365 giorni, Libroarbitrio

Wisława Szymborska: la poetessa dello stupore – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Per capire Wislawa Szymborska leggete Wislawa Szymborska - la Repubblica

“Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.”

(Dalla poesia “Sulla morte senza esagerare” di Wisława Szymborska)

Wisława Szymborska (1923-2012) è stata una celebre poetessa polacca, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1996. Il comitato che le assegnò il Premio scrisse nella motivazione: “Per aver creato della poesia che tramite ironica precisione permette di mettere in luce il contesto storico e biologico in frammenti di realtà umana.” In effetti, la poesia della Szymborska fa pensare, emozionare e sorridere: più volte i suoi versi sono riusciti a strapparmi qualche risata dolce-amara, proprio perché l’ironia che li colora è brillante e piacevole, sembra di chiacchierare con quell’amico o quell’amica che sa sempre qual è la cosa giusta da dire e quando.

La sua giovinezza, a Cracovia, è segnata da eventi traumatici come la seconda guerra mondiale che la costringe, sotto Hitler, a studiare clandestinamente per ottenere il diploma, mentre sotto Stalin si vede negata la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, nel 1948, perché non in linea con i dettami del realismo socialista. Negli anni ’50, però, si iscrive al Partito Comunista, riscoprendone i valori e dedicandosi totalmente alla “causa”. La sua relazione con la politica, tuttavia, non fu affatto semplice ed in seguito, dopo aver lasciato il Partito, nella vita come nei versi, dirà: “Ho sempre guardato a tutta la sfera terrestre con la sensazione che ancora in altre parti del mondo si svolgono fatti terribili. Ma dopo una crisi profonda negli anni ’50 ho capito che la politica non è il mio elemento. Ho conosciuto gente molto intelligente per la quale tutta la vita intellettuale consisteva nel mediare su quello che aveva detto Gomulka ieri e oggi Gierek. Un’intera vita chiusa in un orizzonte così terribilmente ristretto. Così mi sono sforzata a scrivere versi che potessero superare questo orizzonte. Non mancano in essi le esperienze polacche. Se ad esempio fossi una poetessa olandese, la maggior parte dei miei versi non sarebbero stati scritti. Ma alcuni sarebbero stati scritti ugualmente, indipendentemente dal luogo dove sarei vissuta. Questa è una cosa importante secondo me”. 

Il successo delle sue poesie, già prima del Nobel, è dovuto soprattutto all’universalità dei temi trattati, dei dubbi che confessa a sé stessa e chi legge, nonché alla semplicità delle immagini che cuce con la stessa delicatezza di una nonna che, paziente, prepara un maglioncino al nipote o alla nipote. Troviamo un esempio di questa abbacinante semplicità in versi come i seguenti: “Piace-/ ma piace anche la pasta in brodo;/ piacciono i complimenti e il colore azzurro, / piace una vecchia sciarpa, / piace averla vinta, / piace accarezzare un cane.” Una semplicità che si accompagna alla lucida consapevolezza della finitezza materiale di tutte le cose, nella quale però risiede una bellezza unica, che gli Dei ci invidiano da sempre: “Ci sei- perciò devi passare./ Passerai- e qui sta la bellezza.”

L’andatura riflessiva e scherzosa delle poesie di  Szymborska apre ai lettori e alle lettrici un mondo quasi incantato, in cui anche l’immagine più triste o angosciosa diventa pretesto per rivolgere, tutto sommato, uno sguardo ottimistico al domani. Non è mai tutto nero o tutto bianco, ci sono sempre sfumature, e nulla si ripete due volte allo stesso modo, ogni cosa è fatta di trasformazioni: “Non c’è giorno che ritorni,/ non due notti uguali uguali,/ né due baci somiglianti,/ né due sguardi tali e quali.”La forza silenziosa e gentile che guida la penna della poetessa è lo stupore, quel sentimento che rende tutto unico e irripetibile, che splende negli occhi dei bambini e troppo spesso si offusca in quelli dei “grandi”. Un po’ come il Fanciullino di Pascoli, ma in modo totalmente diverso, Szymborska indaga il mondo attraverso la lente di un instancabile stupore che le permette di partecipare “a questo gioco con regole ignote” che è la vita. C’è di fondo un “Non lo so” esistenziale che spinge la poetessa ed il poeta in generale ad interrogarsi e a rinnovare continuamente la propria insaziabile sete di conoscenza. Il mondo, allora, diventa una sorpresa continua, persino le cose più umili possono e devono essere vissute con stupore perché il Nostro Tempo è unico e non c’è nulla che dovremmo dare per scontato. Quale mistero si cela dietro ad un “filo d’erba calpestato/ dal corso di incomprensibili eventi”? Non ci è dato di saperlo, forse, ma il vero dramma, penso, sta nel non chiederselo nemmeno.

