
Correva l’anno…
Non lo so, correva troppo veloce per prendergli la targa.
Comunque, era una notte buia e tempestosa…
Ad essere sincero, non sono troppo sicuro neanche di questo, già allora il meteo era più variabile dell’umore di una donna in certi giorni particolari.
Per farla breve, due immigrati clandestini avanzavano nell’oscurità.
– Giuse’, io non ce la faccio più. Perché non ci siamo fermati in quella stalla?
– Mari’, venti denari per quella catapecchia erano veramente troppi, non c’era neanche il wi-fi.
– Magari se non ti trastullassi tutto il giorno con le seghe…
– Mari’, sono un falegname, ci lavoro con le seghe, Cristo! E poi parla quella che si è fatta ingravidare dallo Spirito Santo. Pffh, vergine ‘sto prepuzio circonciso.
– Eri ubriaco, cretino. E continua pure a fare lo stronzo, così non la rivedi neanche in cartolina.
– Cos’è una cartolina?
– Non lo so, ma suonava bene. Comunque, non mi dispiace Cristo, come nome per il piccolo, intendo.
Giuseppe non lo tollerava quel nome, suonava antico, polveroso, faceva pensare ad un mignolo contro lo spigolo. Lui preferiva qualcosa di più moderno, all’avanguardia, tipo Goffredo o Arcimboldo o Kevin.
Ne avrebbero discusso in seguito, ora era troppo stremato dal viaggio.
Viaggio iniziato parecchie lune prima, qualche giorno dopo la fatidica notte in cui Maria, stringendo la mano dell’amica Gabrielle, aveva confessato di essere incinta.
Di cinque mesi. Di. Cinque. Mesi.
Poco importa se erano sposati da appena una settimana e che il povero Giuseppe, tra un mal di testa e una nausea e un’infernale sbornia post nozze, fosse certo d’essere l’unico a doversi accontentare del vecchio, sano, lavoro manuale. E lì ce ne te metteva di spirito, più o meno santo.
Era stato un miracolo, la gravidanza, cos’altro? E loro erano fritti, ormai. Giuseppe, mani callose per il quotidiano impegno con le seghe, cosa poteva fare? Privo di qualsiasi istinto paterno, era pur sempre innamorato di Maria: una gnocca stellare, tanto che quando passava la gente si voltava ad esclamare: – E la madonna!
Optò per il buon viso a cattiva sorte, o come si diceva a quei tempi, porse l’altra guancia. Guancia centrata all’istante da vari ceffoni. La gravidanza della vergine aveva già aizzato malelingue e dicerie. I più imputavano il concepimento ad un’intercessione della sua amica, l’arcangelo Gabrielle: nordafricano d’origine, francese d’adozione, brasiliana d’operazione. Per inciso, nessuno è a conoscenza dell’origine dell’appellativo “arcangelo”. Alcuni studiosi lo imputano alla “spada infuocata” celata sotto l’ampia tunica, ma non ci sono testimonianze di nessuno che abbia avuto il coraggio di toccare con mano, tranne un certo Tommaso, detto Lapo, che nonostante scottatosi le dita più e più volte non è mai riuscito a togliersi il vizietto.
Giuseppe mandò giù le insinuazioni d’adulterio e porse ancora l’altra guancia. Guancia bersaglio ideale per un altro ceffone, e al pover uomo iniziarono a finire le guance e girare le palle. La fecondazione di una giovane pura si era estesa a macchia d’acqua benedetta per tutto l’Impero, giungendo all’orecchio di Erode, noto produttore di format con una forte inclinazione alla pedofilia. Il buon Erode li cercò per ogni pertugio dell’impero, era stato infatti abbagliato da un’illuminazione sulla via di Damasco, poi rivelatosi un tir in contromano, ma la decisione era ormai stata presa: madre e nascituro andavano scritturati per il suo nuovo reality “Non sapevo di essere incinta”. E magari solo la madre per un talk incentrato su di lei, qualcosa del tipo “Amici di Maria”, che tanto a Giuseppe non se l’era mai cagato nessuno, neanche per il concepimento la prima notte di nozze, figuriamoci per un cameo in fascia protetta. E non c’era da sottovalutare la fine filosofia esistenziale del buon Erode: scoparsi un bambino is for boys, il figlio di una vergine is for Erode.
