365 giorni, Libroarbitrio

Henry David Thoreau: “Ascoltare gli alberi” e ritrovarsi – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Oggi, 5 giugno, si celebra la Giornata Mondiale dell’Ambiente, il World Enviroment Day, giornata che dal 1974 vuole riportare al centro il tema dell’ambiente e della sua salvaguardia nel tentativo di sensibilizzare tutti gli individui al rispetto del nostro Pianeta, sempre più stremato dallo sfruttamento sfrenato voluto dai seguaci del dio denaro.

Il tema di questa quarantasettesima edizione, nello specifico, è quello del “Ripristino degli Ecosistemi”, sul manifesto della giornata leggiamo:

“Questo è il nostro momento. Non possiamo tornare indietro nel tempo. Ma possiamo coltivare alberi, rendere più verdi le nostre città, rinaturalizzare i nostri giardini, cambiare la nostra dieta e pulire i fiumi e le coste. Siamo la generazione che può fare pace con la natura.”

“Fare pace con la natura” sperando che lei voglia fare pace con noi: questo è l’obiettivo della nostra generazione ma anche di quelle future che dovranno, senza dubbio, riparare i danni di quelle precedenti. Basta pensare a quello che sta accadendo in Amazzonia per comprendere la gravità della situazione. Al giorno d’oggi, con le tecnologie a nostra disposizione, sarebbe possibile cambiare totalmente il corso degli eventi, non solo “salvare il salvabile”, quindi, ma addirittura migliorare la situazione partendo, ad esempio, da nuovi modelli educativi, sensibili a tematiche come quella del cambiamento climatico.

Il nostro Pianeta ha bisogno di cure, sono anni che cerca di farcelo capire: se nell’operetta morale “Dialogo della Natura e di un islandese” dello splendido poeta Giacomo Leopardi (1978-1837), era l’uomo a “fuggire la Natura” al fine di vivere una vita “oscura e tranquilla”, oggi, sarebbe la Natura stessa a fuggire da noi. Bisogna, allora, iniziare ad ascoltare la voce limpida della Natura, comprenderne le richieste più che evidenti e finalmente agire.

A proposito di ascoltare, c’è un libretto che ho trovato estremamente bello e prezioso dell’americano Henry David Thoreau (1817-1862), che si intitola proprio “Ascoltare gli alberi”. Henry David Thoreau è stato un filoso e uno scrittore, famoso il testo autobiografico “Walden ovvero vita nei boschi” (1854) e il celebre saggio “Disobbedienza Civile” (1849). “Walden” racconta dei due anni che Thoreau trascorse in totale solitudine e autonomia nei boschi nei pressi di Concord, Massachusetts, diventando ben presto un vero e proprio libro sacro della filosofia del “ritorno alla natura”, nonché libro fondamentale per gli ecologisti. Il saggio “Disobbedienza civile”, invece, ha riscosso un successo così grande tanto da ispirare personaggi come Gandhi oltre che ad essere ancor oggi oggetto di accesi dibattiti sulla legittimità dell’infrangere le leggi qualora esse non rispecchino il volere dei cittadini.

Il libro che vi propongo è piuttosto minuto ma denso di riflessioni profonde, tratte perlopiù dal diario di Thoreau. L’ho letto in pochi giorni, tra una fermata del tram e l’altra, ritrovandomi anche io a viaggiare, come Thoreau, fra boschi e ruscelli, nonostante mi dimenassi fra rotaie e strade chiassose. Nonostante l’ambiente non proprio bucolico, sono comunque riuscita a respirare la stessa pace che il filosofo americano ritrovava nella natura, riuscendo a sentire persino “il grillo, il gorgoglio del ruscello” e “il fruscio del vento fra gli alberi” parlarmi “in modo sobrio ma incoraggiante de continuo progresso dell’universo.”
Il nostro Thoreau consiglia proprio di ascoltare la voce dei rami e delle foglie per riuscire a ritrovare il proprio posto nel mondo, tanto fra la gente quanto fra gli alberi stessi, in un’armoniosa unione con tutto ciò che ci circonda, senza opposizione alcuna.

“È straordinario come siano universali questi imponenti sussurri, questi sfondi sonori- la risacca, il vento nella foresta, le cascate e così via- che pure all’orecchio e nell’origine sono essenzialmente una sola voce, la voce della terra, il respiro o il russare della creatura. La terra è la nostra nave e questo è il suono del vento nel sartiame mentre navighiamo.”