Un tema fondamentale nella sua poesia, anche se poco riconosciuto da una certa critica, è quello dell’amore, al quale sono in realtà dedicate esplicitamente solo una manciata di poesie. L’apparente marginalità dell’amore nei versi della poetessa è smentita soltanto da un’attenta lettura, grazie alla quale è possibile cogliere, invece, le molteplici forme e situazioni in cui esso si manifesta tanto nella vita quanto sul foglio. Nelle sue “poesie d’amore” troviamo preoccupazioni quotidiane e slanci metafisici, grandi dolori e gioie vivifiche. Troviamo la solita ironia che sempre muove l’ingegno poetico dell’autrice e che regala sorrisi sornioni come in questo caso: “Ma già sanno di noi […] E sanno i bicchieri perché sul fondo/ il tè avanzato si raffredda./ Swift ormai non può certo fare conto/ che questa notte qualcuno lo legga.”
Ci sono poi poesie in cui gli amanti si mischiano alla natura nel panteismo più romantico e fiabesco che ci dà la sensazione di trovarci di fronte ad un dipinto: “Si amarono tra i noccioli/ sotto soli di rugiada,/ raccolsero nei capelli/ foglie e terra bagnata.”
Nella poesia “Addio a una vista”, dedicata alla perdita dell’uomo amato, l’amore affonda nel dolore insopportabile dell’assenza che viene raccontato in maniera originale e profondissima al tempo stesso perché racconta di un’accettazione pacifica, di un dolore che non si tramuta in odio ma che, seppur presente, non diventa livore verso il mondo, ma nuova lente attraverso cui filtrare la realtà, arrivando a percepirla in modo ancora più sentito: “Prendo atto/ che la riva di un certo lago/ è rimasta – come se tu vivessi ancora –/ bella come era.

Ci sarebbe ancora tanto da dire su questa poetessa “figlia” del suo secolo, ma penso che siccome la poesia nasce dal silenzio, come lei stessa sostenne, affiderò al silenzio del foglio le parole che non so dire, ed alla sua poesia il “compito” di stupirvi, come ha fatto con me.

Un amore felice

Un amore felice. E’ normale?

è serio? è utile?

Che se ne fa il mondo di due esseri

che non vedono il mondo?

Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,

i primi qualunque tra un milione, ma convinti

che doveva andare così – in premio di che? Di nulla;

la luce giunge da nessun luogo

perché proprio su questi, e non su altri?

Ciò offende la giustizia? Si.

Ciò offende i principi accumulati con cura?

Butta giù la morale dal piedistallo? Si, infrange e butta giù.

Guardate i due felici:

se almeno dissimulassero un po’,

si fingessero depressi, confortando così gli amici!

Sentite come ridono – è un insulto.

In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.

E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,

quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano

sembra un complotto contro l’umanità!

E’ difficile immaginare dove si finirebbe

se il loro esempio fosse imitabile.

Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,

di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,

chi vorrebbe restare più nel cerchio?

Un amore felice. Ma è necessario?

Il tatto e la ragione impongono di tacerne

come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.

Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.

Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,

capita, in fondo, di rado.

Chi non conosce l’amore felice

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.

dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Carmen Yáñez: poesie “per sistemare i conti con l’orrore con tutta la tenerezza della quale sono capace” per Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Qualche giorno fa sono riuscita finalmente a fare una passeggiata al mare: nulla di che, un caffè alla salsedine e l’azzurro a riempirmi gli occhi ed il cuore ingrigiti dall’asfalto. Il mare, come sempre, riesce a suscitare in me sensazioni e pensieri profondi, lampi di chiarezza assoluta, scene che passano veloci nella mente e le onde a fare da colonna sonora ad un film che non rivedrò più. Certi pensieri che nascono di fronte al mare sono leggeri come granelli di sabbia, e come questi fuggono via, trasportati dal vento, impercettibili, mentre con le mani proviamo, illusi, a trattenerli. Sono piccole epifanie, piccole illuminazioni che riescono a levigarci col tempo, come scogliere irlandesi, ma ce ne rendiamo davvero conto solo col passare dei giorni, o degli anni se serve. Nel frattempo, tutti questi granelli, trovano casa nel mondo e sul fondo del mare che, paziente, ce li restituisce dopo averli accuditi con dolcezza. 

