365 giorni, Libroarbitrio

Henry David Thoreau: “Ascoltare gli alberi” e ritrovarsi – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Oggi, 5 giugno, si celebra la Giornata Mondiale dell’Ambiente, il World Enviroment Day, giornata che dal 1974 vuole riportare al centro il tema dell’ambiente e della sua salvaguardia nel tentativo di sensibilizzare tutti gli individui al rispetto del nostro Pianeta, sempre più stremato dallo sfruttamento sfrenato voluto dai seguaci del dio denaro.

Il tema di questa quarantasettesima edizione, nello specifico, è quello del “Ripristino degli Ecosistemi”, sul manifesto della giornata leggiamo:

“Questo è il nostro momento. Non possiamo tornare indietro nel tempo. Ma possiamo coltivare alberi, rendere più verdi le nostre città, rinaturalizzare i nostri giardini, cambiare la nostra dieta e pulire i fiumi e le coste. Siamo la generazione che può fare pace con la natura.”

“Fare pace con la natura” sperando che lei voglia fare pace con noi: questo è l’obiettivo della nostra generazione ma anche di quelle future che dovranno, senza dubbio, riparare i danni di quelle precedenti. Basta pensare a quello che sta accadendo in Amazzonia per comprendere la gravità della situazione. Al giorno d’oggi, con le tecnologie a nostra disposizione, sarebbe possibile cambiare totalmente il corso degli eventi, non solo “salvare il salvabile”, quindi, ma addirittura migliorare la situazione partendo, ad esempio, da nuovi modelli educativi, sensibili a tematiche come quella del cambiamento climatico.

Il nostro Pianeta ha bisogno di cure, sono anni che cerca di farcelo capire: se nell’operetta morale “Dialogo della Natura e di un islandese” dello splendido poeta Giacomo Leopardi (1978-1837), era l’uomo a “fuggire la Natura” al fine di vivere una vita “oscura e tranquilla”, oggi, sarebbe la Natura stessa a fuggire da noi. Bisogna, allora, iniziare ad ascoltare la voce limpida della Natura, comprenderne le richieste più che evidenti e finalmente agire.

A proposito di ascoltare, c’è un libretto che ho trovato estremamente bello e prezioso dell’americano Henry David Thoreau (1817-1862), che si intitola proprio “Ascoltare gli alberi”. Henry David Thoreau è stato un filoso e uno scrittore, famoso il testo autobiografico “Walden ovvero vita nei boschi” (1854) e il celebre saggio “Disobbedienza Civile” (1849). “Walden” racconta dei due anni che Thoreau trascorse in totale solitudine e autonomia nei boschi nei pressi di Concord, Massachusetts, diventando ben presto un vero e proprio libro sacro della filosofia del “ritorno alla natura”, nonché libro fondamentale per gli ecologisti. Il saggio “Disobbedienza civile”, invece, ha riscosso un successo così grande tanto da ispirare personaggi come Gandhi oltre che ad essere ancor oggi oggetto di accesi dibattiti sulla legittimità dell’infrangere le leggi qualora esse non rispecchino il volere dei cittadini.

Il libro che vi propongo è piuttosto minuto ma denso di riflessioni profonde, tratte perlopiù dal diario di Thoreau. L’ho letto in pochi giorni, tra una fermata del tram e l’altra, ritrovandomi anche io a viaggiare, come Thoreau, fra boschi e ruscelli, nonostante mi dimenassi fra rotaie e strade chiassose. Nonostante l’ambiente non proprio bucolico, sono comunque riuscita a respirare la stessa pace che il filosofo americano ritrovava nella natura, riuscendo a sentire persino “il grillo, il gorgoglio del ruscello” e “il fruscio del vento fra gli alberi” parlarmi “in modo sobrio ma incoraggiante de continuo progresso dell’universo.”
Il nostro Thoreau consiglia proprio di ascoltare la voce dei rami e delle foglie per riuscire a ritrovare il proprio posto nel mondo, tanto fra la gente quanto fra gli alberi stessi, in un’armoniosa unione con tutto ciò che ci circonda, senza opposizione alcuna.

“È straordinario come siano universali questi imponenti sussurri, questi sfondi sonori- la risacca, il vento nella foresta, le cascate e così via- che pure all’orecchio e nell’origine sono essenzialmente una sola voce, la voce della terra, il respiro o il russare della creatura. La terra è la nostra nave e questo è il suono del vento nel sartiame mentre navighiamo.”

Nel corso della lettura, ci si imbatte spesso nei paragoni che l’autore tesse fra la natura- più nello specifico gli alberi- e gli esseri umani, che condividerebbero tra le altre cose la Crescita, un elemento straordinario, che non è determinato tanto dal tempo quanto dalle caratteristiche intrinseche possedute da ogni essere:

“L’uomo è come un albero che non è limitato dall’età, ma cresce fin quando ha radice nel terreno. Dobbiamo solo vivere nell’alburno e non nel durame. Il troncone contorto ha radici tenere quanto il giovane alberello.”

Attraverso gli occhi dell’autore ci ritroviamo a camminare fra piante sconosciute e altre note ma che, cangiando di continuo, ci appaiono sempre nuove. Nessuna cima d’albero vista all’alba è uguale a quella vista al tramonto e così noi. La Natura può insegnarci tanto, come ci dice lo scrittore, ma più spesso ci ricorda semplicemente di chi siamo e di quei valori che ci scorrono dentro come la tenacia e la resistenza. A pensarci bene non siamo così diversi da quei pini imperituri che “combattono con le tempeste di un secolo” portano innumerevoli, sofferte e meravigliose cicatrici, “eppure non si ritirano mai.”

L’autore, oltre a regalarci immagini vivaci di paesaggi silvestri, attraverso un linguaggio estremamente poetico, ci regala anche un innato ottimismo che può aiutarci a superare le sfide della vita, come leggiamo nella riflessione riguardo all’amamelide:

“Mentre le sue foglie cadono, sgorgano i fiori. L’autunno, allora, è in realtà una primavera. Tutto l’anno è una primavera.”

Buona Giornata Mondiale dell’Ambiente e buona lettura!

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Wisława Szymborska: la poetessa dello stupore – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Per capire Wislawa Szymborska leggete Wislawa Szymborska - la Repubblica

“Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.”

