letteraria LEGGI CHE TI PASSA già dal nome capirete che ogni libro che vi consiglierò in lettura è frutto di un attento studio anche pratico, perché pratico? Perché leggere è un viaggio e come per ogni partenza bisogna preparare il necessario da portare con noi, e a volte, la fantasia sola non basta, a volte quando il libro è davvero bello è un dono utile alla crescita e all’evoluzione della nostra anima, quindi fornitevi sempre di carta e penna non solo per segnarvi titolo e autore!
Nella clip consiglio un libro che vi farà scoprire l’importanza di credere in noi stessi cercando sempre un luogo caro dove sentirci a nostro agio e sognare, senza limiti ed impossibilità, perché nei sogni tutto è possibile, perché sognando i nostri desideri scopriamo le infinite strade che ci portano alla loro realizzazione!
Vi aspetto giovedì 23 giugno alle ore 11:00, vi parlerò di un poeta romano molto amato Er Pinto che ha deciso di uscire dall’anonimato, del suo ultimo libro con una prova importante di narrativa breve e molto altro.
Scopritelo nella puntata di giovedì nel frattempo LEGGI CHE TI PASSA!
Lié Larousse
“Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.”
(Dalla poesia “Sulla morte senza esagerare” di Wisława Szymborska)
Wisława Szymborska (1923-2012) è stata una celebre poetessa polacca, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1996. Il comitato che le assegnò il Premio scrisse nella motivazione: “Per aver creato della poesia che tramite ironica precisione permette di mettere in luce il contesto storico e biologico in frammenti di realtà umana.” In effetti, la poesia della Szymborska fa pensare, emozionare e sorridere: più volte i suoi versi sono riusciti a strapparmi qualche risata dolce-amara, proprio perché l’ironia che li colora è brillante e piacevole, sembra di chiacchierare con quell’amico o quell’amica che sa sempre qual è la cosa giusta da dire e quando.
La sua giovinezza, a Cracovia, è segnata da eventi traumatici come la seconda guerra mondiale che la costringe, sotto Hitler, a studiare clandestinamente per ottenere il diploma, mentre sotto Stalin si vede negata la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, nel 1948, perché non in linea con i dettami del realismo socialista. Negli anni ’50, però, si iscrive al Partito Comunista, riscoprendone i valori e dedicandosi totalmente alla “causa”. La sua relazione con la politica, tuttavia, non fu affatto semplice ed in seguito, dopo aver lasciato il Partito, nella vita come nei versi, dirà: “Ho sempre guardato a tutta la sfera terrestre con la sensazione che ancora in altre parti del mondo si svolgono fatti terribili. Ma dopo una crisi profonda negli anni ’50 ho capito che la politica non è il mio elemento. Ho conosciuto gente molto intelligente per la quale tutta la vita intellettuale consisteva nel mediare su quello che aveva detto Gomulka ieri e oggi Gierek. Un’intera vita chiusa in un orizzonte così terribilmente ristretto. Così mi sono sforzata a scrivere versi che potessero superare questo orizzonte. Non mancano in essi le esperienze polacche. Se ad esempio fossi una poetessa olandese, la maggior parte dei miei versi non sarebbero stati scritti. Ma alcuni sarebbero stati scritti ugualmente, indipendentemente dal luogo dove sarei vissuta. Questa è una cosa importante secondo me”.
Il successo delle sue poesie, già prima del Nobel, è dovuto soprattutto all’universalità dei temi trattati, dei dubbi che confessa a sé stessa e chi legge, nonché alla semplicità delle immagini che cuce con la stessa delicatezza di una nonna che, paziente, prepara un maglioncino al nipote o alla nipote. Troviamo un esempio di questa abbacinante semplicità in versi come i seguenti: “Piace-/ ma piace anche la pasta in brodo;/ piacciono i complimenti e il colore azzurro, / piace una vecchia sciarpa, / piace averla vinta, / piace accarezzare un cane.” Una semplicità che si accompagna alla lucida consapevolezza della finitezza materiale di tutte le cose, nella quale però risiede una bellezza unica, che gli Dei ci invidiano da sempre: “Ci sei- perciò devi passare./ Passerai- e qui sta la bellezza.”