Fatto sta, che tra le malelingue dei vicini, la presenza ingombrante, ingombrante ed infuocata, di Gabrielle e la caccia di Erode intenzionato ad abusare a piacimento della sua famiglia, Giuseppe raccolse le loro poche cose ed emigrò con Maria. Purtroppo non c’erano ancora gli scafisti, o perlomeno non erano così organizzati. Fu una fuga massacrante attraverso il deserto, senza l’ombra di un autogrill. Senza un’ombra e basta.
Patirono la fame, la sete, la stanchezza, le incessanti chiamate di diversi call center che promuovevano la Terra Promessa a prezzi stracciati; tutto per arrivare in quel buco di culo alla periferia dell’impero: Nazonaccia, dove non fecero in tempo a trovarsi una sistemazione che eccoli vittime del razzismo dei locali, terrorizzati dall’idea che quegli immigrati potessero rubargli il lavoro che non avevano. Alla fine riuscirono a strappare un prezzo scontatissimo per una baracca in lamiera all’idroscalo, concedendosi finalmente cinque minuti di relax.
– Giuse’.
-…..
– Giuseppe!
– Mari’, lasciami in pace che sto leggendo una mail di Ammazzaoh. Dice che è partito un certo corriere Magi Exp. con i doni per tuo…ehm, nostro figlio. Ma se neanche è nato, e poi
– E certo, lui ha sempre da fare.- Sbuffò Maria guardandosi l’enorme pancia.- E a me chi ci pensa? E al piccolo? E
– E mi si sono hai rotto le palle!- Sbottò Giuseppe.
Maria strabuzzò gli occhi: – A me le acque.
– Cosa?
– Mi si sono rotte le acque.
– Che Natale di merda.- Chiosò Giuseppe.
– Cos’è il Natale?
– Non lo so, ma suonava bene.
E così venne alla luce il piccolo, che dopo una diatriba infernale tra i genitori, tra chi lo voleva chiamare Cristo e chi con un più attuale Manuel, chi rivendicava un tradizionale David e chi un innovativo Natan Falco, prese il nome di Cristophere, una sorta di compromesso tra antico e nuovo, in perfetta sintonia con l’aristocratica atmosfera di Nazonaccia.
La prima decina di mesi passarono in fretta, il bambino era in buona salute, a parte un perenne cerchio alla testa, per di più dorato, ma quello lo vedevano tutti e invece di crucciarsene divenne fonte d’interesse, se non di superstizione.
– E’ il figlio di Dio.- Urlava il pastore.
E ti pareva, bofonchiava Giuseppe sempre più convinto che la creatura non gli somigliasse per niente.
– E’ il re dei re.- Urlava il fabbro.
– Ha il fattore x, sì, è lui il prescelto.- Urlavano gli ubriaconi della locanda.
– Prescelto per cosa?- Chiedeva il padre putativo sperando di sbolognare il piccolo.
– E che ne sappiamo noi, siamo solo ubriaconi.
Insomma, filava tutto liscio e in un attimo giunse il primo anniversario del miracolo, proprio la sera in cui tre ombre misteriose incombevano sull’uscio della dimora in lamiera.
– Oh, mio dio!- Esclamò Giuseppe spaventato da quei tre sconosciuti.
– Sì, dimmi.- Rispose Cristophere che già camminava, parlava e whatsuppava come un adulto.
– No tu, pezzo di scemo. Invocavo Dio.
– Sì, sono io.
Giuseppe ormai fuori dalla grazia di Dio, o del suo presunto figlio, provò a battere il piccolo come vuole la Legge, senza riuscirci. Una delle tre ombre aveva interceduto placando la sua ira.
– Non picchiarlo, lui è il figlio di Dio.
– Mari’, te lo dicevo che non era figlio mio.
– Non dire stronzate.- Rispose lei, emergendo dal salotto-angolo-cottura-spigolo- da letto- vista-cloaca bella come non mai, candidandosi di prepotenza a prima milf della storia e della religione. E di educazione fisica, ma ad honorem.