(Dalla poesia “Sulla morte senza esagerare” di Wisława Szymborska)

Wisława Szymborska (1923-2012) è stata una celebre poetessa polacca, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1996. Il comitato che le assegnò il Premio scrisse nella motivazione: “Per aver creato della poesia che tramite ironica precisione permette di mettere in luce il contesto storico e biologico in frammenti di realtà umana.” In effetti, la poesia della Szymborska fa pensare, emozionare e sorridere: più volte i suoi versi sono riusciti a strapparmi qualche risata dolce-amara, proprio perché l’ironia che li colora è brillante e piacevole, sembra di chiacchierare con quell’amico o quell’amica che sa sempre qual è la cosa giusta da dire e quando.

La sua giovinezza, a Cracovia, è segnata da eventi traumatici come la seconda guerra mondiale che la costringe, sotto Hitler, a studiare clandestinamente per ottenere il diploma, mentre sotto Stalin si vede negata la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, nel 1948, perché non in linea con i dettami del realismo socialista. Negli anni ’50, però, si iscrive al Partito Comunista, riscoprendone i valori e dedicandosi totalmente alla “causa”. La sua relazione con la politica, tuttavia, non fu affatto semplice ed in seguito, dopo aver lasciato il Partito, nella vita come nei versi, dirà: “Ho sempre guardato a tutta la sfera terrestre con la sensazione che ancora in altre parti del mondo si svolgono fatti terribili. Ma dopo una crisi profonda negli anni ’50 ho capito che la politica non è il mio elemento. Ho conosciuto gente molto intelligente per la quale tutta la vita intellettuale consisteva nel mediare su quello che aveva detto Gomulka ieri e oggi Gierek. Un’intera vita chiusa in un orizzonte così terribilmente ristretto. Così mi sono sforzata a scrivere versi che potessero superare questo orizzonte. Non mancano in essi le esperienze polacche. Se ad esempio fossi una poetessa olandese, la maggior parte dei miei versi non sarebbero stati scritti. Ma alcuni sarebbero stati scritti ugualmente, indipendentemente dal luogo dove sarei vissuta. Questa è una cosa importante secondo me”. 

Il successo delle sue poesie, già prima del Nobel, è dovuto soprattutto all’universalità dei temi trattati, dei dubbi che confessa a sé stessa e chi legge, nonché alla semplicità delle immagini che cuce con la stessa delicatezza di una nonna che, paziente, prepara un maglioncino al nipote o alla nipote. Troviamo un esempio di questa abbacinante semplicità in versi come i seguenti: “Piace-/ ma piace anche la pasta in brodo;/ piacciono i complimenti e il colore azzurro, / piace una vecchia sciarpa, / piace averla vinta, / piace accarezzare un cane.” Una semplicità che si accompagna alla lucida consapevolezza della finitezza materiale di tutte le cose, nella quale però risiede una bellezza unica, che gli Dei ci invidiano da sempre: “Ci sei- perciò devi passare./ Passerai- e qui sta la bellezza.”

L’andatura riflessiva e scherzosa delle poesie di  Szymborska apre ai lettori e alle lettrici un mondo quasi incantato, in cui anche l’immagine più triste o angosciosa diventa pretesto per rivolgere, tutto sommato, uno sguardo ottimistico al domani. Non è mai tutto nero o tutto bianco, ci sono sempre sfumature, e nulla si ripete due volte allo stesso modo, ogni cosa è fatta di trasformazioni: “Non c’è giorno che ritorni,/ non due notti uguali uguali,/ né due baci somiglianti,/ né due sguardi tali e quali.”La forza silenziosa e gentile che guida la penna della poetessa è lo stupore, quel sentimento che rende tutto unico e irripetibile, che splende negli occhi dei bambini e troppo spesso si offusca in quelli dei “grandi”. Un po’ come il Fanciullino di Pascoli, ma in modo totalmente diverso, Szymborska indaga il mondo attraverso la lente di un instancabile stupore che le permette di partecipare “a questo gioco con regole ignote” che è la vita. C’è di fondo un “Non lo so” esistenziale che spinge la poetessa ed il poeta in generale ad interrogarsi e a rinnovare continuamente la propria insaziabile sete di conoscenza. Il mondo, allora, diventa una sorpresa continua, persino le cose più umili possono e devono essere vissute con stupore perché il Nostro Tempo è unico e non c’è nulla che dovremmo dare per scontato. Quale mistero si cela dietro ad un “filo d’erba calpestato/ dal corso di incomprensibili eventi”? Non ci è dato di saperlo, forse, ma il vero dramma, penso, sta nel non chiederselo nemmeno.

Un tema fondamentale nella sua poesia, anche se poco riconosciuto da una certa critica, è quello dell’amore, al quale sono in realtà dedicate esplicitamente solo una manciata di poesie. L’apparente marginalità dell’amore nei versi della poetessa è smentita soltanto da un’attenta lettura, grazie alla quale è possibile cogliere, invece, le molteplici forme e situazioni in cui esso si manifesta tanto nella vita quanto sul foglio. Nelle sue “poesie d’amore” troviamo preoccupazioni quotidiane e slanci metafisici, grandi dolori e gioie vivifiche. Troviamo la solita ironia che sempre muove l’ingegno poetico dell’autrice e che regala sorrisi sornioni come in questo caso: “Ma già sanno di noi […] E sanno i bicchieri perché sul fondo/ il tè avanzato si raffredda./ Swift ormai non può certo fare conto/ che questa notte qualcuno lo legga.”
Ci sono poi poesie in cui gli amanti si mischiano alla natura nel panteismo più romantico e fiabesco che ci dà la sensazione di trovarci di fronte ad un dipinto: “Si amarono tra i noccioli/ sotto soli di rugiada,/ raccolsero nei capelli/ foglie e terra bagnata.”
Nella poesia “Addio a una vista”, dedicata alla perdita dell’uomo amato, l’amore affonda nel dolore insopportabile dell’assenza che viene raccontato in maniera originale e profondissima al tempo stesso perché racconta di un’accettazione pacifica, di un dolore che non si tramuta in odio ma che, seppur presente, non diventa livore verso il mondo, ma nuova lente attraverso cui filtrare la realtà, arrivando a percepirla in modo ancora più sentito: “Prendo atto/ che la riva di un certo lago/ è rimasta – come se tu vivessi ancora –/ bella come era.