L’andatura riflessiva e scherzosa delle poesie di Szymborska apre ai lettori e alle lettrici un mondo quasi incantato, in cui anche l’immagine più triste o angosciosa diventa pretesto per rivolgere, tutto sommato, uno sguardo ottimistico al domani. Non è mai tutto nero o tutto bianco, ci sono sempre sfumature, e nulla si ripete due volte allo stesso modo, ogni cosa è fatta di trasformazioni: “Non c’è giorno che ritorni,/ non due notti uguali uguali,/ né due baci somiglianti,/ né due sguardi tali e quali.”La forza silenziosa e gentile che guida la penna della poetessa è lo stupore, quel sentimento che rende tutto unico e irripetibile, che splende negli occhi dei bambini e troppo spesso si offusca in quelli dei “grandi”. Un po’ come il Fanciullino di Pascoli, ma in modo totalmente diverso, Szymborska indaga il mondo attraverso la lente di un instancabile stupore che le permette di partecipare “a questo gioco con regole ignote” che è la vita. C’è di fondo un “Non lo so” esistenziale che spinge la poetessa ed il poeta in generale ad interrogarsi e a rinnovare continuamente la propria insaziabile sete di conoscenza. Il mondo, allora, diventa una sorpresa continua, persino le cose più umili possono e devono essere vissute con stupore perché il Nostro Tempo è unico e non c’è nulla che dovremmo dare per scontato. Quale mistero si cela dietro ad un “filo d’erba calpestato/ dal corso di incomprensibili eventi”? Non ci è dato di saperlo, forse, ma il vero dramma, penso, sta nel non chiederselo nemmeno.
Un tema fondamentale nella sua poesia, anche se poco riconosciuto da una certa critica, è quello dell’amore, al quale sono in realtà dedicate esplicitamente solo una manciata di poesie. L’apparente marginalità dell’amore nei versi della poetessa è smentita soltanto da un’attenta lettura, grazie alla quale è possibile cogliere, invece, le molteplici forme e situazioni in cui esso si manifesta tanto nella vita quanto sul foglio. Nelle sue “poesie d’amore” troviamo preoccupazioni quotidiane e slanci metafisici, grandi dolori e gioie vivifiche. Troviamo la solita ironia che sempre muove l’ingegno poetico dell’autrice e che regala sorrisi sornioni come in questo caso: “Ma già sanno di noi […] E sanno i bicchieri perché sul fondo/ il tè avanzato si raffredda./ Swift ormai non può certo fare conto/ che questa notte qualcuno lo legga.”
Ci sono poi poesie in cui gli amanti si mischiano alla natura nel panteismo più romantico e fiabesco che ci dà la sensazione di trovarci di fronte ad un dipinto: “Si amarono tra i noccioli/ sotto soli di rugiada,/ raccolsero nei capelli/ foglie e terra bagnata.”
Nella poesia “Addio a una vista”, dedicata alla perdita dell’uomo amato, l’amore affonda nel dolore insopportabile dell’assenza che viene raccontato in maniera originale e profondissima al tempo stesso perché racconta di un’accettazione pacifica, di un dolore che non si tramuta in odio ma che, seppur presente, non diventa livore verso il mondo, ma nuova lente attraverso cui filtrare la realtà, arrivando a percepirla in modo ancora più sentito: “Prendo atto/ che la riva di un certo lago/ è rimasta – come se tu vivessi ancora –/ bella come era.
Ci sarebbe ancora tanto da dire su questa poetessa “figlia” del suo secolo, ma penso che siccome la poesia nasce dal silenzio, come lei stessa sostenne, affiderò al silenzio del foglio le parole che non so dire, ed alla sua poesia il “compito” di stupirvi, come ha fatto con me.
Un amore felice
Un amore felice. E’ normale?
è serio? è utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?
Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,
i primi qualunque tra un milione, ma convinti
che doveva andare così – in premio di che? Di nulla;
la luce giunge da nessun luogo
perché proprio su questi, e non su altri?
Ciò offende la giustizia? Si.
Ciò offende i principi accumulati con cura?
Butta giù la morale dal piedistallo? Si, infrange e butta giù.
Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po’,
si fingessero depressi, confortando così gli amici!
Sentite come ridono – è un insulto.
In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.
E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,
quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano
sembra un complotto contro l’umanità!
E’ difficile immaginare dove si finirebbe
se il loro esempio fosse imitabile.
Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,
di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,
chi vorrebbe restare più nel cerchio?
Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.
Chi non conosce l’amore felice
Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.
dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.
Articolo di Martina Benigni
“Mi alzai dal letto solo quando ebbi finito di leggere l’ultima pagina. Luo non era ancora rientrato. Immaginai che fin dal mattino si fosse precipitato giù per il sentiero per andare a raccontare alla Piccola Sarta quella bella storia di Balzac. Rimasi per un po’ in piedi sulla soglia della nostra casa e mangiai un pezzo di pane di granturco contemplando la sagoma della montagna di fronte. Il villaggio della Piccola Sarta era troppo lontano perché riuscissi a distinguerne le luci. Mi figurai in che modo Luo le stesse raccontando la storia, e mi sentii pervadere da un sentimento fino ad allora sconosciuto, una gelosia amara, divorante.”
