365 giorni, Libroarbitrio, UN RACCONTO A SETTIMANA

– APERTA LETTERA – per #unraccontoasettimana – Rubrica letteraria di 2dR

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Caro amico scrive te, così distrae po’ me.
Conosce io anche canzone, famosa molto e bella.
Tu chiama può me Z, e scrive te perché te e gente tua paura me, e gente mia.
Dice che viene lontano, noi, mondo altro. Neanche lontano troppo, dice me, angolo dietro!
Dice che puzza noi, ma vede vuole te situazione uguale.
Dice ruba noi lavoro, e parla no bene lingua. Scappa terra nostra, e noi terra nostra ama casa come, solo fame per, e fame cosa brutta. Ha mai fame da muore sembra? No, sa no tu fame vera cosa è. E morte anche no. Confusi noi anche su questo, tu sa. E sì, parla bene no, noi, malattia nostra colpa è, fare finta sa no tu.
No, ebola no, scabbia no anche. Malattia nuova, strana, e paura noi voi come. Diversi tanto fine alla no, dice me.
Voi rinchiude gente mia, studia, problema noi chiama. Aiuto chiede: Europa, Uniti Stati, ma sa nessuno aiuta come, e guerra fa. Spara noi, mostro noi chiama, dio senza chiama. Dio, forse, noi mette in situazione questa, me sa no. Soluzione no sa, ma, dice noi, vive può insieme. Noi cibo vuole solo, e pace. Pace per riposa noi tanto vuole. Te non sa vuole quanto riposo fine senza. Possibile no, così cerca noi cibo, notte di, strade buie per, solo vive per. E tu disgusta se mangia noi cervello di topo, o cane, o miao. Ripugna te, igiene no dice te. Prelibatezza dice noi, e te ringrazia anche no mangia noi cervello voi. Gente brava noi, onesta, se anche a pezzi cade. Malattia colpa è, e tu aiuta no studia malattia, aiuto da dice, ma parla solo e agisce mai. Prima avvocati, dottori, casalinghe noi voi come, adesso scappa solo, nasconde, paura. E fame, fame da muore, o quasi.
Noi molesta no figlio te, ruba no lavoro, casa, donna. Piace a noi donna nostra, vostra no: tanto parla, e cose fa, viva troppo è.
Diritti chiede solo noi, rispetta differenza noi, riconosce altro vivente essere come, o quasi.
Noi vuole sposa, figli, dignità. Tanto, troppo è? Cammina alta testa, vuole, insulti senza, paura fa senza.
Avere te no paura, noi uomo nero no è, vampiro no è, mannaro lupo no è. Altro sì, ma paura diverso solo te ha.
Pensa te, forse domani me come è, può sa no. Domani forse fame te ha, aiuta bisogno te ha, orgoglio te ha più no, me come.
Aiuto vuole dà noi, fa può tante cose: pompiere, fuoco male fa no, noi, o poliziotto, rischio corre no noi. O cavia anche animale invece. Buoni animali, carini, no male fa, usa può noi, tutto disposti noi. Dice me, noi uguale è: carne stessa, ama uguale, ride, piange uguale, muore uguale. Forse no questo, ma resto uguale. Allora perché vive no in pace?
A vive diritto no uguale?
Perché differenze mette via no, e vive cerca insieme, problemi senza, paura senza, violenza senza, carne per vermi chiama noi senza? Cosa brutta questa, male fa noi. Cose queste chiede me e gente mia. Pensa, chiede te, su cose queste, e sapere fa noi se ok è. Trova noi dove sa, aspetta noi e saluti porge te, ma mano stringe no, paura stacca noi. Spiritosi noi anche, vede te?
Aspetta risposta me, e giornata buona augura te. Saluti cordiali, Z, presidente movimento diritti morti viventi.

P.S., zombie chiama piace no noi, politico corretto no. Diversamente vivo, meglio è.

 

Estratto dal libro Poker d’incubi,
scritto da Gianluca Pavia & Lié Larousse,
firmato DuediRipicca.
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365 giorni, Libroarbitrio

SAN VOLANTINO – GIANLUCA PAVIA

san-volantino-2dr - Poker d'incubi

“La sera iniziava a divorare i resti di un pomeriggio invernale fin troppo piatto. I tre erano incrostati ai tavolini esterni del bar da ormai un paio d’ore e parecchi Negroni. Alle loro spalle la vetrina intasata da decorazioni d’ogni genere: cupidi deformi armati di archi e frecce, cuori stilizzati e patetiche frasi d’amore rubate a qualche sfigato. Difronte scorreva lento il traffico di macchine scarburate e passanti frettolosi di tornare a casa, e magari passare quella fredda serata in dolce compagnia.
«Guarda tutti ’sti coglioni» sbottò Bestia poggiando il bicchiere ormai vuoto sul tavolino «Ancora che spendono soldi per ’sta festa del cazzo».
«Già, ma almeno loro hanno soldi da spendere, e qualcuno da sbattersi» replicò Duscudi, che doveva quel soprannome a un’innata propensione a fare qualsiasi cosa, anche per pochi spicci.
Lello se ne restava in silenzio. Non guardava niente e nessuno, se non il proprio cellulare, ma non c’era niente da vedere: nessuna chiamata persa, nessun messaggio ricevuto.”

di Gianluca Pavia
Il racconto SAN VOLANTINO è estratto dal libro – Poker d’incubi – edito da Alter Ego Edizioni

***Tutti i libri dell’autore, info e contact www.libroarbitrio.com

DuediRipicca – Lié Larousse
Foto #NATURALBORNKILLERS

 