Ci sarebbe ancora tanto da dire su questa poetessa “figlia” del suo secolo, ma penso che siccome la poesia nasce dal silenzio, come lei stessa sostenne, affiderò al silenzio del foglio le parole che non so dire, ed alla sua poesia il “compito” di stupirvi, come ha fatto con me.

Un amore felice

Un amore felice. E’ normale?

è serio? è utile?

Che se ne fa il mondo di due esseri

che non vedono il mondo?

Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,

i primi qualunque tra un milione, ma convinti

che doveva andare così – in premio di che? Di nulla;

la luce giunge da nessun luogo

perché proprio su questi, e non su altri?

Ciò offende la giustizia? Si.

Ciò offende i principi accumulati con cura?

Butta giù la morale dal piedistallo? Si, infrange e butta giù.

Guardate i due felici:

se almeno dissimulassero un po’,

si fingessero depressi, confortando così gli amici!

Sentite come ridono – è un insulto.

In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.

E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,

quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano

sembra un complotto contro l’umanità!

E’ difficile immaginare dove si finirebbe

se il loro esempio fosse imitabile.

Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,

di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,

chi vorrebbe restare più nel cerchio?

Un amore felice. Ma è necessario?

Il tatto e la ragione impongono di tacerne

come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.

Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.

Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,

capita, in fondo, di rado.

Chi non conosce l’amore felice

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.

dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

“Portami il tramonto in una tazza”: le poesie di Emily Dickinson – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

“Finestra su San Giacomo d’Acri” fotografia di Chiara Morrone

Emily Dickinson (1830-1886) è oggi una delle poetesse americane più amate ed acclamate dalla critica, sebbene in vita riuscì a pubblicare soltanto sette poesie, anonime, delle oltre mille che scrisse con cura su quadernini e fogli di carta slegati sparsi per tutta la stanza, riportate alla luce soltanto dopo la sua morte.

Dickinson non scrisse soltanto tantissime poesie, ma altrettante lettere attraverso le quali è possibile ricostruirne la vita, segnata da un volontario ed infrangibile isolamento nel quale la giovane poetessa deciderà di chiudersi all’età di 23 anni. Scrive in una lettera del 1853: “Non me ne vado più di casa.” E ancora nel 1869: “Non mi spingo oltre il giardino di mio padre.” Per 41 anni, infatti, non metterà praticamente mai piede fuori dalla stanza, la cui porta tiene però sempre socchiusa, pronta ad accogliere i rumori “del mondo esterno”, dei quali canta nelle poesie, e dalla quale ammira lo scorrere del tempo attraverso l’eterno filtro della finestra. L’unico contatto col mondo esterno, infatti, oltre ai libri e alla fitta corrispondenza con pochi intimi amici, sarà proprio la finestra che sembra filtrare, allora, anche la sua poesia. La poetessa ha uno sguardo, dunque, profondamente introspettivo, ma che guarda sempre fuori, tutto teso a ciò che circonda la sua prigione dorata, in quanto l’attesa e il silenzio mischiati alla solitudine, elementi sempre presenti nella sua poesia come nella vita, fungono da preziosi strumenti per raccogliere meglio la vita fuori di sé che non la lascia mai indifferente: “È allora che le colline hanno un modo di essere/che fa sentire il cuore-altrove-.”

Per anni la vita di colei che nella sua città natale, Amherst in Massachusetts, fu soprannominata “Il Mito”, perché si diceva che si vestisse solo di bianco senza mai mostrarsi a nessuno, destò quasi più curiosità della sua poesia. Soltanto oggi la critica sta cercando di staccare, per quanto possibile, la vita dall’arte, leggendo le parole per quello che sono, come la poetessa le ha posate sul foglio, nude, difficili, “spasmodiche” e rivoluzionarie: “Alcuni dicono che/ quando è detta, /la parola muore./ Io dico invece che/ proprio quel giorno/comincia a vivere.”

Al contrario di quanto si possa pensare, la poesia di Dickinson è ricca di temi diversi e immagini inusuali, metafisiche, che abbagliano e rabbuiano al tempo stesso. L’amore è uno di quei temi che trova grande spazio fra i suoi versi intricati. Le poesie ad esso dedicate sono profonde e grondano di sentimenti diversi, tra i quali un dolore profondo che perciò può solo essere guadato: “Sono capace di passare a guado il dolore-/ Stagni interi di dolore-“. Oltre a questo, però, c’è anche una fortissima e sensuale tensione verso l’altro da sé, irraggiungibile, ma sempre presente: “Amore- tu sei profondo-/ non ce la faccio ad attraversarti-/ ma se fossimo in due […]”. C’è dunque una forte consapevolezza dell’esistenza potente, tangibile e dolorosa che fa sì che si “spazzino” i “cocci del cuore” dell’Amore, che come sempre, tutto muove. Leggiamo infatti: “Che l’amore è tutto ciò che c’è,/ è tutto quello che sappiamo dell’amore;/è abbastanza[…]”.

Come successe anche per Antonia Pozzi, gli scritti di Dickinson furono sottoposti ad una brutale operazione chirurgica da parte di coloro che si occuparono della loro pubblicazione. Alcune poesie erano evidentemente troppo scandalose e scomode per i tempi e per il puritanesimo imperante, di certo una donna di una rispettabile famiglia di avvocati non poteva parlare di desiderio né tantomeno di pazzia o di disagi vari che evidentemente non era tenuta a provare, figuriamoci a mettere nero su bianco. Per fortuna, però, sono tanti i versi intatti che ci regalano la voce autentica di questa poetessa così devota alla solitudine: “Sarei forse più sola senza la mia solitudine”.

La sua poesia, eternamente filtrata dalla cornice della finestra che separa e fonde il “dentro” e il “fuori”, è pervasa da una straordinaria sensitività, ricca di metafore spesso oscure e caratterizzata da un linguaggio mutevole e veloce, costellato di trattini, punti, e lettere maiuscole, a voler appunto dare rilievo ad alcuni elementi piuttosto che ad altri. Una poesia che sa orientarsi nella Notte: “poi- lo sguardo si abitua alla notte-/ e senza incertezza affrontiamo la strada”, ma che tende, in fondo, alla luce: “Se non avessi mai visto il sole/ avrei sopportato l’ombra-/ Ma la luce ha reso il mio Deserto/ ancora più selvaggio.”