(Dai Sijie, “Balzac e la Piccola Sarta cinese”)
Era lo scorso anno quando finalmente mi decisi a leggere quel libro dalla copertina azzurrina che mi spiava, immobile, da tempo: era sempre stato là, sulla libreria bianca del corridoio ad aspettare il giorno in cui, cresciuta, avrei trovato il tempo ed il modo di leggerlo. Si potrebbe dire che siamo cresciuti insieme senza saperlo. La prima volta che lo vidi, infatti, avevo forse dieci anni e ricordo ancora l’odore inconfondibile delle pagine nuove e della busta di carta nella quale era stato al calduccio nel tragitto dal negozio a casa. Ora che lo tengo tra le mani, ha la copertina sbiadita, ed i bordi mangiati, ma è ancora possibile riconoscere il volto bellissimo appena illuminato da una lampada ad olio della Piccola Sarta cinese. Sembra un altro libro e penso che lo sia perché ora che lo leggo le parole devono essere diverse da quelle di dieci anni fa, io sono diversa, e forse, se lo leggessi fra altri dieci anni mi sembrerebbe ancora trasformato.
La sorte ha voluto che “Balzac e la Piccola Sarta cinese” fosse proprio uno dei libri consigliati durante un corso per farci comprendere un po’ meglio il clima che si respirava durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976) in Cina. L’autore, Dai Sijie (1954-), descrive con grande maestria, attraverso i piccoli grandi dettagli che segnano un’epoca, le vite di quei ragazzi costretti alla rieducazione nelle campagne, i giovani istruiti, ed il loro intrecciarsi alle vite di chi la terra ce l’ha nel sangue e nelle vene. Un incontro, potremmo dire, non solo di generazioni diverse ma anche di culture praticamente diverse, data la vastità del territorio cinese e le tradizioni singolari radicate in ogni angolo del paese, anche nel più piccolo villaggio fra le montagne.
È proprio in uno sperduto villaggio fra le suggestive e maestose montagne cinesi, perennemente avvolte dalla nebbia, che si svolge il romanzo. I due protagonisti sono due adolescenti, il Narratore, di cui non ci viene svelato il nome, e Luo. I due ragazzi sono entrambi figli di medici ed hanno la fortuna non solo di conoscersi praticamente da sempre, ma anche di capitare nello stesso villaggio e di poter, dunque, affrontare insieme la sfida che li attende. Le giornate nel villaggio della Fenice del Cielo trascorrono tutte allo stesso modo, ovvero lavorando dall’alba al tramonto, tuttavia, i giovani ragazzi dimostrano di avere tutta l’intelligenza e la scaltrezza che ragazzi della loro età dovrebbero avere, riuscendo a svignarsela architettando piani più o meno di successo e ad ingannare il capo villaggio semplicemente spostando le lancette dell’orologio. La vita nella loro palafitta trascorre serena e senza troppi intoppi, ma è evidente che manca qualcosa perché solo riempirsi la pancia, e nemmeno troppo, non è di certo vivere. L’evento attorno al quale ruota tutta la storia è la scoperta sensazionale di una valigia di “libri proibiti” tenuta nascosta da uno dei loro compagni, Quattrocchi, il quale, dopo una faticosa battaglia, presterà ai due un unico libro, Ursule Mirouët di Balzac. I ragazzi butano giù il volume tutto d’un fiato, come un bicchier d’acqua nel deserto e ben presto, ancora affamati, decidono di rubare la valigia attirati da quei mondi sconosciuti e incredibili che le le parole dei libri rendono quasi tangibili. Iniziano dunque tutta una serie di letture che li porterà a confrontarsi non solo con loro stessi e con il mondo ma anche con l’amore e l’altro da sé. Sono di estrema tenerezza i passi in cui Dai Sijie racconta en passant delle guance arrossate dei giovani protagonisti che per la prima volta scoprono quella parola tanto bella e tremenda che è l’amore, e che per i due si manifesterà anche “materialmente” attraverso la conoscenza della Piccola Sarta, così chiamata perché figlia di un famosissimo sarto di un paese ancora più remoto del loro, appollaiato sui monti come un nido d’aquila.