– E voi chi sareste? Se vi manda EquiIsraele abbiamo già pagato le cartelle in sospeso.
– No, Santa Vergine, siamo i re magi, del Magi Exp.- Fece l’uomo indicando gli altri due che non erano più ombre ma gioielli e turbanti e sneaker in diamanti.
– Melchiorre, Gasparre e Zuzzurro.
– Siamo venuti ad omaggiare la nascita del figlio di Dio.
– Allora siete in ritardo di un anno.- Replicò Giuseppe.
I tre magi si fissarono le punte delle scarpe, tossicchiando come smarriti.
Poi spiegarono di essere addirittura partiti in anticipo, per non trovare ingorghi al casello di Betlemme, ma solo una volta giunti a Biella, già in ampio ritardo, si erano resi conto che quella che avevano seguito non era la scia della stella cometa, bensì una scia chimica.
– Basta con le scusa da profeta.- Fece Giuseppe sfregandosi le mani.- Fuori i doni.
Il primo magio offrì oro, riscuotendo urla di giubilo da parte di Giuseppe; il secondo incenso, riuscendo a strappare appena uno smorfia a Maria.
Il terzo offrì mirra.
– Birra?- Squillarono all’unisono Giuseppe e Cristophere.
– No, no: mirra!
– E che è?
Il terzo magio arrossì in volto e bofonchiò qualcosa a bassa voce.
Sonanti, invece, furono le pedate, lì dove non batte la luce della cometa, con cui il falegname lo buttò fuori. In breve arrivò un nuovo magio interinale con contratto a progetto, ma almeno portò un paio di casse di birra e tutti poterono sbronzarsi felici e contenti.
Nazonaccia, scolo nevralgico del pattume imperiale, non era certo il Paradiso Terrestre dove far crescere un pargolo, tra tossici, puttane, ladri e i cani dell’Impero sempre più corrotti. Eppure Cristophere veniva su sano e forte.
Nonostante fosse figlio di immigrati s’integrò benissimo con gli altri bambini, drogandosi, rubando e molestando le maddalene con i suoi nuovi amichetti.
Una dozzina che lo seguiva dappertutto, un po’ scalmanati ma tutti bravi ragazzi. Solo Giuda, con i suoi lineamenti delicati e quell’ambigua passione per i trucchi della mamma, metteva un po’ in difficoltà Cristophere, specialmente quando lo carezzava sussurrandogli: – Guarda che pettorali e che addome, hai proprio un corpo di cristo. Dammi un bacino, su, un bacino solo.
I problemi iniziarono con la scuola, specialmente quando Cristophere prese a rispondere ai maestri, consapevole che non avrebbero potuto insegnare nulla al figlio di Dio.
– Qui le raccomandazioni non contano.- Era solito ripetere il maestro, scordandosi di un certo zio Tonino, col posto fisso al ministero.
Il concetto stesso di istruzione obbligatoria lo soffocava, con l’intrinseca assenza di qualsiasi libero arbitrio. La scuola iniziò ad andargli sempre più stretta, anche perché nonostante le rassicurazioni della Protezione Civile, l’edificio crollava ogni morta di papa, ma essendo l’aspettativa di vita molto breve, era un bel casino ritrovarsi sempre in mezzo alle macerie.
Così, nonostante le proteste dei suoi, decise di mollare gli studi.
– Allora te ne vieni in bottega con me.- Gli ordinò il padre.
Sfortunatamente, al perdere tempo con seghe e affini, Cristophere preferiva correre dietro alle maddalene, e anche come pescatore non ebbe grande successo. Tirava su e riportava a riva solo uomini, fregandosene delle acque territoriali e di qualsiasi confine deciso dall’uomo, e vedendo che era cosa buona e giusta creò le ong. Inutile dire che la sua attività non era ben vista né dagli abitanti di Nazonaccia, istruiti a dovere dalla propaganda di Erode su cosa pensare di tutti quegli sbarchi, né dai cani dell’Impero che un bel giorno silurarono la sua nave. Per fortuna schizzò sulle acque riuscendo a raggiungere la riva e quindi a salvarsi. Gli altri poveretti imbarcati con lui affogarono tutti, guadagnandosi dieci minuti d’indignazione e post solidali e gessetti colorati e poi il dimenticatoio.