La grande capacità di osservazione e la consapevolezza del mondo della poetessa, fanno sì che tutto diventi pretesto per cantare e per superare quell’attesa infinita di cui tanto ci parla nei suoi versi. Una forza interiore che trasforma l’isolamento e la paura in poesie, a volte aspre, che vanno lette con coraggio, quello stesso coraggio che lei stessa affronta “in solitudine”, in “una vita di silenzi”.

Vi lascio con alcuni suoi versi sperando, come sempre, di farvi venire voglia e fame di poesia:

Se tu dovessi venire in autunno
mi leverei di torno l’estate
con un gesto stizzito ed un sorrisetto,
come fa la massaia con la mosca.

Se entro un anno potessi rivederti,
avvolgerei in gomitoli i mesi,
per poi metterli in cassetti separati –
per paura che i numeri si mescolino.

Se mancassero ancora alcuni secoli,
li conterei ad uno ad uno sulla mano –
sottraendo, finché non mi cadessero
le dita nella terra della Tasmania.

Se fossi certa che, finita questa vita,
io e te vivremo ancora –
come una buccia la butterei lontano –
e accetterei l’eternità all’istante.

Ma ora, incerta della dimensione
di questa che sta in mezzo,
la soffro come l’ape-spiritello
che non preannuncia quando pungerà.

(1862)

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Carmen Yáñez: poesie “per sistemare i conti con l’orrore con tutta la tenerezza della quale sono capace” per Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Qualche giorno fa sono riuscita finalmente a fare una passeggiata al mare: nulla di che, un caffè alla salsedine e l’azzurro a riempirmi gli occhi ed il cuore ingrigiti dall’asfalto. Il mare, come sempre, riesce a suscitare in me sensazioni e pensieri profondi, lampi di chiarezza assoluta, scene che passano veloci nella mente e le onde a fare da colonna sonora ad un film che non rivedrò più. Certi pensieri che nascono di fronte al mare sono leggeri come granelli di sabbia, e come questi fuggono via, trasportati dal vento, impercettibili, mentre con le mani proviamo, illusi, a trattenerli. Sono piccole epifanie, piccole illuminazioni che riescono a levigarci col tempo, come scogliere irlandesi, ma ce ne rendiamo davvero conto solo col passare dei giorni, o degli anni se serve. Nel frattempo, tutti questi granelli, trovano casa nel mondo e sul fondo del mare che, paziente, ce li restituisce dopo averli accuditi con dolcezza. 

Il mio “pensiero-granello” si era perso fra le pieghe frenetiche della settimana, solo adesso lo vedo poggiarsi dolcemente sulla scrivania, vicino alla penna e al romanzo di Luis Sepúlveda. Lo sfioro appena con la punta dell’indice, per paura che spaventato possa scapparsene di nuovo: non oppone resistenza, si lascia carezzare e così, ormai sicura, lo avvicino al mio orecchio per decifrarne la lingua. Ma certo! Carmen Yáñez!

Un filo rosso d’amore infinito collega l’articolo precedente a quello di oggi, nel quale non posso non parlare della poetessa e attivista Carmen Yáñez (1952), moglie di Luis Sepúlveda. La giovane Carmen, figlia di operai, finisce nel 1975 nelle luride mani della polizia politica di Pinochet, ingrandendo le fila desaparecidos. Riuscita a sfuggire all’inferno di Villa Grimaldi, è costretta a vivere in clandestinità abbandonando l’amato Cile, proprio come Lucho il quale, già esule, si era sposato nuovamente in Germania.  La loro storia, come dice in un’intervista la stessa poetessa, è stata costellata da tanti re-incontri, fino ad arrivare a quello finale che sancirà la loro rinnovata unione con la decisione di risposarsi e di vivere insieme nella resistenza e nel rifiuto di qualsiasi forma di rabbia o di odio, veleni potenti i cui segni si sono impressi sulla loro pelle.

Le prime poesie della Yáñez vengono pubblicate in Svezia, dove vive grazie alla protezione dell’ONU negli anni ’80, prima di trasferirsi nelle Asturie. Come afferma lei stessa “Niente di ciò che scrivo è senza il motore dei miei sentimenti” e dunque nei suoi versi troviamo la sua vita e tutto ciò che la riguarda: i paesaggi, le malinconie, i dolori, la condizione di migrante, la memoria, le battaglie civili, l’urgenza del verso e dell’essere ma anche quella fonte vivifica che è l’amore.

Il suo poetare crea atmosfere fiabesche imbevute di quotidiano, le immagini sono profonde e leggere al tempo stesso come leggiamo in questi potenti versi: “Ciascuno/ porta il proprio tempo/ tra le ciglia,/ un dolore accumulato/ tra le cornici dell’esistenza.”

I versi della poetessa cilena sono “impegnati” politicamente e umanamente, due parole che ai giorni nostri sembrano farsi la guerra ma che dovremmo, invece, cominciare ad usare insieme, armoniosamente, senza escludersi a vicenda. Tra i suoi versi, quelli d’amore si nutrono di immagini semplici, vere, di “silenzi” e di “parole che riempiono”, “del mondo” perché è in esso che dimora l’altro. Nella poesia “Amare”, leggiamo: “Amare la sera condivisa/ la pioggia sul tetto/ quando il cielo cade a pezzi/ di tristezza.”

Le parole sono scelte con cura e pesate con precisione, con esattezza, non cadono mai a caso sul foglio ma trovano il loro posto in una trama fitta di metafore e immagini che alludono contemporaneamente ad una dimensione più profonda, non sempre deducibile, ma che sono ostentatamente attaccate alla vita di tutti i giorni ed è per questo che possiamo riconoscerci in ogni verso, perché i temi, comunque, restano sempre universali anche se calati in contesti o riferimenti specifici.

Tra le tematiche che per forza di cose tornano più spesso nelle raccolte della Yáñez c’è quella del dramma della migrazione, dell’essere migrante con la speranza sempiterna di poter un giorno tornare a casa, di riconoscersi ancora, di ritrovare le strade note di un tempo, come nella poesia “Civico”: Cerco quella stessa strada/ quel civico. /L’insegna spenta, /la porta chiusa e dentro/ la polvere copre la mia perplessità. /Le ragnatele ordiscono il nostro sogno infranto/su un piano disprezzato.” La poetessa sente fin dentro alle ossa il dolore delle donne, degli uomini e dei bambini che ogni giorno rischiano la propria vita in barca o su strade tormentate per trovare un angolo di pace, per rivendicare il proprio diritto di esistere e realizzarsi, ed è con la scrittura che riesce a dargli voce, ma anche ad opporsi in modo sano alla violenza insensata dei nostri tempi.