I tre diventano amici per la pelle: lei gli mostrerà la semplicità e la purezza della vita di montagna, mentre i due le racconteranno delle loro esperienze e soprattutto di quel Balzac e delle sue storie straordinarie che se non fossero scritte nero su bianco, sembrerebbero frutto di qualche allucinazione da fungo velenoso. L’intenzione di Luo, che nel frattempo inizia una tenera storia d’amore con la ragazza, è quella di trasformarla attraverso la lettura per farne molto più che “una semplice montanara”. Alcuni eventi imprevedibili metteno i personaggi di fronte a scelte importanti che li trasformeranno inevitabilmente così come si trasformeranno i loro rapporti. Alla fine, la Piccola Sarta, stupirà tutti scegliendo di “seguire Balzac”.
In questo romanzo troviamo descrizioni precise che anche attraverso il dettaglio apparentemente meno importante riescono a portarci indietro nel tempo e nello spazio, in un ambiente nel quale l’autore ci fa entrare senza difficoltà, facendoci sentire parte integrante della narrazione, quasi fossimo accanto ai protagonisti che in piena notte si sforzano a tenere gli occhi aperti per finire l’ennesimo libro. Proprio l’importanza dei libri, bene necessario, come anche la quarantena ci ha insegnato, è uno dei temi fondamentali della storia che ci ricorda di quanto senza di loro saremmo persi e decisamente meno umani. Altro aspetto importante è sicuramente il percorso di trasformazione dei personaggi, soprattutto quello della Piccola Sarta che, da donna, seppur giovane, si trova a dover fare delle scelte diverse dai ragazzi, vivendo in una sorta di storia nella Storia perché, come sappiamo, i destini di uomini e donne sono stati spesso condizionati da stereotipi che hanno fatto sì che “essere donna” volesse dire vivere gli eventi della Storia seguendo una trama diversa, a parte. La delicatezza di Dai Sijie nel descrivere questo mare di prime scoperte, sensazioni, desideri, emozioni e dubbi rende la lettura estremamente piacevole, leggera e profondissima al tempo stesso.
Buona lettura!
Articolo di Martina Benigni
“La letteratura ha ridestato in me quelle idee che bisognerebbe avere nei riguardi di ogni cosa e di cui prima non mi ero resa conto. In queste idee, che sono tutt’altro che scientifiche e perfette, si trovano tuttavia i motivi reconditi che mi hanno spinto a lottare fino a battere la testa e a farla sanguinare. Ma non me ne pento. Quando si è innamorati di qualcosa o di qualcuno non si è mai oggettivi o razionali.”
(Zhang Jie, “Uno studio sulla perseveranza” (1981), trad. M.E. Testa)
Zhang Jie (1937) è una delle autrici più importanti della letteratura cinese del ‘900. Dopo gli anni terribili della Grande Rivoluzione Culturale (1966-1976, secondo gli storici cinesi) riesce a dare voce alla sua penna, elegante e dura al tempo stesso, e a parlare dei temi a lei più cari quali l’amore con la “a” maiuscola, la condizione femminile e, più in generale, le vicissitudini umane: storie comuni di gente comune con tutto quello che ne consegue.
Queste poche, profonde, righe riprese da un suo saggio mi riecheggiano nella mente da ormai qualche mese. Più volte, infatti, mi sono interrogata sul ruolo della letteratura, o meglio, sul ruolo che quest’antica forma d’arte e di Essere ha oggi per le persone. La risposta non è mai la stessa e non è nemmeno definitiva, per fortuna, ma più volte mi è sembrato di trovarmi a fronteggiare un muro di indifferenza e scetticismo nei confronti di questa tematica, eretto da tutte quelle persone alle quali ho sentito dire: “Sì, bella la letteratura, ma poi che ci fai?”. Tutto si riduce, insomma, ad una mera soddisfazione dei bisogni materiali: le cose devono servirti e tutto ciò che non serve è inutile, lo dice la parola stessa…Eppure non mi convince, non ci sto. Ho sempre avuto la sensazione che perseguire l’utile, in fondo, fosse una grande fregatura, anzi, un vero e proprio pericolo per la propria identità. Se non vi fidate di me, fidatevi di Zhuangzi, filosofo cinese vissuto, forse, tra il IV e il III secolo a.e.c. che diceva:
“Solo coloro che conoscono il valore dell’inutile possono parlare di ciò che è utile. La terra che calpestiamo è immensa, ma questa immensità non ha valore pratico: l’unica cosa che serve per spostarci è lo spazio ricoperto dalla pianta dei nostri piedi. Supponiamo che uno perfori la terra su cui camminiamo, scavando una fossa così profonda da arrivare giù fino alla Fonte Gialla: avrebbero una qualche utilità i due pezzi di terreno su cui poggiano i nostri piedi?”. Hui-Tzu rispose: “Effettivamente, sarebbero inutili”. E il maestro concluse: “Dunque, è evidente l’utilità dell’inutilità”.