Il tempo passava irrigidendo il clima intorno a lui. Essendo Nazonaccia un territorio che professava l’omertà come credo, in cui ognuno volgeva la testa dall’altra parte pur di non vedere certi intrallazzi, un giovane come Cristophere era indigesto ai più. Nessuno volevo ascoltare le sue invettive contro le piaghe da decubito sui culoni flaccidi degli spettatori di Erode, né farsi assillare con i vari “non desiderare la donna altrui” o “raccogli la cacca del cane”, tantomeno farsi convincere ad andare fuori a vivere la vita piuttosto che rintanarsi nel Tempio, il nuovo centro commerciale che andava per la maggiore. Anche i cani dell’Impero iniziarono ad essere stanchi, ogni volta che c’era una lapidazione arrivava quel giovanotto strambo urlando: – Scagli la prima pietra chi è senza peccato.
E figuriamoci, quello era onnisciente, e in una periferia piccola come Nazonaccia i segreti avevano vita breve, così ognuno preferiva filarsela piuttosto che essere sputtanato in piazza, rovinando la festa a tutti.
La rottura vera e propria con la sua gente fu sancita dall’incidente alla discoteca Heaven. Pietro, il buttafuori alla porta, ritrovandosi davanti quella marmaglia mal vestita sbarrò l’ingresso del locale. Cristophere, che era già su di giri per via di certi funghetti rimediati dai suoi amici Esseni, sbottò afferrandogli la testa:
– Tu sei Pietro, e prima che il vocalist canti perla terza volta, con questa pietra spaccherò la console del dj.
L’energica comitiva forzò allora l’entrata riversandosi nel locale, scatenando l’effetto domino dei problemi a seguire.
Erano tutti ragazzi di periferia, con le mani bucate e quindi senza un soldo, non potevano di certo permettersi drink a prezzi iperbolici.
Come al solito, ci pensò Cristophere a risolvere il problema.
– Ecco la consumazione di Dio, che toglie la sete del mondo.- Urlò al bancone trasformando l’acqua in vino, la coca cola in cuba libre, i quattro bianchi annacquati in tre negroni belli carichi, per la gioia di Giuda e la disperazione di Ponzio Pelato, il manager della discoteca. E dei vari spacciatori di incenso e polvere d’angelo. Ne uscì fuori una festa come dio comanda, e a Cristophere gli ci vollero tre giorni e tre notti per risorgere dalla sbronza. Non fu un bel risveglio: gran parte dei pusher del quartiere ce l’aveva su con lui per avergli rovinato il mercato, i cani dell’Impero lo cercavano per non aver emesso fattura e Maria preoccupata lo mise sulla prima lowcost che lo portasse via da Nazonaccia. Gli anni passati a vagabondare si confondono con il mito.
Alcuni studiosi assicurano abbia aperto un chiringuito sulle spiagge spagnole, altri che fosse il lavapiatti di un ristorante londinese, ma essendo già allora un peccato capitale preparare una carbonara con panna e bacon, l’alternativa più credibile sembra essere un viaggio in India per ritrovare se stesso. Il problema, per il figlio di Dio, fu che in quel paese ce n’erano un fottio, di divinità. E di rincarnazioni di Dio. E di concubine di Dio, e ne erano tutti felici. Un po’ meno i concubini, di Dio. Fu così che venne investito in pieno, prima da un tuctuc, poi dall’illuminazione.
– Siamo tutti figlio di Dio. Ognuno di noi è Dio, e può crearsi tutti i paradisi e gli inferni che vuole.
Il suo misticismo di amore, libertà, rispetto, musica, poesia, dipingere corpi nudi in spiaggia all’alba, sorrisi a sconosciuti incrociati per caso, lo convinse a tornare a casa. Non per mandare avanti gli affari di famiglia, come sperava Giuseppe, né per tirarsene su una propria, di famiglia, sogno di Maria.