Se ancora non hai letto POKER D’INCUBI scrivici a duediripicca@yahoo.com e ti invieremo la tua copia a casa con dedica dell’autore

365 giorni, Libroarbitrio

Una diabolica mano – di DuediRipicca da POKER D’INCUBI

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Il bar, angusto e soffocante, saturato dal vociare febbrile del sabato sera, celava un segreto.
No, no era la salmonellosi aleggiante nella vetrina frigo tra tramezzi stantii e paste mesozoiche. E no, non erano neanche i topi grassi e ben in tiro tipo agenti immobiliari. Quelli li conoscevamo bene tutti e li chiamavamo per nome oramai.
No, quel covo di relitti umani nascondeva, alle spalle del bancone, appena dopo il cesso con un rischio igienico pari al Gange nei giorni di piena, uno stretto corridoio riverniciato dalla muffa che si snodava sino ad una piccola porta cigolante affacciata su di una claustrofobica scala a pioli che s’avvitava su se stessa nell’oscurità sino ad una sordida cantina. L’aria ristagnava, mal illuminata dall’unica lampadina ed intrisa di fumo e disperazione, in linea con il resto del quartiere. La sedia, di quelle in legno e paglia, era spigolosa e pizzicava qua e là, la mano in bilico e la posta, beh, la posta era alta, molto alta. Aprì le mie carte, donna di cuori e donna di quadri. Non male.            Fissai il tizio in completo nero seduto accanto a me passarsi una mano sulla tesa del cappello ben calato sul volto. Con l’altra adagiò un lungo bocchino nel posacenere. La sigaretta all’estremità sfrigolava lieve senza consumarsi.
– Diecimila.- Annunciò sorridendo una sorta di Big Jim alla sinistra del tizio. Aveva i capelli color grano e la pelle di quel marroncino bruciato tipo polpettone di steroidi dimenticato in forno.
– Call.- Replicò il nanetto occhialuto, grassottello e stempiato alla sua sinistra, gli occhi fissi sulla scollatura del dealer, una rossa mozzafiato che avrebbe irrigidito persino Signorini.
Il tizio alla mia destra sfoggiava l’imperscrutabile espressione del grande pokerista, di chi si sta giocando i risparmi della moglie, una moglie in apprensiva attesa sull’uscio di casa, con una mazza chiodata che neanche Conan il barbaro.
Bofonchiò qualche imprecazione, e infine si decise: – Call, anch’io.
Guardai ancora le mie carte. Due donne, non male. Spostai i miei dieci mila al centro del panno verde. Gli occhi del tizio in nero erano adombrati dalla tesa del cappello, ma avrei giurato di vederli brillare per un istante, o forse fu solo la brace della sigaretta.
Espirò lentamente il fumo e fece schioccare la lingua: – All in.- Sibilò senza scomporsi.
Toccava aggiungere pochi spicci e lo feci senza pensarci due volte, come del resto gli altri tre.
E’ sempre quello che ti frega, pensarci troppo: un attimo di esitazione e perdi l’occasione, l’equilibrio, la strada.
La rossa ammiccò al tizio in nero e girò le prime tre carte.
Due assi e un re di fiori, pessimo flop.
L’umidità sgocciolava ritmica dalle tubature.                                                                              Big Jim prese a contrarre ogni fibra muscolare pompata da cicli e cicli di sostanze al limite della legalità. Le lenti del nanerottolo si appannarono, e questa volta non era colpa dei due MIG mammari del dealer. Gli occhi del grande giocatore girarono su se stessi come i rulli di una slot prima che un gemito strozzato scappasse dalle labbra contratte.
L’uomo in nero rimase in silenzio.
Stava a me parlare, e forse non era la mossa migliore da fare, ma passai comunque la mano. Qualcosa puzzava, anche se non avevo ben idea cosa fosse, o di cosa puzzasse.
– Signori,- esordì l’uomo misterioso da sotto il cappello – come potete benissimo vedere da voi, non mi rimangono fiches per rilanciare.
– E allora? Stai lì buono, che con i piatti grossi ci giocano i professionisti.- Fischiò tra i denti il campione di Gratta&Perdi alla mia destra.                                                                        – Basta che ci sbrighiamo.- Intervenne Big Jim.- Domani ho un’altra audizione e non posso fare tardi, sennò come gliele spiego le rughe al regista.
– Lasciate parlare il signor Lucky Lucy.- Ecco come si chiamava l’uomo in nero.- Siate ragionevoli, in fondo qui siamo tutti dei galantuomini, non è vero mia cara?- Conciliò l’occhialuto continuando a sorridere al dealer.
La rossa strizzò l’occhio alla botte piccola ripiena d’ormoni arretrati.  Poi ammiccò verso Lucky Lucy, che riprese a parlare con la disinvoltura di chi piazza aspirapolveri nel Sahara.
– Dicevamo, sarebbe un peccato giocare una così bella mano per un piatto così irrisorio. E sono uno che di peccati se ne intende, fidatevi.
– Se intuisco bene, ci sta proponendo un accordo, signor Lucky?
– Diciamo una sorta. Non ho contanti con me, ma potrei comunque ripagare la vostra fiducia se mi permetteste di rilanciare.
– Ohi, ciccio, o i soldi o niente. Non vengo mica qui tutte le sere per fare beneficenza.- Ruggì il grande giocatore.
– E poi, cosa potresti mai mettere sul piatto? Forse qualcosa per questi due sfigati,- sbottò il Big Jim – ma guardami: sono giovane, affascinante e in rampa di lancio per il mondo dello spettacolo. Per non parlare delle carte, con queste m’intasco una mano da cinquantamila, minimo. Non credo tu abbia niente di buono per me.                                  La rossa sorrise sorniona mentre la puzza cresceva esponenziale senza che riuscissi a decodificarla.