(Chuang-Tzu, brani scelti da Ottavio Paz, Oscar Mondadori)
Per ognuno di noi la letteratura ha un valore diverso, ognuno di noi crea delle immagini proprie ed uniche a partire dalle parole scritte da qualcun altro e la cosa meravigliosa è che l’opera vive sempre di vita propria a prescindere dalla mano che le ha dato vita, essa diventa di tutti, diversa ad ogni lettura, mai identica, sempre in trasformazione come l’identità di chi legge. E questo lo sapeva bene William Shakespeare (1564-1616) che era consapevole di come i suoi versi sarebbero vissuti in eterno superando ogni barriera, ogni confine, eternando la sua amata e la scrittura stessa, come leggiamo negli ultimi versi del celeberrimo sonetto n. 18: “finché ci sarà un respiro od occhi per vedere/ questi versi avranno luce e ti daranno vita.”
Nel caso di Zhang Jie, la letteratura le ha permesso di restare umana come afferma lucidamente lei stessa, ha fatto sì che lei potesse rimanere “un essere umano vivo”, perché c’è differenza fra Vivere e sopravvivere, fra passare le giornate e viverle intensamente, anche nell’umile poetica-prosaicità di ogni giorno.
Mi sembra che tutto porti ad una parola, cioè Ricerca perché cos’è la letteratura se non ricerca continua? Il vento che gonfia le vele spiegate della “barca della Ricerca” è fatto di tante cose secondo me, e fra di esse c’è di certo la letteratura in tutte le sue declinazioni e sfumature con la sua natura fondamentalmente democratica. Essa rappresenta una Ricerca personale e sociale al tempo stesso, di rapporto, partendo dal singolo fino ad abbracciare il mondo intero di cui tutti e tutte siamo parte integrante, pensante, “leggente” e “scrivente”, e non solo numeri o ombre di passaggio, come ci vogliono far credere.
Ci sarebbe tantissimo altro da dire proprio perché la letteratura è in grado di abbracciare la “molteplicità” nella sua forma più varia e completa ed io, forse, non ho ancora le parole per dire di più, forse domani ne troverò di migliori, forse mai, forse qualcuno le ha già trovate per e le ha scritte su un foglio sgualcito, infilato in una bottiglia che ora galleggia chissà in quali mari.
Charles Baudelaire (1821-1867) scriveva Enivrez-vous, cioè “Ubriacatevi”, scegliete voi di cosa, io mi faccio un altro sorso di letteratura.
Articolo di Martina Benigni
Le cinque e trenta di pomeriggio: le ultime luci del tramonto si erano infiltrate nella stanza sciogliendosi come un liquido dolce su ogni superficie, fino a inumidirmi gli occhi e la mente. Avevo passato l’intera giornata al computer lasciandomi distrarre soltanto dallo scambio di e-mail e dal suono acuto delle notifiche non richieste; ero satura, provata, staccata da me. Fu un attimo: sentii la necessità di chiudere tutto, di distogliere i pensieri e di aprire gli occhi per davvero, sebbene li avessi aperti da almeno otto o nove ore, era come se dovessi ancora svegliarmi e farvi entrare una luce vera, che non mi ferisse, diversa da quella dei display. L’unico rumore a cui prestai attenzione, allora, fu quello dello schermo che si chiudeva sulla sudata tastiera sancendo davvero l’inizio della mia giornata.
I pensieri viaggiano alla velocità della luce infrangendo le barriere dello spazio e del tempo, così mi ritrovai in Cina a cavallo tra il quarto ed il quinto secolo, nella poesia di Tao Qian (365-427), anche noto come Tao Yuanming, che in un’epoca di disordini e violenza decise di abbandonare le cariche ufficiali per dedicarsi ad una vita semplice e felice che valesse la pena di essere vissuta, riscoprendo il senso delle piccole-grandi cose di ogni giorno: “In queste cose si trova/ l’essenza del Vero. / Ad esprimerlo/mancan le parole” (dalla traduzione di Giuliano Bertuccioli di Yin jiu, Bevendo il vino).