L’ultimissima raccolta della poetessa cilena, “Senza ritorno”, riprende i temi di sempre, come la “cocciuta nostalgia” ma ad essi si aggiunge dolorosa e meravigliosa al tempo stesso, l’ultima poesia scritta per Lucho mentre era in vita. La voce della Yáñez è una voce universale, che sa raccontare e raccontarsi con una forza tale che quasi ferisce il lettore che alla fine, però, non può non sentirsi trasformato dopo un viaggio così profondo che lo porta, in definitiva, a coltivare la certezza luminosa che l’estate arriva sempre e che un mondo migliore è possibile.

Vi lascio con una sua poesia tratta dalla raccolta “La latitudine dei sogni”:

Ci sei;

i gerani, le azalee,

la raccolta dei frutti

dell’estate del tuo amore

mi dicono dolcemente il tuo nome.

Ci sei;

i tuoi passi,

la scala che scricchiola deliziosa,

il tuo silenzio rumoroso

lassù in soffitta.

I fantasmi che ti spiano

le parole che incontrano le tue parole,

il tuo desiderio,

storie che entrano nella tua luce.

La tua rabbia,

una tempesta che scema con la sera calma.

Così scrivi per i giusti, degli stolti;

così la tua voce corre sui cornicioni.

mi sei, mi esisti

ed è ora che devo

proteggerti lo sguardo.

È il tempo plurale

nostro,

il pretesto per parlare ancora d’amore.

È la sera sulla pelle

dorata di sole e anni.

È dolcezza che scorre ancora e non so

fino a quando nelle vene

di questo nostro piccolo mondo.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

A che serve la letteratura? – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

 “La letteratura ha ridestato in me quelle idee che bisognerebbe avere nei riguardi di ogni cosa e di cui prima non mi ero resa conto. In queste idee, che sono tutt’altro che scientifiche e perfette, si trovano tuttavia i motivi reconditi che mi hanno spinto a lottare fino a battere la testa e a farla sanguinare. Ma non me ne pento. Quando si è innamorati di qualcosa o di qualcuno non si è mai oggettivi o razionali.”

(Zhang Jie, “Uno studio sulla perseveranza” (1981), trad. M.E. Testa)

Zhang Jie (1937) è una delle autrici più importanti della letteratura cinese del ‘900. Dopo gli anni terribili della Grande Rivoluzione Culturale (1966-1976, secondo gli storici cinesi) riesce a dare voce alla sua penna, elegante e dura al tempo stesso, e a parlare dei temi a lei più cari quali l’amore con la “a” maiuscola, la condizione femminile e, più in generale, le vicissitudini umane: storie comuni di gente comune con tutto quello che ne consegue. 

Queste poche, profonde, righe riprese da un suo saggio mi riecheggiano nella mente da ormai qualche mese. Più volte, infatti, mi sono interrogata sul ruolo della letteratura, o meglio, sul ruolo che quest’antica forma d’arte e di Essere ha oggi per le persone. La risposta non è mai la stessa e non è nemmeno definitiva, per fortuna, ma più volte mi è sembrato di trovarmi a fronteggiare un muro di indifferenza e scetticismo nei confronti di questa tematica, eretto da tutte quelle persone alle quali ho sentito dire: “Sì, bella la letteratura, ma poi che ci fai?”. Tutto si riduce, insomma, ad una mera soddisfazione dei bisogni materiali: le cose devono servirti e tutto ciò che non serve è inutile, lo dice la parola stessa…Eppure non mi convince, non ci sto. Ho sempre avuto la sensazione che perseguire l’utile, in fondo, fosse una grande fregatura, anzi, un vero e proprio pericolo per la propria identità. Se non vi fidate di me, fidatevi di Zhuangzi, filosofo cinese vissuto, forse, tra il IV e il III secolo a.e.c. che diceva:


“Solo coloro che conoscono il valore dell’inutile possono parlare di ciò che è utile. La terra che calpestiamo è immensa, ma questa immensità non ha valore pratico: l’unica cosa che serve per spostarci è lo spazio ricoperto dalla pianta dei nostri piedi. Supponiamo che uno perfori la terra su cui camminiamo, scavando una fossa così profonda da arrivare giù fino alla Fonte Gialla: avrebbero una qualche utilità i due pezzi di terreno su cui poggiano i nostri piedi?”. Hui-Tzu rispose: “Effettivamente, sarebbero inutili”. E il maestro concluse: “Dunque, è evidente l’utilità dell’inutilità”.

(Chuang-Tzu, brani scelti da Ottavio Paz, Oscar Mondadori)

Per ognuno di noi la letteratura ha un valore diverso, ognuno di noi crea delle immagini proprie ed uniche a partire dalle parole scritte da qualcun altro e la cosa meravigliosa è che l’opera vive sempre di vita propria a prescindere dalla mano che le ha dato vita, essa diventa di tutti, diversa ad ogni lettura, mai identica, sempre in trasformazione come l’identità di chi legge. E questo lo sapeva bene William Shakespeare (1564-1616) che era consapevole di come i suoi versi sarebbero vissuti in eterno superando ogni barriera, ogni confine, eternando la sua amata e la scrittura stessa, come leggiamo negli ultimi versi del celeberrimo sonetto n. 18: “finché ci sarà un respiro od occhi per vedere/ questi versi avranno luce e ti daranno vita.”

Nel caso di Zhang Jie, la letteratura le ha permesso di restare umana come afferma lucidamente lei stessa, ha fatto sì che lei potesse rimanere “un essere umano vivo”, perché c’è differenza fra Vivere e sopravvivere, fra passare le giornate e viverle intensamente, anche nell’umile poetica-prosaicità di ogni giorno.