– Vedi, mio caro Steve,- sibilò Lucky L.- o dovrei forse chiamarti Igino?
Big Jim sbiancò come se gli avessero confermato che con tutta la merda che si sparava tra un paio d’anni addio pistolino.
– No, non ti spaventare se conosco il tuo vero nome. Io sono a conoscenza di molte cose: tutte le tue marchette, per esempio, e dire che neanche ti hanno portato lontano. O quante volte il rispettabilissimo Carlo Maria qui presente si reca a trovare una certa Irina, e, datemi retta, non è vero quello che dice lei, ne ha visti eccome di batacchi più grossi.
Il nanerottolo farfugliò qualcosa mentre cercava di sbrinarsi le lenti degli occhiali.            – Per non parlare di tutte le preghiere del povero Fausto, che non ce la fa proprio ad arrivare a fine mese con una moglie che lo aspetta a casa tutte le notti, sveglia e con una mazza chiodata tra le mani per giunta.
– Ma…ma…- singhiozzò il grande giocatore- ma come fa a saperlo?
– Stiamo tutti con l’acqua alla gola, avrà tirato ad indovinare.- Tagliai corto io.
– No, che mia moglie ha una mazza chiodata, intendo.
La risata agghiacciante di Lucky L. face accapponare la pelle a tutti i presenti.
– Signori, vi prego, tranquilli, non dovete avere paura di me. O forse un pochino sì.- E giù un’altra risata confortante come quelle dei bimbi dall’altra stanza, di notte, in una casa senza frugoletti.
– Ecco la mia offerta.- Fece una breve pausa, giusto il tempo di accendere un fiammifero, posarlo in piedi sul tavolo e fissare la fiamma blu da sotto il cappello.
– Successo!- Tuonò con voce grave e la fiammella avvampò in lingue bluastre fino al soffitto, e tra le lingue flash, sorrisi in copertina e statuette dorate.
Per un minuscolo, brevissimo istante, strinsi il culo sulla sedia.
– Caro il mio Steve, a prescindere se vincerai o meno la mano, da domani la tua vita sarà una discesa continua: tronista, ospite, serate in discoteca, fiction, reality e il firmamento delle stelle si piegherà dinanzi a te. Una lunga discesa senza fine.
Big Jim improvvisò un’espressione sorpresa, testata e ritestata allo specchio per anni, in piccole sale prove, dinanzi a fidanzate e nonne e zie certe del suo brillante futuro; una prova inconfutabile delle sue doti recitative, qualcosa a metà tra una trota ed il Trota.
– Donne!- Esclamò ancora Lucky L. e ancora le lingue incandescenti s’arrampicarono lungo corpi tonici e sinuosi. Tette, labbra e culi presero a danzare tra le fiamme.
Qualcosa si inturgidì anche a me, sempre lì, seduto sulla sedia.
– Per te, mio fascinoso Carlo Maria, bizzeffe di donne: bionde, brune, rosse, vecchie, giovani, e se vuoi anche uomini, bambini, pecore, cammelli e dugonghi, nessun essere vivente potrà resisterti.
Di nuovo la fiamma si…beh, in effetti, dopo un po’ il giochetto sfrantumava i coglioni, diventava più prevedibile dell’assenteismo parlamentare.
– E per te, povero Fausto, soldi a non finire, cascate di gioielli, filarmoniche di moneta sonante, oceani di
– Sì vabbè,- interruppi io – e tu che ci guadagni?
Mi fissarono tutti con più odio di quanto ne trovi nell’Antico Testamento. Avevo rotto la magia, ma quello m’aveva rotto altro già da un po’.
– Avvocato, per caso?- Mi chiese incuriosito prima di ritrattare.­- No, no, ci saremmo già incontrati. Ah, sì, tu sei quello col pallino dello scrivere. Dovevo aspettarmelo, la famosa curiosità dello scrittore. Comunque, è tutto molto semplice, voi avrete a prescindere quello che vi offro.
– E se perdon…- Lo sguardo torvo dei presenti mi convinse a non terminare la frase, e anche un calcio sotto il tavolo fece il suo.
– E se perdono,- riprese Lucky L. accentuando le prime sillabe tipo supplente isterica al decimo giorno di ritardo e tu proprio non hai capito a cosa cazzo serva costruire un quadrato sull’ipotenusa di un triangolo se poi non siamo in grado di tirar giù due strade che non si sbriciolino alla prima pioggia – se perdono, molto semplicemente, avrò le loro anime.
E questa volta la risata fece tremare le mura della cantina, sfarfallare l’unica luce e chiedermi se non fosse stato il caso di svuotare gli intestini prima di sedermi a giocare.
– Fammi capire, cosa sei, il diavolo che te ne vai in giro pacioso e tranquillo a comprare anime come fossero zucchine mutanti su una bancarella di Chernobyl?
Lucky L. sollevò leggermente il cappello lasciando sfavillare due occhioni gialli da far rabbrividire l’onorevole più mafioso, o il mafioso più onorevole, che la differenza, poi, ancora mi sfugge.
– Diciamo che sono più un intermediario, un procacciatore.
– E lavori a proviggio
– Hai rotto il cazzo, hai già foldato e mo’ stai zitto.- Irruppe Steve o Igino o come cazzo si chiamasse Big Jim, provando la sua espressione da duro, ma duro duro, tipo stronzo di uno stitico.- Io chiamo.
– Call anch’io,- s’affrettò a dire Fausto, il grande giocatore – e ‘sta volta vi lascio in mutande, belli.
– Beh, io di mutande ne vorrei annusare parecchie, quindi me la gioco anch’io. Mi dica signor Lucky, dobbiamo firmare qualche contratto, autenticare questo accordo in qualche modo?
– Non ce ne sarà bisogno, ormai con l’InterHell Banking movimentiamo anime restandocene comodamente seduti al tavolo. Quindi, prego Eva, scopri il turn.
– Non dovreste scoprire le vostre carte prima?
Mi fissarono con espressione amorevole, quasi materna, tipo quella della Franzoni.