Il mio “pensiero-granello” si era perso fra le pieghe frenetiche della settimana, solo adesso lo vedo poggiarsi dolcemente sulla scrivania, vicino alla penna e al romanzo di Luis Sepúlveda. Lo sfioro appena con la punta dell’indice, per paura che spaventato possa scapparsene di nuovo: non oppone resistenza, si lascia carezzare e così, ormai sicura, lo avvicino al mio orecchio per decifrarne la lingua. Ma certo! Carmen Yáñez!

Un filo rosso d’amore infinito collega l’articolo precedente a quello di oggi, nel quale non posso non parlare della poetessa e attivista Carmen Yáñez (1952), moglie di Luis Sepúlveda. La giovane Carmen, figlia di operai, finisce nel 1975 nelle luride mani della polizia politica di Pinochet, ingrandendo le fila desaparecidos. Riuscita a sfuggire all’inferno di Villa Grimaldi, è costretta a vivere in clandestinità abbandonando l’amato Cile, proprio come Lucho il quale, già esule, si era sposato nuovamente in Germania.  La loro storia, come dice in un’intervista la stessa poetessa, è stata costellata da tanti re-incontri, fino ad arrivare a quello finale che sancirà la loro rinnovata unione con la decisione di risposarsi e di vivere insieme nella resistenza e nel rifiuto di qualsiasi forma di rabbia o di odio, veleni potenti i cui segni si sono impressi sulla loro pelle.

Le prime poesie della Yáñez vengono pubblicate in Svezia, dove vive grazie alla protezione dell’ONU negli anni ’80, prima di trasferirsi nelle Asturie. Come afferma lei stessa “Niente di ciò che scrivo è senza il motore dei miei sentimenti” e dunque nei suoi versi troviamo la sua vita e tutto ciò che la riguarda: i paesaggi, le malinconie, i dolori, la condizione di migrante, la memoria, le battaglie civili, l’urgenza del verso e dell’essere ma anche quella fonte vivifica che è l’amore.

Il suo poetare crea atmosfere fiabesche imbevute di quotidiano, le immagini sono profonde e leggere al tempo stesso come leggiamo in questi potenti versi: “Ciascuno/ porta il proprio tempo/ tra le ciglia,/ un dolore accumulato/ tra le cornici dell’esistenza.”

I versi della poetessa cilena sono “impegnati” politicamente e umanamente, due parole che ai giorni nostri sembrano farsi la guerra ma che dovremmo, invece, cominciare ad usare insieme, armoniosamente, senza escludersi a vicenda. Tra i suoi versi, quelli d’amore si nutrono di immagini semplici, vere, di “silenzi” e di “parole che riempiono”, “del mondo” perché è in esso che dimora l’altro. Nella poesia “Amare”, leggiamo: “Amare la sera condivisa/ la pioggia sul tetto/ quando il cielo cade a pezzi/ di tristezza.”

Le parole sono scelte con cura e pesate con precisione, con esattezza, non cadono mai a caso sul foglio ma trovano il loro posto in una trama fitta di metafore e immagini che alludono contemporaneamente ad una dimensione più profonda, non sempre deducibile, ma che sono ostentatamente attaccate alla vita di tutti i giorni ed è per questo che possiamo riconoscerci in ogni verso, perché i temi, comunque, restano sempre universali anche se calati in contesti o riferimenti specifici.

Tra le tematiche che per forza di cose tornano più spesso nelle raccolte della Yáñez c’è quella del dramma della migrazione, dell’essere migrante con la speranza sempiterna di poter un giorno tornare a casa, di riconoscersi ancora, di ritrovare le strade note di un tempo, come nella poesia “Civico”: Cerco quella stessa strada/ quel civico. /L’insegna spenta, /la porta chiusa e dentro/ la polvere copre la mia perplessità. /Le ragnatele ordiscono il nostro sogno infranto/su un piano disprezzato.” La poetessa sente fin dentro alle ossa il dolore delle donne, degli uomini e dei bambini che ogni giorno rischiano la propria vita in barca o su strade tormentate per trovare un angolo di pace, per rivendicare il proprio diritto di esistere e realizzarsi, ed è con la scrittura che riesce a dargli voce, ma anche ad opporsi in modo sano alla violenza insensata dei nostri tempi.