Mi sembra che tutto porti ad una parola, cioè Ricerca perché cos’è la letteratura se non ricerca continua? Il vento che gonfia le vele spiegate della “barca della Ricerca” è fatto di tante cose secondo me, e fra di esse c’è di certo la letteratura in tutte le sue declinazioni e sfumature con la sua natura fondamentalmente democratica. Essa rappresenta una Ricerca personale e sociale al tempo stesso, di rapporto, partendo dal singolo fino ad abbracciare il mondo intero di cui tutti e tutte siamo parte integrante, pensante, “leggente” e “scrivente”, e non solo numeri o ombre di passaggio, come ci vogliono far credere.

Ci sarebbe tantissimo altro da dire proprio perché la letteratura è in grado di abbracciare la “molteplicità” nella sua forma più varia e completa ed io, forse, non ho ancora le parole per dire di più, forse domani ne troverò di migliori, forse mai, forse qualcuno le ha già trovate per e le ha scritte su un foglio sgualcito, infilato in una bottiglia che ora galleggia chissà in quali mari.

Charles Baudelaire (1821-1867) scriveva Enivrez-vous, cioè “Ubriacatevi”, scegliete voi di cosa, io mi faccio un altro sorso di letteratura.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Antonia Pozzi: perché dovremmo tutti avere un “Desiderio di cose leggere” per la rubrica – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni –

Il porto

Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –

io vengo da mari lontani
e carica d’innumeri cose disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –

io sono una nave
una nave che porta
in sé l’orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l’ondata sfinita?

Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido!

O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d’ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell’ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata –

Le poesie della Pozzi sono di una luce abbacinante: ci fanno andare al di là delle vette dei suoi amati monti lombardi per poi farci ripiombare nelle Radici della terra dove “sfacendosi/ dolorano le cose.” Questo per darvi solo un assaggio della bellezza e della profondità delle immagini che la sua penna, di nuvola e di roccia, sanno dipingere. Sono rapporto così intimo da considerarla una parte di sé, forse la più viva e pulsante, ecco perché nella poesia Bellezza (1934) nel donare se stessa dona anche i suoi “meriggi/ sul ciglio delle cascate, / i tramonti/ ai piedi delle statue, sulle colline, / fra tronchi di cipressi animati/ di nidi.” Altro tema importante è sicuramente l’amore verso l’altro, il diverso da sé che all’inizio è il tragico amore per il suo professore di greco e di latino, il quale, una volta finito, lascia nella poetessa un senso d’amaro e d’ingiustizia che si porterà dietro per tutta la vita, persino nella sua Vita sognata (1933). C’è, insomma, nell’opera della Pozzi, un mare infinito di immagini da cogliere con delicatezza e sensibilità, c’è una semplicità di stile e di scelta delle parole che rende al lettore la poesia accessibile e segreta al tempo stesso, quasi fosse un canto ancestrale che abbiamo la sensazione di aver già sentito, come un’eco lontana, forse di millenni fa. C’è, infine, la consapevolezza della pienezza della vita che, però, la poetessa non sa reggere !no in fondo, le trabocca dalle vene e lo sa: “Per troppa vita che ho nel sangue/ tremo/ nel vasto inverno”. Un inverno gelido che deve aver provato in alcuni dei rapporti umani, probabilmente in quelli fondamentali, che segnano irrimediabilmente. E a quell’inverno spaventoso, credo, la Pozzi abbia saputo rispondere con una splendida estate di poesia. In molti hanno tentato di dare delle etichette alla sua poesia: “crepuscolare”, “ermetica”, “d’amore”, “descrittiva”, “autobiografica”, ed altre, ma noi abbiamo una missione in quanto lettori nonché destinatari di questa bellissima eredità che è la sua poesia, e cioè quella di scavalcare le definizioni da “libro di matematica”, per assumerci l’onere e l’onore di leggere le parole nude, così come sono, così come le ha concepite l’autrice che solo nello scrivere riusciva a sentirsi Viva davvero, a stare al centro, in mezzo alla vita e non più in Riva ad essa “come un cespo di giunchi/ che tremi/ presso l’acqua in cammino.”

Spero che in questo 2020 che ha pesato e ancora pesa come un macigno sulle spalle di tutti noi, siate comunque riusciti a trovare quelle cose leggere che rendono più rosso il cuore e più dolce il cammino. E seppure non ci siate riusciti, consolatevi e gioite nella certezza di averci provato fino in fondo, sempre. Perché la ricerca non è mai vana.

articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

“Di fiori di pesco e pagine scritte” ogni sabato mattina appuntamento con la nuova Rubrica di Martina Benigni

Salpare

È sabato, sto per asciugarmi i capelli quando Lié chiede se può chiamarmi al telefono. “Certo, ci sono.” 
Il turbante stretto sulla testa non riesce ad impedire la fuga di qualche goccia più ribelle che, ormai, spandendosi sul pavimento ha già creato una piccola oasi nel deserto, ma è una bella mattinata e dopo li asciugherò, mi prometto. 
Fine della telefonata.
Poso lo smartphone, assorta. Mi ritrovo davanti alla finestra a guardare il fiume di cemento sempre uguale che fisso ormai da qualche anno e che più volte hanno solcato i velieri delle mie fantasie. Ce n’è uno proprio ora: il capitano, una donna dai capelli di stelle di mare, mi saluta fiera prima di fare rotta verso un nuovo sogno. Il cane della vicina intanto abbaia, come sempre, e, puntuali, gli rispondono i barboncini del palazzo di fronte. Mentre i cani discutono delle loro cose, io e il mio turbante stringiamo forte i capelli e i pensieri: aprire una mia rubrica!
“Ti do carta bianca, mi fido ciecamente”. Parole bellissime e spaventose al tempo stesso. Sapete quanto bisogna fare attenzione con la fiducia altrui? È più delicata di una ginestra. Da mancare il fiato. Eppure ho accettato, eppure ho voglia di raccontare, di scrivere e viaggiare a cavallo della penna, sperando mi porti da qualche parte, prima o poi, ma intanto mi godo il giro, dicono si faccia così. 
Scrivere, sì, ma cosa? Che a qualcuno possano interessare i libri che leggo, le poesie che amo o i pensieri che faccio? Per non parlare del mio “mal di Cina” o della mia fissazione per le piccole cose di tutti i giorni e la loro disarmante bellezza. Cose già viste, forse… Sì, ma tu scrivi.
E allora ecco, così inizia questa rubrica che già ha preso forma come i miei ricci che nel frattempo si sono asciugati e saltellano sulle mie spalle, felici, proprio come me che penso a quanto sia bello cominciare, fare il primo passo su quella stessa terra dove qualcuno ha deciso, per amore e con amore, di tornare.
A quel qualcuno, a Lié Larousse, sono immensamente grata.