– Non ce n’è bisogno.- Sibilò Lucky L. e con un cenno lasciò che la rossa Eva scoprisse la carta.
Donna di fiori.
Quasi infartavo. Lo sapevo che avrei dovuto giocare, ma in fondo, con un tris donne mica avrei vinto di sicuro, o no?
Fossero state una settantina, mi sarei pure potuto organizzare per un bell’attacco kamikaze, ma tre donne con due assi a terra, con quel piatto poi, ne valeva la pena?
L’aria s’era appesantita ulteriormente, anche perché la sigaretta nel bocchino continuava a bruciare senza consumarsi e la cantina rimbombava del palpitare di tre cuori al limite del collasso. Gli sguardi si fecero sempr
Ero sicuro che al minimo rumore i tre si sarebbero sgretolati come cristallo. Forse sarebbe stato meglio per loro.
Tre gole deglutirono all’unisono e tre pomi d’Adamo fecero su e giù e sei mani stritolarono il panno verde e quella stranamente irsuta e tozza di Eva scoprì il river.
Donna di picche.
Non so se quel tizio fosse veramente il diavolo o meno, in compenso quelli che tirai giù io erano veri e propri santi intrecciati nelle più diverse posizione kamasutriche proibitive anche per la più snodata contorsionista balcanica.
Lucky L. sorrise, non so se per la bestemmia da Nobel, per le carte o per entrambe.
Adesso, sul tavolo, c’erano due assi un re e due donne.
– Cazzo!- Sussurrò Big Jim scoprendo due miseri jack.- Scala bucata.
– Tris di re, mi dispiace signori.- Gongolò il nanetto occhialuto pregustandosi scorpacciate di figa da infinocchire persino Siffredi.
– Dispiace a me, tris d’assi.- Squittì il grande giocatore e fece per allungare una mano. Un’ombra, o forse una coda sbucata dal nulla, schioccò repentina cacciandogliela indietro.
– Veramente, dispiace a me,- ghignò tetro Lucky L.- anzi, non mi dispiace affatto.
Improvviso un calo di tensione ci lasciò al buio nel momento esatto in cui risuonò un fruscio di carte. Quando la lampadina riprese ad andare sul tavolo c’erano altre due donne: una di cuori, una di quadri, a pochi centimetri dalla mano di Lucky.
La puzza non lasciava più dubbi sulla propria origine: zolfo.
E merda.
Sì, sarei dovuto andare al bagno prima di sedermi.
– E adesso?- Chiese un arguto Big Jim e istantaneo il colorito bruciacchiato della pelle trasmutò in un’abbronzatura da flash compulsivo e l’espressione si instupidì ancora, se possibile, e il telefono gli prese a urlare in una tasca, tutti lo volevano, tutti lo bramavano, anche se ancora nessuno sapeva chi fosse.
Strana cosa la fama, più sei sconosciuto, più nessuno sa cosa hai mai fatto nella tua inutile vita, più in giro c’è gente pronta a giurare che sei il migliore nel tuo campo, anche se non si capisce bene qual sia il tuo campo.
Il nanerottolo occhialuto s’alzò spigliato e senza proferire parola prese sotto braccio, anzi sopra chiappa, la bellissima dealer.
Ancora non realizzavo ma bastò uno strappo improvviso ad illuminarmi. Mi voltai e vidi le tasche di Fausto, il grande giocatore, gonfiarsi a dismisura, esplodere, dilaniarsi sotto la spinta di rotoli sbucati dal nulla, tipo inaspettate proprietà immobiliari in certe, scomode, indagini. Ne aveva in ogni dove, nei pantaloni, nella camicia, anche in posti non proprio piacevoli. Almeno questo faceva intuire la sua espressione mentre si cacciava una mano dietro il fondo schiena, per estrarla poco dopo avvinghiata attorno ad una mazzetta tra l’arancione-cinquanta euro e il marroncino-non c’è bisogno di specificare.
Rimasi lì in silenzio, guardandoli salutare e ringraziare Lucky L. .
Non dimenticherò mai i loro occhi: grigie orbite vuote sopra sorrisi perlacei. Erano spenti, senza fiamma, orfani di qualsiasi slancio, castrati di qualsiasi pur metaforico attributo genitale.
Allora, siamo rimasti solo noi due. Vuoi abbandonare o continuiamo a giocare?- Mi chiese Lucky L. dando un’altra tirata al bocchino.
Avevo appena visto tre uomini perdere l’anima, andarsene via con lo sguardo privo di segni vitali e un ghigno ebete: tre vite distrutte. Qualsiasi normo dotato avrebbe tagliato la corda finché era in tempo, qualsiasi essere vivente dotato di materia grigia funzionante.
– Giochiamo, ma toglimi una curiosità, Lucy di Lucky Lucy non sta per
Luciano, o sbaglio?
– Arguto.- Rispose gettando via il cappello, mettendo così in mostra due piccole corna sulla fronte spaziosa e appena sotto un lungo naso aquilino e appena sotto due lunghi baffi sottili e appena sot, no, basta così.- Sta per Lucifero, apprendistagista demone di terzo livello, in prova, per servirla.
– Anche all’inferno state impicciati col precariato? Brutta bestia, lo so. Replicai facendo frusciare le carte tra le mani.
– Arguto e coraggioso. Dimmi, non hai forse paura, tu, piccolo umano insignificante?
La temperatura s’era abbassata di una decina di gradi, sulla parete difronte a me si stagliava l’ombra imponente ed alata di Lucky L., e alla sua sinistra una lunga coda appuntita si annodò intorno al bocchino portandolo alle labbra del mio avversario.
– Beh, a dirla tutta, me la sto letteralmente facendo sotto, come ogni altro essere vivente, del resto. Non ha forse paura l’equilibrista in bilico sulla fune, o un padre di famiglia quando controlla l’estratto conto? Eppure, nessuno dei due può permettersi il lusso di fermarsi. E’ proprio questo che fa la pura: ti blocca e ti fotte, come pensare troppo. Ma se non pensi mai al demonio non puoi averne paura. Allora, giochiamo?