Nel corso della lettura, ci si imbatte spesso nei paragoni che l’autore tesse fra la natura- più nello specifico gli alberi- e gli esseri umani, che condividerebbero tra le altre cose la Crescita, un elemento straordinario, che non è determinato tanto dal tempo quanto dalle caratteristiche intrinseche possedute da ogni essere:

“L’uomo è come un albero che non è limitato dall’età, ma cresce fin quando ha radice nel terreno. Dobbiamo solo vivere nell’alburno e non nel durame. Il troncone contorto ha radici tenere quanto il giovane alberello.”

Attraverso gli occhi dell’autore ci ritroviamo a camminare fra piante sconosciute e altre note ma che, cangiando di continuo, ci appaiono sempre nuove. Nessuna cima d’albero vista all’alba è uguale a quella vista al tramonto e così noi. La Natura può insegnarci tanto, come ci dice lo scrittore, ma più spesso ci ricorda semplicemente di chi siamo e di quei valori che ci scorrono dentro come la tenacia e la resistenza. A pensarci bene non siamo così diversi da quei pini imperituri che “combattono con le tempeste di un secolo” portano innumerevoli, sofferte e meravigliose cicatrici, “eppure non si ritirano mai.”

L’autore, oltre a regalarci immagini vivaci di paesaggi silvestri, attraverso un linguaggio estremamente poetico, ci regala anche un innato ottimismo che può aiutarci a superare le sfide della vita, come leggiamo nella riflessione riguardo all’amamelide:

“Mentre le sue foglie cadono, sgorgano i fiori. L’autunno, allora, è in realtà una primavera. Tutto l’anno è una primavera.”

Buona Giornata Mondiale dell’Ambiente e buona lettura!

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Tram per Shanghai: viaggio tra i ricordi e i racconti di Zhang Ailing – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

La malinconia ha le sue leggi, ti viene a trovare quando meno te lo aspetti e ti resta attaccata come il sale dopo un tuffo in mare. Per me è una presenza costante, mi accompagna dovunque vada, solo che a volte tace, seguendomi in punta di piedi, e allora mi illudo che non ci sia. Oggi, invece, mi ha colpito in pieno petto mentre, aspettando il tram, mi ero persa con lo sguardo fra gli altissimi cipressi del Verano, custodi di lacrime e memorie. Il mondo intorno a me faceva tanto rumore: imprecazioni varie per il ritardo, chiacchiere impastate di fumo, scampanellii e clacson rabbiosi, eppure in quell’attimo mi sembrò di non sentire nulla, o meglio, di riuscire solo a percepire quel suono quasi ineffabile della brezza leggera che fruscia tra i bigliettini rossi traboccanti desideri appesi qua e là nei templi buddhisti cinesi. La prima immagine che mi tornò in mente fu quella del tempio del Buddha di giada a Shanghai, un luogo fuori dal Tempo e dalla metropoli, nonostante poco al di sopra delle mura si possano scorgere i grattacieli che invadono la città.

Shanghai, la “Perla d’Oriente”, è una signora elegante, vecchia e modernissima al tempo stesso. Situata sul delta del Fiume Azzurro, può permettersi il lusso di affacciarsi sul Mar Cinese Meridionale, mentre al suo interno è percorsa da un’arteria pulsante, meglio nota con il nome di fiume Huangpu. Salita sul tram, vedo scorrermi davanti il Bund di Shanghai con la Pearl Tower abbellita da migliaia di luci al neon, a fare capolino dal lato opposto. Dopo un attimo, ecco passare una via di cui non so il nome, ma larghissima e affollatissima: mi vedo schiacciata tra la gente come una formica, e allora, esausta, esco dalla laboriosa calca e mi dirigo verso una viuzza grigia per riprendere fiato. Qui la città sembra silenziosa, mi chiedo se sia ancora la stessa di un secondo fa. Che abbia attraversato qualche confine che ignoravo? No, è sempre la “Parigi d’Oriente, ma della Concessione Francese c’è ben poco qui: non ci sono bar alla moda né forzati accenti inglesi, ma ci sono signore che cucinano su carretti ingialliti dal tempo e dalla frittura, e tanti, tanti operai, con i caschetti gialli e i pantaloni macchiati. Forse vanno a costruire nuovi palazzi in centro o magari qualche albergo di lusso che nemmeno gli “stranieri” più ricchi riescono a permettersi.