Il poeta mi porse un filo rosso invitandomi a fidarmi e a seguirlo: lo afferrai e di colpo attraversai altre epoche, altri luoghi, famigliari e sconosciuti, luoghi che avevo lasciato con noncuranza, immagini sulle quali non mi ero soffermata abbastanza e che ora mi chiedevano di riemergere. Mi ritrovai in uno spazio indefinito fatto di sfumature in cui distinguevo appena la forma delle cose che, però, sentivo note, vicine. Ero già stata lì e ci sarei tornata altre volte. Di nitido c’era, oltre alle sensazioni, quel filo rosso al quale mi tenevo aggrappata con forza, non sapevo più chi ci fosse dall’altra parte, ma continuai a fidarmi e a lasciarmi guidare, senza una ragione.
“Tieni aperta la porta del cuore, e anche tu troverai la tua Spiaggia dei Sogni.”
Erano anni che non mi tornava in mente questa frase de “L’onda perfetta” di Sergio Bambarén, anzi, a dir la verità credevo quasi di averlo dimenticato quel romanzo, ma lui non si era dimenticato di me, per fortuna. Ci sono momenti, emozioni, frasi, immagini, mani e occhi che rimangono dentro di noi ed agiscono segretamente, anche se non ce ne accorgiamo, ci levigano dolcemente come il vento e la pioggia fanno con le montagne. Quante albe hanno, inconsapevolmente, illuminato i nostri cammini? Bussole magiche che ci tengono saldi alla vita quando meno ce lo aspettiamo.
Il filo rosso, dunque, mi aveva fatta approdare sulla “Spiaggia dei Sogni” dove poter “disincagliare il cuore” e riprendermi il “tempo per vivere”. La “Spiaggia dei Sogni” è un luogo profondamente democratico, senza frontiere, dove pur parlando lingue diverse ci si capisce senza sforzo, è una dimora marina comune a tutti gli esseri umani, anche a chi non se ne ricorda o pensa di non sapersene più ricordare. La “Spiaggia dei Sogni” è paziente come il suo mare che di onda in onda si fa più profondo e limpido, sa aspettare, non ha fretta mentre conta le impronte dei sognatori erranti sulla sabbia dorata.
Oggi siamo tutti più smart: smartworking, smart TV, smartphone, ma la cosa più smart che potremmo fare davvero sarebbe staccare la spina, donarci il tempo di farlo, il tempo “di vivere”, appunto, di uscire, di scoprire di che blu si è tinto il cielo e di respirare. Ci insegnano l’importanza di accumulare ma, forse, dovremmo imparare soprattutto a fare spazio e a lasciar andare, a sgomberare la mente, a dire addio alle cose superflue per far entrare un pensiero nuovo, e recuperare, così, i sogni che aspettano di essere ripescati da anni, forse da secoli, per imparare a farne di nuovi, ogni giorno.
articolo di Martina Benigni
Il nuovo anno ha un profumo noto e sconosciuto, denso e pungente, mischiato a quello di caffè: si è fatto spazio nella stanza, cavalcando il soffio d’aria gelida che è entrato dalla finestra aperta per “far cambiare aria.”
Cambiare. Che parola incredibile. Il dizionario mi suggerisce provenire da una parola di origine gallica, a sua volta derivata dal greco “Kambein” che significava “curvare”, “girare intorno”. Il cambiamento, infatti, penso che coinvolga proprio il saper “curvare”, nel senso di essere elastici, di fare curve laddove necessario: disegnarle, percorrerle, essere noi stessi sinuose curve pronte a ridisegnare strade un tempo irte di rigidi rettilinei. Senza volerlo, forse guidata dalla mano del vento invernale, apro uno dei miei taccuini e dalle pagine del 2017 escono queste parole:
“Vorrei incontrarmi tra qualche tempo per vedere se mi riconosco. Quanto bisogna cambiare per non riuscirci più? Forse, invece, è proprio nel cambiamento, nella trasformazione che ci si conosce e riconosce, che ci si ritrova…”
Nel 2021 posso dire di rivedermi in queste righe, di riconoscermi, sebbene molto cambiata. Qualcuno, tempo fa, mi disse che tra ieri, oggi e domani scorrono anni, e che la me di adesso è già diversa da quella di un’ora fa. Non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma siamo fatti di cambiamento più di quanto siamo fatti d’acqua, siamo fatti di piccoli, impercettibili, enormi, trasformazioni che una dopo l’altra fluiscono nel mare del nostro Essere.
Ancora una volta, decido di rivolgermi ai poeti per cercare delle risposte, ma, come al solito, finisco sempre per ritrovarmi con nuove, bellissime domande. Al mio interrogarmi, oggi, risponde Pedro Salinas (1891-1951) con la poesia “Paura. Di te. Amarti.”, tratta dalla raccolta-poema d’amore “La voce a te dovuta” (1933), di cui vi riporto i versi incisi nel mio cuore, così come li ho sottolineati nel libro, sperando di farvi venire voglia di Cambiamento e di Poesia:
“Paura. Di te. Amarti
è il rischio più alto.