– Con quelle poche fiches?- Chiese rilanciando.
Aprì le carte: due di cuori e due di fiori.
Cazzo, gioco una mano col diavolo, o un suo fottutissimo dipendente interinale e cosa pesco? Una coppia di due?
Dio stammi bene a sentire, quant’è vero che esisti, perché se esiste il diavolo devi esistere anche te, e non provarci nemmeno a fare il vago, ti giuro che se perdo questa mano vengo su a prenderti a calci in culo finché non canti “Osanna nell’alto dei cieli” ruttando.
– Bastano a vedere il flop, all in!- Feci lanciando le ultime fiches.
Lucky L. sorrise ancora scoprendo la dentatura aguzza da anchorman e le sue carte: jack e dieci di cuori. Feci lo stesso con le mie e per il momento ero in vantaggio con una coppia di due.
Devo ammetterlo, tra le budella stringevo la certezza di portarmi a casa quella diabolica mano. La stessa sicurezza con cui Lucy schioccò due dita artigliate e il flop si voltò magicamente da solo sotto i nostri occhi, senza sorprendermi eccessivamente.
Insomma, ero cresciuto in uno stato che ti ammazza senza troppi problemi lasciando a spasso assassini e criminali, anzi, dopo pretende addirittura l’indennità di sevizia. Ce ne voleva ormai per stupirmi, che ne so, un celebre cantante gay dichiarato che fa outing ammettendo d’essere etero, per esempio.
Le prime community card furono una coltellata al cuore, anzi, tre coltellate di cuori: asso, re e otto rossi come il cuore, come il sangue, come il mio conto in banca.
– Colore e quasi scala reale!- Sibilò il demone senza contratto fisso.
– Ormai sei fregato, mio povero amico. Voglio essere magnanimo con te, voglio offrirti comunque una via d’uscita, come ho fatto con quei tre.
Perle di sudore presero a sbizzarrirsi lungo la mia schiena neanche fosse lo scivolo di un acqua park. Lo stomaco mi si appallottolò in gola e la mente, sempre cara e premurosa, m’illustrò come fosse tanto stupido giocare senza avere i soldi della posta.
E la vita non ammette mai debiti. Pretende che si saldi tutto e subito, anche con sangue e lacrime se necessario. Anzi, le preferisce proprio.
– Sarebbe?- Chiesi con il tono deciso e sicuro di un paracadutista che s’è lanciato con lo zainetto di Peppa Pig della nipote.
– Diciamo che rilanci usando per posta la tua anima, se perdessi avresti comunque il tuo ritorno.
– Tipo? Sì, ma non rifarmi il giochetto della fiamma visionaria, ti prego. C’è un cingalese, giù a Trilussa, che conosce trucchi migliori.
L’apprendista diavolo stizzì rifoderando il fiammifero. Si schiarì la voce catarrosa per tutti i fumi inalati all’inferno (neanche laggiù le condizioni lavorative sono il top, ma di questi tempi non ci si può mica lamentare) e unì le mani difronte al suo brutto muso.
– Caro il mio aspirante scrittore, tu non hai mai pubblicato, giusto? Nessuno ha mai tessuto lodi sul tuo presunto genio, vero? I tuoi lavori ammuffiscono in cassetti e chiavette usb mentre continui ad arrancare per pagare l’affitto, corretto?
Silenzio assenso di chi è stato beccato in fragrante, e pure latitante col padrone di casa.
– Ecco la soluzione,- continuò Lucy – la tua anima sul tavolo e comunque andrà ho per te, già pronta ed editata, con il tuo nome in calce, la bozza del prossimo best-seller intergalattico: la storia d’amore tra un leghista duro e puro e un rifugiato duro e basta. Che ne dici? Le classifiche di vendita, i premi, l’immortalità, la fama.
– Taglia corto, al massimo io c’ho fame, e pure un frigo vuoto.
Il demone strabuzzò gli occhi sorpreso dal rifiuto. Ripartì subito alla carica.
– Ecco la tua soluzione: soldi! Soldi come se piovessero, assegni in bianco, multiproprietà, investimenti spregiudicati ma ben guidati, conti a sette cifre alle Cayman, alle Barbados, alle Mauritius.
– Senti, a me pesa andare al mare a Fregene, pensa se per un prelievo mi tocca fare dodici scali. Lascia stare non fa per me.
Povero Lucky, lo vidi quasi sbiancare mentre si passava affranto una mano sul volto.
– Ok, allora: donne! E che ne dici, tu che ti accoppi a casaccio come un riccio sotto viagra e sei riuscito ad impallare perfino trucideassatanate.org, potresti avere tutte le donne che vuoi ai tuoi piedi: le più sensuali, le più trasgressive, le femmine più vogliose e accattivanti e stupende del pianeta.
Mi fissò per qualche istante con gli occhi lucidi, era certo d’aver fatto centro. In effetti non era male come offerta, almeno a giudicare dall’inspessito epidermide dei miei palmi e da come l’inquilino di sotto sgomitava tra peli pubici e un sadico elastico intimo.
– Naaah, io preferisco le brutte, quelle sì che ci danno dentro.
Lucky s’affloscio inerme.
Sarà stata l’ansia da prestazione, Satana è pur sempre un capo esigente.
– Non ti buttar giù, te lo faccio io un bel re-raise.
Dal suo sguardo intuì d’aver agganciato il pollo. O magari ero io a essere stato fregato. Era meglio non pensarci.
– Io mi gioco l’anima, e non voglio nulla di quello che m’hai offerto, bensì…
– Bensì?- Chiese con occhi luccicanti.
– La tua anima sul piatto, pari e patta, da onesti bari quali siamo: un  povero cristo e un povero diavolo che si giocano tutto in un’unica mano.
– Vuoi farmi ridere? Cos’hai di così allettante da incuriosire un figlio delle tenebre?