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.

Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.

I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.

E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

(“Il più bello dei mari” di Nazim Hikmet)

articolo di Martina Benigni

Martina Benigni già dottoressa in Lingue, Culture, Letterature e Traduzioni, è attualmente studentessa dell’ultimo anno Magistrale in Lingue e Civiltà Orientali presso La Sapienza Università di Roma

365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – L’angelo – Gino Dondi

Cratività - Verdirosi

Quell’estate, quella maledetta estate, Cesco e Lucia andarono al mare pochissime volte. In agosto la tradizionale crociera verso sud con gli amici era saltata.
Ormai era l’ultima settimana di ottobre, l’estate finita da molto, gli alberi perdevano le foglie ma in quei giorni non era ancora freddo. Il meteo quel sabato prometteva tempo variabile. Cesco voleva prendersi una pausa: “Lucia che ne dici, ci facciamo due giorni in barca? Soli, io e te. Potrebbe aiutarci a…”
“No”, l’interruppe “mi dispiace, non me la sento. Hai chiesto a Denis e Luca?”
“Hanno impegni. Potresti…”
“Non insistere”, ribatté e lo fissò come se il suo sguardo lo volesse avvertire di ovvi significati, ma che lui non volle cogliere.
“Ti spiace se vado io?”
“No. Va’ pure.”
“Tu?”
Lei non rispose.
Cesco fece per andarsene poi si girò: “Le cose succedono. Non serve…” Lei l’interruppe: “Non mi va’ di parlare. Cerca di capirlo,” lo disse con voce dura, astiosa.
Lui non aggiunse altro. Non c’era altro da aggiungere. Diede un fugace bacio sulla guancia della moglie, salì in camera, si cambiò e prese lo zainetto, sempre pronto, e partì.
Entrò in autostrada a Fornovo, il traffico era abbastanza intenso.
Viaggiava spedito, ma sempre entro i limiti di velocità: a volte i centotrenta, oppure meno.
Superato Borgotaro, forse casualmente, guardò nello specchietto e vide arrivare veloce una Bmv X6. Cesco accelerò.
‘Non farlo’, si disse.
Con quel mostro non c’era gara, ma sapeva che i successivi dieci chilometri di salita erano di curve strette e gallerie, e lì avrebbe potuto dire la sua..
‘Non farlo’, si ripeté. Nella sua mente risuonò la voce di Lucia: quante volte avevano discusso, e lei si era arrabbiata, e aveva ragione.
‘Qualche chilometro poi rallento’, si disse sapendo di mentire.
Non era solo il gusto della sfida, l’istinto della competizione, che pure aveva sempre avuto. Era di più. Era la Bestia Nera dell’aggressività. Tenuta dentro, in una gabbia di rispetto degli altri, di educazione ricevuta. Ma la Bestia Nera c’era e doveva sfogarsi in qualche modo. Negli ultimi tempi era cresciuta, diventata ingombrante.
Il cuore gli batteva violento nel petto. Le mani artigliate al volante. Gli occhi che saettavano dalla strada allo specchietto. Le gomme che gemevano sull’asfalto. A volte l’X6 lo sorpassava e subito dopo Cesco lo metteva dietro. ‘Sei uno stronzo’, si ripeteva: e lo diceva a se stesso.
Due idioti che mettevano a repentaglio la loro stessa incolumità e quella degli altri: lo sapeva.
‘Smettila’, si diceva.
Ma la Bestia Nera ora ruggiva la sua rabbia. Le gomme che stridevano era la sua voce.
Sapeva anche che dopo si sarebbe pentito, si sarebbe dato dello stupido. Sì, gli sarebbe venuto il magone a pensare quanto era stato infantile; ma questo sarebbe successo solo quando avrebbe ripreso il controllo di se stesso. In quel momento l’aggressività imponeva la sua violenza.
All’entrata della galleria del valico Cesco rallentò vistosamente, come a dire: vattene pure, io vinco nella parte ‘guidata’ non in rettilineo.
Quando sbucò sul versante toscano piovigginava.
Cesco era deluso da se stesso, doveva digerire il boccone amaro di sentirsi uno stupido.
Ma non solo quello: un dolore infinito aveva devastato la sua vita e da allora sfidava il destino con aggressività, forse con il desiderio inconsapevole di farla finita.
All’area di servizio di San Benedetto si fermò. Sentiva di doversi sciacquare la mente dalle
tossine che lo ammorbavano. Con l’auto andava lento, cercava uno spazio vuoto per parcheggiare, d’un tratto, dall’altra parte del piazzale gli parve di vederla. Il cuore si fermò, poi si mise a martellare violento. “Chiara!”, urlò. E subito si rese conto dell’assurdità di quel grido. No, non poteva essere lei. Doveva mantenersi razionale: lo sapeva. I suoi pensieri potevano diventare relitti sballottati in un mare di irrazionalità. Doveva evitarlo.
Ripartì.
Dopo Aulla il sole stava comparendo lentamente, quasi controvoglia.
Ancora mezz’ora e arrivò a Fezzano. Il porticciolo era quasi deserto. Percorse il pontile lentamente guardando barche bellissime di dodici, quindici metri, le ammirava sì, ma senza invidia: lui era legato alla sua non più giovane e neanche tanto appariscente Aziza. No, non l’avrebbe mai cambiata. Mai.
Poi eccola, finalmente. Si fermò sul pontile, posò lo zainetto e la guardò.
Sentì la memoria retrocedere, davanti ai suoi occhi riaffioravano in un unico sguardo le veleggiate tranquille nel mare buono, l’adrenalina col mare cattivo, le dormite sulla tuga con il sole che ti cuoce la pelle. Il Gps che ti dice dove sei e dove andrai: Punta Bianca, le secche della Meloria, San Vincenzo, il golfo di Baratti, l’Elba, poi Capraia e la Corsica. E le sere alla luce morbida della lanterna a mangiare pesce pescato e intanto parlare di letteratura, discutere di politica con Luca, Denis, Willy, Patrizia. Raffiche di passato lo sconquassavano. Con un balzo salì a bordo e si sedette. Con la mano carezzò il timone, tiepido di sole, e rivide Lucia che portava la barca con sicurezza, i capelli scompigliati dal vento. Anche a Chiara piaceva timonare.