La sua missione sarebbe stata il risveglio di tutti i suoi fratelli e sorelle. Avrebbe predicato l’amore e la consapevolezza, per risvegliare gli animi corrotti dalle leggi e dalle convenzioni degli uomini.
Prese a girovagare insieme ai soliti amici arringando le folle con il suo credo.
– Beati i poveri, perché loro è il regno dei cieli.- Urlava, ma i più sognavano una multiproprietà ai Caribi e non molti gli diedero spago. Primo fra tutti Giuda, imprenditore in rampa di lancio che non gradiva le malsane idee del suo amico, nonostante continuasse ad ammirare quel corpo di cristo patendo le pene dell’inferno. Quindi il buon Giuda decise di non perderlo di vista, sabotando la sua campagna d’illuminazione.
– E’ più facile che un cammello passi per la cruna di una ago, che un ricco entri nel regno di Dio.- Proclamava Cristophere, e Giuda con un rapido giro di chiamate ai suoi amici palazzinari fece costruire aghi di cinquanta metri, ecomostri di ferro e cemento per la cui cruna sfilavano lisci lisci non solo i cammelli, ma anche il suo mega yacht e quelli dei suoi compari.
– Se ci amiamo gli uni con gli altri,- esortava il messia – Dio rimane in noi.
Giuda, passando tra le file più lontane dal maestro, ripeteva: – Sbattitene degli altri e fatti i cazzi tuoi.
Così l’ampio messaggio di Cristophere prese ad essere travisato.
Diceva: – Ama il tuo prossimo come te stesso.
– Gli immigrati nel cesso.- Correggeva Giuda mischiato tra la folla.
– Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
– Beati programmi di Erode che cancellano la noia.
– Sfamate gli affamati e dissetate gli assetati.
– Con le offerte di McDonald è anche più facile.
– Non giudicate e non sarete giudicati.
Beh, questo fu il messaggio che arrivò più chiaro, viste tutte le grane giuridiche che avevano Giuda e i suoi amici.
I follower di Cristophere aumentavano sempre più, pari passo al malumore delle istituzioni e delle grandi aziende, che registravano dissensi in ascesa e profitti in picchiata. Eppure questo non bastava al rivoluzionario di Nazonaccia, che decise di abbinare le sue prediche a esibizioni da like and share, rispolverando quei miracoli che tanto gli erano costati in gioventù.
Si recò allora fuori l’ospedale più vicino e guarì tutti i lebbrosi, ma Giuda, sempre sulle sue tracce, insinuò l’utilizzo di metalli pesanti aizzando il malumore perfino nei miracolati. Fu così che la folla si ribellò contro Cristophere, compresi gli stessi ex-lebbrosi, e al grido di “ No vax!” lo riempirono di mazzate. Il messia non era tipo da abbattersi, così continuò il suo peregrinare, e trovandosi dinanzi al funerale di un ricco mercante, urlò alla sua tomba: – Lazzaro, alzati e cammina.
La tomba si spalancò, e ne saltò fuori un vecchietto arzillo e raggiante.
– Sono tornato, merde!
E le merde, i vari parenti non più eredi della sua fortuna multimiliardaria, non la presero bene, e riempirono Cristophere di mazzate, a cui si aggiunsero quelle dei finanzieri indispettiti dal suo favoreggiamento al falso invalido.
Le cose non andavano per il meglio, per il messia era l’ora di giocarsi l’asso nella manica, e decise di giocarselo in casa. Organizzò una mega festa per promuovere la sua predicazione, con tanto di musica, balli, sballo e buffet.
Per sua sfortuna, ad occuparsi del catering fu Giuda e va bene estasi e trance mistica, ecstacy e trans masochisti, ma ritrovarsi al buffet con due tramezzini al tonno e distillato di marana è una bestemmia.
La gente era ubriaca, affamata e iniziava ad innervosirsi. Senza perdersi di spirito il maestro guardò la folla, impose le mani e moltiplicò i pani e i pesci.
Neanche Giuda era un tizio arrendevole, e sempre mimetizzato nella folla, prese a baccagliare: – Non è giusto, io non mangio pesce, sono vegano.