– Coperchi, coperchi per tutte le pentole che avete sul fuoco, e sono tante ormai. Pensaci bene,- continuai notando come l’iride verticale del diavolo si dilatasse intrigato – con tutte queste guerre ed epidemie ed elezioni truccate ed ecocatastrofi e suicidi e famiglicidi e streaming di pestaggi e pesticidi nella frutta e nuovi ordini mondiali e disordini per le strade e uomini senza attributi e donne col pisello, non ci si capisce più nulla, neanche il tuo capo sa dove mettere le zampe. E’ la verità, state perdendo terreno, stiamo diventando più bravi di voi nel vostro stesso lavoro. Pensa se tu sapessi fare i coperchi, saresti il nuovo padrone dell’inferno con un bel contratto a vita, o morte, non so bene come funzioni da voi. Dovrebbero riscrivere la “Divina Commedia” per piazzare te al centro di tutto, le donne ti avrebbero per ogni capello e le demonesse darebbero in escandescenza per te. I diavoli inscenerebbero kolossal sulle tue gesta,- ormai neanche fiatava più, pendeva dalle mie labbra come un verme dall’amo – “L’Inferno quotidiano” e “ Lo Stige 24 ore” ti dedicherebbero le prime pagine da qui all’eternità, saresti il primo diavolo che si è fatto da solo ad arrivare così in alto, o così in basso. Sì, insomma, saresti il padrone di tutto con il culo incollato al trono come quello di un senatore alla poltrona.
Dalla sua bitorzoluta scatola cranica veniva un gran sferragliare di pensieri, aveva l’acquolina sulfurea alla bocca e la coda non gli stava più nelle squame.
– Buah, buahah, buahahahaah, povero idiota, ci sto!- E mi stritolò la mano con quella zampaccia infernale.
Non ebbi il tempo di realizzare cosa avessi fatto che Lucy pescò dal mazzo il turn inchiodandomi alla sedia. Ondeggiò la carta a mezz’aria e sentì le coronarie strizzarsi compulsive quando finalmente la voltò, posandola leggiadra sul panno verde.
Un due di quadri si stagliava sul tavolo riverberando inutili speranze in un piccolo spazio dentro di me, tra lo stomaco e lo gola, o magari tra l’intestino crasso e le cistifellea.
– Un tris di due,- constatò il mio avversario – bel punto, ma non basta.
Certo potresti sperare ancora in un full per battere il mio colore a cuori, eppure sono abbastanza sicuro che la prossima carta sarà una donna, di cuori.
– Punti alla scala reale sperando in una donna di cuori? Non ti hanno insegnato che le donne ne sanno una più del diavolo, e sanno essere anche più stronze quando ci si mettono?
La luce ebbe un impercettibile calo di tensione.
– Non essere arrogante, non puoi sperare di battere il diavolo a poker.
– Se per questo ormai non spero neanche di battere cassa, con i tempi che corrono, poi. Sfortunatamente, però, ho questa congenita passione per il brivido, che ci vuoi fare. Allora, giochiamo?
Allungai la mano, scartai la prima carta dal mazzo, come vogliono le regole, e le regole vanno sempre rispettate, e la posai sul river. Quell’ultima e decisiva carta che portava intrinseca una percentuale di vittoria inferiore a quella di sopravvivenza di una panda troppo pigro anche per accoppiarsi.
– Permetti?- Chiesi con un lieve incrinatura nella voce.
– Prego, è sempre piacevole guardare un umano distruggersi con le proprie mani.
Ecco, è la fine, pensai sollevando la carta.
I miei occhi si spengeranno come quelli dei tre prima di me, pensai  inclinandola di lato mentre la calavo.
E’ una donna di cuori, sussurrò appena Lucky Lucy, e la corrente borbottò ancora. La lampadina disertò ancora per un lunghissimo secondo di oscurità, un secolo.
Il cuore martellava in testa, il sudore sgocciolava dalle mie dita sulla carta, i polmoni non si erano dimentica come assorbire ossigeno.
Ero finito. Ero spacciato. Avevo perso l’anima ad uno stupido gioco.
E luce fu.
Tremolante, fredda, ma fu.
E un grido terribile dilaniò il silenzio, straziò i timpani dei clienti del bar sopra di noi, dei passanti ignari, fuori, in strada. Arrivò a disturbare le frequenze di Radio Maria, facendo così infartare la signora Pistilli, placida ottantenne sintonizzata sulla suddetta radio, che, tra un “Padre Nostro” e un’omelia, si sorbì tutta la discografia death metal degli ultimi quindici anni prima di stramazzare al suolo con la bava alla bocca.
Il volto contratto in una smorfia, le labbra tremanti, gli occhi sempre più bui, sempre più spenti. Lucky Lucy non se la stava passando bene, con l’artiglio in parkinson spinto che puntava dritto davanti a sé, dritto sul panno verde, dritto sul placido due di picche adagiato accanto alla mia mano.
– No…non è possibile.- Tartagliò pallido in volto.
– Cosa ci vuoi fare, aspettavi tanto una donna di cuori e ti sei ritrovato con un due di picche: è la vita, tocca prenderla come viene.
– Ma, ma come facevi a sapere che un diavolo con l’anima impegnata perde i suoi poteri?
– Ah, davvero? Non lo sapevo, buon per me.- Sorrisi, voltai le spalle e feci per andarmene.
– Aspetta, aspetta.- Mi fermò Lucky con le orbite cha andavano a sbiadirsi dal giallo originale a un grigio più convenzionale.- Rivelami almeno come fare i coperchi, ti prego.
– Ops, ho bluffato. Non so neanche prepararmi due Sofficini, figurati se so fare coperchi per pentole. Stammi bene, ciao.
Risalendo le scale verso il bar lo sentii imprecare e maledirsi, bestemmiare mentre prendevo una bottiglia d’amaro al bar, piangere convulsamente quando ormai ero fuori in strada.
E così è come comprai l’anima al diavolo, e adesso la tengo in una bottiglia d’amaro per un gran giorno, ma basta parlare.
Allora, giochiamo?