Prima fermata, Via dei Sardi, però quando le porte si aprono, mi sembrano quelle del negozio di ravioli dove, dopo un’ora di fila, sono riuscita finalmente ad assaggiare uno di quelli tipici della città, con la zuppa dentro che ti esplode in bocca come uno tsunami di sapori infuocato. Le cuoche avranno la mia età, sono timide ma si lasciano fotografare volentieri dai turisti e ridacchiano tra loro mentre con le dita, velocissime, chiudono un raviolo dopo l’altro. I negozi di souvenirs hanno tutti le stesse cose: nodi rossi portafortuna, monete antiche, calamite della Grande Muraglia, bracciali con perline di legno per le preghiere e chi più ne ha più ne metta. La parte migliore, però, è contrattare con i negozianti in una battaglia all’ultimo Yuan solo per divertirsi a fingere di andar via per farsi rincorrere con l’ultima offerta, che non è mai l’ultima, si sa.

L’umidità di Shanghai, nel frattempo, ha assalito i finestrini del tram e dentro si inizia a sudare, proprio come quel giorno al Giardino del Mandarino Yu (Yu Yuan) dove mi sono ustionata il naso prendendo il sole, seduta sulle pietre del lago Tai incastonate fra le piante più disparate. Una vera oasi, un luogo incantato, nel centro di una delle città più all’avanguardia d’Asia, fra le architetture orientali e l’equilibrio perfetto tra il mondo umano, la casa, e la natura tutta intorno con fiori, alberi, rocce, e laghetti colmi di pesci. In Cina, sin dall’antichità, vige un pensiero per il quale gli opposti non vengono praticamente mai contemplati, tutto è complementare, e così il microcosmo, il mondo umano, è parte integrante e fondamentale del macrocosmo, il mondo naturale e i suoi prodigi.

Ecco la mia fermata, Scalo San Lorenzo. Scendo senza pensarci nemmeno, e mi siedo sulla prima panchina che incontro. Lascio che il sole mi riscaldi il cuore mischiandosi a quella malinconia che già da un po’ stava facendo il suo lavoro, regalandomi di nuovo le sensazioni indimenticabili di quel soggiorno a Shanghai, ormai lontano. La vita scorre veloce al ritmo frenetico della tecnologia e del PIL che cresce a dismisura, ma di Shanghai ho apprezzato soprattutto il fascino antico dei Longtang, vie d’altri tempi che danno vita a veri e propri blocchi di abitazioni dette Shikumen, letteralmente “porta di magazzino in pietra”, che fondono architettura cinese e occidentale in due o tre piani, decorati dalla quotidianità più disarmante, quella che ti riempie gli occhi di una bellezza tutta famigliare che sa di domeniche e pasta fatta in casa. 

Mentre gusto queste dolcissime memorie all’aroma di tè, ripenso alla Shanghai che non ho conosciuto, quella degli anni ’40 che però ho immaginato tante volte grazie alle parole della scrittrice Zhang Ailing (1920-1955) che, cosmopolita come la sua città, ha saputo ritrarre soprattutto le donne di questa ormai megalopoli, con tutte le loro emozioni ed immerse nel loro mondo, costellato di eleganti qipao, tradizionale abito femminile, e vivaci salotti. Mi sembra di sentire il rumore delle tessere di majiang che vengono spostate e rimischiate continuamente nella speranza di trovare la giusta combinazione, un po’ come si fa per la vita. Zhang Ailing in racconti come “Lussuria” – da cui l’omonimo film- ci racconta la Shanghai della guerra antinipponica, dello spionaggio e degli intrighi, dei tradimenti e degli ideali ma soprattutto degli amori che, spesso, si rivelano fatali soprattutto per le donne che mettono sempre un po’ di cuore in più. L’autrice guida il lettore per le vie più distinte e gli anfratti più deprimenti, passando sempre per i fitti pensieri dei suoi personaggi e dedicando ampie pagine descrittive agli oggetti, a tutti quei piccoli dettagli che contribuiscono a costruire in maniera credibile l’atmosfera di un’epoca.

Sperando di avervi invogliato a compiere questo viaggio nel tempo e nello spazio vi lascio un estratto da “Lussuria”:
“Sopra il tavolo da majiang la luce resta accesa anche di giorno e, quando si mescolano le tessere, gli anelli di diamanti sprizzano bagliori a destra e a manca. La tovaglia bianca, i cui angoli sono fissati alle quattro gambe del tavolo, è così perfettamente tesa da sembrare ancora più bianca, d’un candore niveo, quasi abbacinante. L’intenso contrasto tra luci e ombre mette in risalto i seni ben modellati di Jiazhi, e il suo viso, che regge bene anche la spietata illuminazione dall’alto.”

(Zhang Ailing, “Lussuria”, trad. it. M. Gottardo e M. Morzenti, 2007)

Articolo di Martina Benigni