E un mormorio contrariato si levò dalla folla.
– Io sono celiaco, non mangio pane.
Il mormorio divenne protesta e poi baccano indemoniato.
– Io sono respiriano, tutta questa gente mi leva il cibo di bocca.
Cristophere rimpianse il posto come lavapiatti.
– E la tracciabilità degli ingredienti?
– Io mangio solo bio a chilometri zero!
– E che vuol dire?
– Non lo so, ma suonava bene.
– E’ vero, suoniamogliele per bene.
E niente, in un attimo centinaia e centinaia di persone, innervosite dalla fame e sballate dall’ecstacy e sobillate da Giuda caricarono il maestro e lo riempirono di mazzate. Sembrava la parabola della sua vita.
La degenza per riprendersi dalle varie fratture fu lunga e dolorosa. Cristophere era stanco e sconsolato, ignorava perché il suo messaggio venisse costantemente travisato. I suoi amici più stretti vedendolo ridotto come un povero diavolo, decisero di organizzare una cena in suo onore.
– Per quanti prenoto?- Chiese Matteo.
– Per dodici, Giuda non ce lo voglio.- Intervenne Luca.- Ogni volta che c’è lui in giro succede qualche casino.
– Già, sta sulle palle anche a me.- S’accodò Giovanni.- Niente Giuda, fosse l’ultima cena che organizziamo.
E così si ritrovarono intorno ad una lunga tavolata, a bere e mangiare e ridere e scherzare. Tutti tranne Giuda, di cui nessuno aveva messo in conto una passeggiatina serale che lo conducesse lì per caso, ad imbattersi in loro rimanendoci di sale. Giudo vacillò, si resse alle mura in fango e guano della locanda. Tutti i suoi presunti amici intorno a quel bonazzo di Cristophere, che, già brillo a metà cena, sollevando una bruschetta al lardo di colonnata e un quartino di rosso si lanciò in uno dei suoi soliti sketch.
– Questa è la mia carne e questo è il mio sangue, prendete e mangiatene tutti, e fanculo i vegani.
La locanda venne scossa dalle risa degli avventori, tutti abbastanza ubriachi da trovare esilarante quella misera gag. Unanimità che escludeva Giuda, lesto a riprendere la scena con lo smartphone e correre a tradire il suo vecchio amore.
I Nas fecero irruzione nella locanda e fermarono Cristophere con l’accusa di cannibalismo. Lo misero in croce tre giorni per farlo confessare, ma lui non spiccicò parola, certo che il continuo predicare amore e perdono avrebbe spinto i suoi seguaci a ribellarsi contro quella ennesima, assurda, ingiustizia.
Invece niente.
Nessuno protestò. Nessuno alzò la voce.
Nell’indifferenza più totale, i suoi amici e tutti i suoi seguaci ne approfittarono.
Chi concesse diverse interviste urlando alla telecamera che era sempre sembrato una brava persona.
Chi confessò di aver nutrito dubbi su di lui sin dall’alba dei tempi, come fece Giuseppe.
Chi denunciò tocchi in fuorigioco sotto la doccia dopo il calcetto.
Chi addirittura raccontò di festini privati a base di carne umana e sangue di vergine.
Giuda intraprese perfino un commercio di souvenir dal dubbio gusto: corone di spine in plastica con led a 200w, statuette di Maria che piangeva sangue con un Cristophere neonato che le leccava via, medagliette con su inciso “sono sopravvissuto al cannibale di Nazonaccia”.
Un minimo di sollievo lo provò il terzo giorno, vedendo fiumi di persone in processione verso di lui, magari per confortarlo, per gridare all’ingiustizia. Quando si rese conto che si trattava dei soliti turisti della tragedia, accorsi a flagellarlo con i flash dei loro selfie, a pagare per strizzargli l’aceto in gola, alzò gli occhi al cielo e sospirò la celebre frase: – Perdonami padre, era meglio se mi facevo i cazzi miei.
Il cielo lampeggiò d’elettricità condensata, le nuvole si diradarono e una voce tuonò: – E che vuol dire?
– Non lo so, ma ci stava bene.
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