 

Estratto dal libro Poker d’incubi, scritto da Gianluca Pavia & Lié Larousse, firmato DuediRipicca.
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“Tempo da lupi, si direbbe, e da mostri − tutti troppo umani.
Fremiti, brividi, respiri che si spezzano. I personaggi di questa raccolta − un inconsueto prosimetro contemporaneo − hanno paura o fanno paura.
Qualcuno potrebbe tirare fuori la parola noir, ma forse a sproposito − perché se c’è qualcosa di nero in questi (guarda caso) 17 poesie più 17 testi perturbanti, è il nero che è già nelle cose.
Gli autori lo fanno risaltare giocando con l’idea di incubo, ma si tratta in molti casi di incubi fatti da svegli.”
(dalla prefazione di Paolo Di Paolo)

Se volete acquistare una copia autografata dagli autori scrivete a: duediripicca@yahoo.com

 

 

 

 

 

365 giorni, Libroarbitrio

Le cose belle – Daniele Casolino

daniele casolino

Forse perché le cose belle hanno le minacce della pretesa, forse perché sono quelle che ci legano di più all’infanzia, a quando potevamo sbattere i piedi e urlare, senza sentir ragioni. Prima del: non si fa. Forse perché le cose belle sono anche preziose e abbiamo paura che ce le rubino, o non ne capiscano il valore. La cosa più brutta sarebbe che ce le sporchino. Forse perché le cose belle sono così semplici da fare male, come la fame, la sete, la voglia, quella dannata voglia di, di chi ha deciso di mandarla all’inferno? Chi? Poi è vero, c’è la strada della gentilezza, ma non è una proposta smussata, non è per educazione. Eʼ per fiducia. Come un pescecane che si lasci accarezzare. Io ti mangio tu mi uccidi, ma vorremmo smettere, vediamo se si può, con prudenza, signor sub, con rispetto signor squalo. Lʼaltro giorno volevo scrivere in bacheca “Il ricatto a volte ha la forma della rosa”. Lʼho pensato, mi ha spaventato e lʼho censurato. Non lʼho scritto ma ormai si era scritto dentro, e vallo a cancellare, dentro. Le cose belle a volte si confondono. No, non è esatto, ci confondono. In questo periodo sto provando ad osare lʼinosabile, e sai la sorpresa, spesso non cʼè nulla ad impedirlo. E allora rimanda indietro quella necessità di protezione e scopriti, spingi invio e manda la lettera a Sara. Tutt’al più sarà verità. E la verità è tra le cose belle. La verità che non si può dire mai, a volte le mezze bugie, a fin di bene, ne han ammazzati più le mezze bugie che la penna e la spada. Una guerra scema in cui si muore in due, quella delle mezze bugie. Scandaloso? Può darsi che la verità non sia affatto gentile e cortese, ma quale fiducia maggiore potrai ottenere se non attraverso la verità? Forse le cose belle servono a cercarla, come le mollichine di Pollicino. Forse si veste da curiosità, che Alice come sarebbe riuscita a sapere cosa ci fosse in quelle boccette davvero se non violandole. La veritààààààà, Zavattini la dava ai matti, che queste sono cose che non si possono dire. Le cose belle, ci dicono, non si possono dire, perché sono vere. E nella verità non cʼè potere, lo squalo non ha denti, il sub nessuna fiocina, ma non se lo dicono, e restano lì a guardarsi tremanti, a diffidare dellʼaltro, e quella carezza bella e voluta non se la daranno mai. Tu sei vera? Perché spesso la verità ha proprio lo stesso colore del sogno.
Daniele, quello che sogna davvero.

alice moon artist - telesiope - daniele csolino

opera pittorica di
Alice Moon Artist

 