Molteplici, la tua vita e tu.
Ti ho, quella di oggi;
ormai ti conosco, penetro
in labirinti, facili
grazie a te, alla tua mano.
E i miei ora, sì.
Però tu sei
il tuo stesso più oltre,
come la luce e il mondo:
giorni, notti, estati,
inverni che si succedono.
Fatalmente, ti trasformi,
e sei sempre tu,
nel tuo stesso mutamento,
con la fedeltà
costante del mutare.”
di Martina Benigni
Il porto
Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –
io vengo da mari lontani
e carica d’innumeri cose disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –
io sono una nave
una nave che porta
in sé l’orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l’ondata sfinita?
Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido!
O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d’ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell’ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata –
Le poesie della Pozzi sono di una luce abbacinante: ci fanno andare al di là delle vette dei suoi amati monti lombardi per poi farci ripiombare nelle Radici della terra dove “sfacendosi/ dolorano le cose.” Questo per darvi solo un assaggio della bellezza e della profondità delle immagini che la sua penna, di nuvola e di roccia, sanno dipingere. Sono rapporto così intimo da considerarla una parte di sé, forse la più viva e pulsante, ecco perché nella poesia Bellezza (1934) nel donare se stessa dona anche i suoi “meriggi/ sul ciglio delle cascate, / i tramonti/ ai piedi delle statue, sulle colline, / fra tronchi di cipressi animati/ di nidi.” Altro tema importante è sicuramente l’amore verso l’altro, il diverso da sé che all’inizio è il tragico amore per il suo professore di greco e di latino, il quale, una volta finito, lascia nella poetessa un senso d’amaro e d’ingiustizia che si porterà dietro per tutta la vita, persino nella sua Vita sognata (1933). C’è, insomma, nell’opera della Pozzi, un mare infinito di immagini da cogliere con delicatezza e sensibilità, c’è una semplicità di stile e di scelta delle parole che rende al lettore la poesia accessibile e segreta al tempo stesso, quasi fosse un canto ancestrale che abbiamo la sensazione di aver già sentito, come un’eco lontana, forse di millenni fa. C’è, infine, la consapevolezza della pienezza della vita che, però, la poetessa non sa reggere !no in fondo, le trabocca dalle vene e lo sa: “Per troppa vita che ho nel sangue/ tremo/ nel vasto inverno”. Un inverno gelido che deve aver provato in alcuni dei rapporti umani, probabilmente in quelli fondamentali, che segnano irrimediabilmente. E a quell’inverno spaventoso, credo, la Pozzi abbia saputo rispondere con una splendida estate di poesia. In molti hanno tentato di dare delle etichette alla sua poesia: “crepuscolare”, “ermetica”, “d’amore”, “descrittiva”, “autobiografica”, ed altre, ma noi abbiamo una missione in quanto lettori nonché destinatari di questa bellissima eredità che è la sua poesia, e cioè quella di scavalcare le definizioni da “libro di matematica”, per assumerci l’onere e l’onore di leggere le parole nude, così come sono, così come le ha concepite l’autrice che solo nello scrivere riusciva a sentirsi Viva davvero, a stare al centro, in mezzo alla vita e non più in Riva ad essa “come un cespo di giunchi/ che tremi/ presso l’acqua in cammino.”
Spero che in questo 2020 che ha pesato e ancora pesa come un macigno sulle spalle di tutti noi, siate comunque riusciti a trovare quelle cose leggere che rendono più rosso il cuore e più dolce il cammino. E seppure non ci siate riusciti, consolatevi e gioite nella certezza di averci provato fino in fondo, sempre. Perché la ricerca non è mai vana.
articolo di Martina Benigni
Salpare
È sabato, sto per asciugarmi i capelli quando Lié chiede se può chiamarmi al telefono. “Certo, ci sono.”
Il turbante stretto sulla testa non riesce ad impedire la fuga di qualche goccia più ribelle che, ormai, spandendosi sul pavimento ha già creato una piccola oasi nel deserto, ma è una bella mattinata e dopo li asciugherò, mi prometto.
Fine della telefonata.