L’ultimissima raccolta della poetessa cilena, “Senza ritorno”, riprende i temi di sempre, come la “cocciuta nostalgia” ma ad essi si aggiunge dolorosa e meravigliosa al tempo stesso, l’ultima poesia scritta per Lucho mentre era in vita. La voce della Yáñez è una voce universale, che sa raccontare e raccontarsi con una forza tale che quasi ferisce il lettore che alla fine, però, non può non sentirsi trasformato dopo un viaggio così profondo che lo porta, in definitiva, a coltivare la certezza luminosa che l’estate arriva sempre e che un mondo migliore è possibile.

Vi lascio con una sua poesia tratta dalla raccolta “La latitudine dei sogni”:

Ci sei;

i gerani, le azalee,

la raccolta dei frutti

dell’estate del tuo amore

mi dicono dolcemente il tuo nome.

Ci sei;

i tuoi passi,

la scala che scricchiola deliziosa,

il tuo silenzio rumoroso

lassù in soffitta.

I fantasmi che ti spiano

le parole che incontrano le tue parole,

il tuo desiderio,

storie che entrano nella tua luce.

La tua rabbia,

una tempesta che scema con la sera calma.

Così scrivi per i giusti, degli stolti;

così la tua voce corre sui cornicioni.

mi sei, mi esisti

ed è ora che devo

proteggerti lo sguardo.

È il tempo plurale

nostro,

il pretesto per parlare ancora d’amore.

È la sera sulla pelle

dorata di sole e anni.

È dolcezza che scorre ancora e non so

fino a quando nelle vene

di questo nostro piccolo mondo.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Fiumi di Trasformazioni nel mare di Essere – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Il nuovo anno ha un profumo noto e sconosciuto, denso e pungente, mischiato a quello di caffè: si è fatto spazio nella stanza, cavalcando il soffio d’aria gelida che è entrato dalla finestra aperta per “far cambiare aria.”
Cambiare. Che parola incredibile. Il dizionario mi suggerisce provenire da una parola di origine gallica, a sua volta derivata dal greco “Kambein” che significava “curvare”, “girare intorno”. Il cambiamento, infatti, penso che coinvolga proprio il saper “curvare”, nel senso di essere elastici, di fare curve laddove necessario: disegnarle, percorrerle, essere noi stessi sinuose curve pronte a ridisegnare strade un tempo irte di rigidi rettilinei. Senza volerlo, forse guidata dalla mano del vento invernale, apro uno dei miei taccuini e dalle pagine del 2017 escono queste parole:


“Vorrei incontrarmi tra qualche tempo per vedere se mi riconosco. Quanto bisogna cambiare per non riuscirci più? Forse, invece, è proprio nel cambiamento, nella trasformazione che ci si conosce e riconosce, che ci si ritrova…”

Nel 2021 posso dire di rivedermi in queste righe, di riconoscermi, sebbene molto cambiata. Qualcuno, tempo fa, mi disse che tra ieri, oggi e domani scorrono anni, e che la me di adesso è già diversa da quella di un’ora fa. Non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma siamo fatti di cambiamento più di quanto siamo fatti d’acqua, siamo fatti di piccoli, impercettibili, enormi, trasformazioni che una dopo l’altra fluiscono nel mare del nostro Essere.

Ancora una volta, decido di rivolgermi ai poeti per cercare delle risposte, ma, come al solito, finisco sempre per ritrovarmi con nuove, bellissime domande. Al mio interrogarmi, oggi, risponde Pedro Salinas (1891-1951) con la poesia “Paura. Di te. Amarti.”, tratta dalla raccolta-poema d’amore “La voce a te dovuta” (1933), di cui vi riporto i versi incisi nel mio cuore, così come li ho sottolineati nel libro, sperando di farvi venire voglia di Cambiamento e di Poesia: 

“Paura. Di te. Amarti
è il rischio più alto.
Molteplici, la tua vita e tu.
Ti ho, quella di oggi;
ormai ti conosco, penetro
in labirinti, facili
grazie a te, alla tua mano.
E i miei ora, sì.
Però tu sei
il tuo stesso più oltre,
come la luce e il mondo:
giorni, notti, estati,
inverni che si succedono.
Fatalmente, ti trasformi,
e sei sempre tu,
nel tuo stesso mutamento,
con la fedeltà
costante del mutare.”

di Martina Benigni