Un magone pesante gli attanagliava la gola. Decise di partire, subito. Aprì il boccaporto, prese il salvagente di poppa, il Gsp e risalì in coperta, aprì il rubinetto della nafta e accese il motore. Sganciò le cime di ormeggio e diede gas. Aziza partì lenta e sicura, percorse il breve tratto di porto poi, fuori.
L’aria era pulita, frizzante. Un po’ di onda la faceva dondolare, pareva fosse contenta di andare. Superata la diga foranea ecco il mare aperto. Cesco mise la prua al vento e aprì la randa. Spento il motore, aperse anche il fiocco. Un leggero maestrale gonfiò subito le vele. Direzione sud. Alla destra l’isola Palmaria, poi il Tino. Poi dritto verso la linea dell’orizzonte dove mare a cielo si confondono. Veleggiò per diciotto miglia, e per quelle quattro ore si concesse il lusso di non pensare.
Il sole alto gli disse che era tempo di tornare. Virò, ora il maestrale lo aveva di poppa, virò ancora e sentì il vento graffiargli la sinistra del volto. Direzione 340 gradi.
Un’ora dopo vide affiorare dalla linea incerta dell’orizzonte la sagoma ingobbita di Montemarcello. Ora Aziza avanzava veloce con un maestrale rinforzato. L’ombra delle vele sul mare si faceva via via più lunga, ed ecco Punta Bianca, Tellaro.
Il giorno se ne stava andando, la luce smagriva lentamente, ostinata a non finire. Non gli andava di tornare, non voleva farsi inondare la mente dai fantasmi. Virò a sinistra, senza dirigersi verso il varco della diga foranea. Avrebbe gettato l’ancora in una rada.
Telefonò a Lucia: “Questa notte rimango qui, sono ancorato alla Palmaria, tranquilla va tutto bene. Torno domani.” Cesco fece per spegnere poi non seppe resistere all’impulso di aggiungere: “Oggi…?”
“Oggi come ieri”, disse Lucia con tono scontato, ma il dolore non era difficile da scorgere.
Avrebbe voluto dirgli che rintanarsi in se stessa non era il modo per superare la disperazione, ne avevano già discusso, invece disse solo: “Va bene. A domani.”
La luna galleggiava in un cielo blu intenso che di lì a poco sarebbe diventato nero.
Con il buio l’aria rinfrescò, ma non gli andava di chiudersi dentro. Rimase lì a guardare in lontananza le luci di Lerici che bucavano l’orizzonte. Scese sottocoperta, cercò qualcosa da mangiare, trovò solo una scatoletta di tonno e dei grissini. Nel frigorifero una bottiglia di vermentino di Sardegna. Tornò in coperta. Senza preparare il tavolino aprì la scatoletta e sturò la bottiglia. Mangiò qualche boccone e trangugiò un bicchiere di vino, poi un altro e un altro ancora. La rada era imbevuta di silenzio. Le stelle ora si vedevano nitide. Piccolissime macchie di luce. Si chiese se in quella profondità ci fosse un dio. Improvvisamente, come se i pensieri tenuti compressi nel fondo del cervello per tutta la giornata volessero esplodere nella sua mente, si sentì sommergere da uno strano sgomento. Rivolse lo sguardo su in alto e bisbigliò: “Dove sei Dio? Dove?” Avrebbe voluto gridare, ma aveva la gola attanagliata da un nodo inestricabile. Poi lo fece. Si alzò in piedi e gridò: “Dove sei Dio giusto e misericordioso? Perché mi hai dato la felicità, mi hai concesso quella creatura angelica per poi strapparmela via. Con quale logica, per quale castigo?” La notte nera gli fece udire solo lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo. Dentro di sé nessuna risposta. Solo una domanda: ‘Perché?’, si ripeteva. Senza usare il bicchiere, alzò il fondo della bottiglia e trangugiò finché il respiro lo consentì. Prese fiato, e ancora il vino scorreva dentro il suo corpo come se volesse lavar via il magone che lo mordeva.
‘Non ho strumenti capaci di capire, non ho parole capaci di consolare’, si disse. Una sottile rabbia gli stava montando dentro, riuscì solo a chiedersi: ‘Dio, se è vero che esisti da qualche parte, perché lasci sprofondare in questo abisso di disperazione questa tua creatura? Eh? Perché?’, protestò. Ma Lui, Dio, non gli rispose, allora Cesco pensò di maledirlo. Restò qualche momento immobile, il suo corpo fermo, la sua mente ferma. No, non riusciva ad amarlo, non più, ma nemmeno a imprecarlo.
“Chiara!!”, gridò al cielo, come se lei potesse sentirlo. Poi Cesco si accasciò sul pagliolo, raggomitolato in una posizione fetale. Sentì le lacrime scendere sulle guance. Come un coltello affilato quelle lacrime squarciarono la sua corazza e il suo pianto si fece dirotto, infantile.
Aziza dondolava dolcemente, cullando nel suo grembo quel corpo che sussultava squassato dai singhiozzi di un pianto liberatorio. Lentamente la coscienza di Cesco si sciolse, vinta dal vino e dalla stanchezza.
Più tardi il freddo intenso della notte lo svegliò. Aveva gli arti rigidi, la bocca impastata. La testa girava. Scese sottocoperta, si buttò sulle lenzuola della cabina di prua, lì dove con Lucia aveva parlato, riso, dormito, e anche fatto l’amore.
Lì avevano concepito Chiara.
Sì, proprio lì era iniziata la sua breve fantastica vita. Da allora anche quella dei genitori era diventata fantastica.
Dopo qualche mese il matrimonio, poi la sua nascita, poi quell’angelo che era tutta la loro vita. Poi un giorno un saluto rapido e qualche passo di corsa, poi lo stridore delle gomme sull’asfalto, poi un tonfo sordo, poi l’urlo lacerante della sirena, poi i passi in corsia.
Poi l’attesa.
Il tempo che rallentava. Si fermava.
Poi lo sguardo muto di un medico a dire tutto.
A dire che tutto era finito.

Racconto “L’angelo” scritto da Gino Dondi
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Opera pittorica – Creatività, libertà – Umberto Verdirosi

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