Poso lo smartphone, assorta. Mi ritrovo davanti alla finestra a guardare il fiume di cemento sempre uguale che fisso ormai da qualche anno e che più volte hanno solcato i velieri delle mie fantasie. Ce n’è uno proprio ora: il capitano, una donna dai capelli di stelle di mare, mi saluta fiera prima di fare rotta verso un nuovo sogno. Il cane della vicina intanto abbaia, come sempre, e, puntuali, gli rispondono i barboncini del palazzo di fronte. Mentre i cani discutono delle loro cose, io e il mio turbante stringiamo forte i capelli e i pensieri: aprire una mia rubrica!
“Ti do carta bianca, mi fido ciecamente”. Parole bellissime e spaventose al tempo stesso. Sapete quanto bisogna fare attenzione con la fiducia altrui? È più delicata di una ginestra. Da mancare il fiato. Eppure ho accettato, eppure ho voglia di raccontare, di scrivere e viaggiare a cavallo della penna, sperando mi porti da qualche parte, prima o poi, ma intanto mi godo il giro, dicono si faccia così.
Scrivere, sì, ma cosa? Che a qualcuno possano interessare i libri che leggo, le poesie che amo o i pensieri che faccio? Per non parlare del mio “mal di Cina” o della mia fissazione per le piccole cose di tutti i giorni e la loro disarmante bellezza. Cose già viste, forse… Sì, ma tu scrivi.
E allora ecco, così inizia questa rubrica che già ha preso forma come i miei ricci che nel frattempo si sono asciugati e saltellano sulle mie spalle, felici, proprio come me che penso a quanto sia bello cominciare, fare il primo passo su quella stessa terra dove qualcuno ha deciso, per amore e con amore, di tornare.
A quel qualcuno, a Lié Larousse, sono immensamente grata.
Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.
(“Il più bello dei mari” di Nazim Hikmet)
articolo di Martina Benigni
“…vivere è proprio un lavoro.” Così recita una delle poesie di Lié Larousse che è una donna che ama, come lei stessa ci confessa, e proprio per questo è una donna che Vive. Con questa raccolta ci fa affacciare sulla sua vita, anzi, sulle sue vite che si mischiano inevitabilmente con quelle degli altri “scapigliati”, distratti, di fretta, alcuni innamorati e bellissimi. La vita è dolorosa e il “tempo è bastardo”, ma in tutto ciò giace una profonda dolcezza che la poetessa sa ritrarre alla perfezione nelle immagini quotidiane e intime che regala ai lettori, come la pennellata d’acquerello della bimba dai capelli rossi o il sughetto finto del Nonno.
Lié lo sa che “.è la vita, si muore.” e, forse, proprio in questo nostro essere “un attimo” si cela tutta la nostra eternità. Ci vuole davvero tanto amore per scrivere versi come questi, per riuscire a cogliere tutta la poesia che divampa dai bar di periferia ad una Nonnina che chiacchiera “di tempo al tempo”. L’amore è la forza segreta che tutto muove: delusioni e gioie, soprattutto quelle, e in quanto tale va difeso. Mai farsi rubare l’amore, mai. Forse è proprio questo il messaggio più potente che sprigionano queste pagine, quasi accecandoci, lasciandoci senza fiato, inebetiti di fronte a tanta “semplice” verità.
La vita ci porta spesso a navigare mari in tempesta, così scuri e grandi da farci credere che tutto sia ormai perduto, che la rotta sia introvabile, ma è proprio allora che dobbiamo scrivere più forte, amare più forte e vivere più forte, che penso di non sbagliare nel definire sinonimi.
Vivere è, dunque, sbagliare, ridursi in pezzi, frantumarsi il cuore, per poi scoprirsi dolcissime “Sìbellule” pronte ad amare e ad amarsi perché non dobbiamo “lasciarci al caso”, ma reinventarci per noi e per chi amiamo.
Ecco, c’è tutto questo e molto di più nelle poesie di Lié: c’è la Vita. La Vita comunque.
di Martina Benigni
Martina Benigni è attualmente una studentessa della Magistrale in Lingue e Civiltà Orientali, presso La Sapienza di Roma, città dove è nata e cresciuta. Dopo la laurea triennale decide di recarsi in Cina, a Pechino, per approfondire la lingua, innamorandosene ancor di più, grazie alla bellezza della cultura, dei luoghi e delle persone conosciute durante quei tre mesi di studio e scoperta. L’amore per la letteratura comincia in tenera età, fra i banchi di scuola: da sempre avida lettrice, scopre molto presto anche la bellezza della poesia che diventa una sorta di bussola nella vita di tutti i giorni. Il sogno è quello di scrivere e viaggiare, che sono un po’ la stessa cosa, e di riuscire a tornare presto nella sua amata Cina.
Da dicembre terrà una sua rubrica letteraria sul sito e blog http://www.libroarbitrio.com
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