365 giorni, Libroarbitrio

CANTO DI NATALE – Racconto di Gianluca Pavia

heartbreakhotel

L’autobus si fermò con un lamento, e Nino prese l’uscita senza troppi convenevoli.
– Buon Natale anche a lei.- Fece ironico l’autista mentre le antine si richiudevano.
Non sapeva cosa stonasse di più: che gli avessero dato del lei, o che il Natale fosse spuntato dal nulla un’altra volta, subdolo come sempre. Eppure avrebbe dovuto intuirlo, nel mezzo pomeriggio speso per tornare a casa dal cantiere all’altra parte della città. Seduto su scomodi seggiolini pubblici, a guardare fuori la vita che scorreva sotto una pioggerellina sottile: il traffico frenetico nella sua stasi, i volti trasfigurati dei pedoni in entrata ed uscita dalle torri illuminate dei centri commerciali. Il fatto è che Nino stagnava in quel limbo tra i trenta e i quaranta in cui si è troppo giovani per certe cose, troppo vecchi per altre, e una spessa foschia avvolge tutto il resto. L’ascensore si fermò al piano. L’illuminazione andava e veniva mentre Nino cercava le chiavi nei pantaloni da lavoro. Quando le infilò nella toppa si rese conto del pacchetto fissato alla porta con dello scotch. Sul retro c’era una bigliettino. Aprì la porta e cercò l’interruttore al buio. Click, e ancora buio.
Click, click, click, sempre buio.
– Fantastico, hanno staccato la corrente.- Sibilò sull’uscio, e lesse il biglietto sotto la luce intermittente del pianerottolo.- Il tempo passa, le tradizioni rimangono. In qualche modo.
Non ebbe bisogno di leggere la firma, cacciò il pacchetto in una tasca ed entrò nell’oscurità dell’appartamento con un mezzo sorriso. Evitò a memoria i resti di posaceneri e bollette accartocciate, sedie pericolanti e spigoli infami. Aprì il frigo e ne pescò fuori mezza bottiglia di rosso, l’unico superstite in quel sarcofago abbandonato.
Si attaccò direttamente alla bottiglia entrando in bagno con la mano libera a sistemare le mutande sotto i pantaloni. Pisciò, tirò l’acqua e si sciacquò la faccia.
Fuori, in strada, qualche demente sparava i primi botti. Nel bagno, nello specchio semi oscurato, le sue rughe non erano così marcate, la vita bluffava sugli anni trascorsi.
Trascorsi da quando?” Rifletté abbandonandosi sul letto con ancora le scarpe antinfortunistica ai piedi.
Dalle tavolate immerse nel fumo di sigarette nazionali? Dal baccano di brindisi e auguri posticci? Dal Game Boy e quel cazzo di Tetris con la sua musichetta ipnotica?”
Si girò su un fianco e la carta del pacchetto nella tasca crepitò minacciosa.
O dai 24, 25 e 26 rinchiusi in una stanza, a bere vino e fare l’amore? Guardare i cartoni alla tele e sperare che un altro Natale si tolga dal cazzo. Leccarsi, mordersi, e spartirsi carni e liquidi come cenone.”
– Non era male come tradizione, per essere una tradizione.
Si girò ancora nel letto. Ora fissava il soffitto, o almeno quello che riusciva ad intravedere nel buio. Dalla finestra arrivavano sputi di luce, di addobbi e fari in strada. Qualche petardo e auguri tra sconosciuti dall’appartamento affianco. Natale non era mai stato piacevole, ma Nino aveva sempre trovato qualche modo per fotterlo, anche scordandosi della sua esistenza. Specialmente così. Questo giro non era quello buono. Lo sfondo nero del soffitto era la superficie ideale dove proiettare fantasmi che non gli appartenevano più, non appartenevano più a nessuno. Provò a dormire il sonno dei giusti, di chi si spacca la schiena per due spicci, e poi il fegato bevendosi via gli stessi spicci. Nisba, la sua mente aveva la stessa consistenza del soffitto, lo stesso peso specifico fatto di sorrisi, saliva e un rifugio sicuro. Pranzi, tombolate e scuse accampate pur di scappare via. La pelle di lei, i suoi gemiti, tutto era meglio di niente, e adesso gli rimaneva solo quello. Il niente.
Il telefono trillò in una tasca, il mondo non si era scordato di lui.
Forse era lei, o magari qualche parente lontano. Magari uno zio. Americano, ricco e in punto di morte.
No. Era solo il suo operatore telefonico che gli augurava un felice Natale, ricordandogli che per soli cinque euro in più avrebbe avuto tutti i giga che voleva per navigare durante le feste.
– Vaffanculo, meglio affogare.- Digrignò cercando la bottiglia di rosso.
Mezzo sorso e anche quella era andata. Prese il telecomando e accese la tv.
Una, due, tre volte. Si ricordò che non c’era corrente, l’avevano staccata. Cercò di provare un moto di disgusto per lo stronzo che gli aveva tagliato i fili proprio alla vigilia. Poi rimpianse che il giorno dopo sarebbe stato il venticinque e non poteva neanche lavorare, gli sarebbe toccato rimanersene a casa e bere vino, da solo. Sarebbe potuta andare peggio, tipo brindare con qualcuno.
Sbuffò, si alzò dal letto e in un attimo fu in strada.
L’aria era fredda, tagliava il volto come lamette arrugginite, e portava con sé l’aroma di agrumi sbucciati e il rovisto di qualche cane tra i secchioni dell’immondizia. Si accese una sigaretta stringendosi nel cappotto. L’asfalto era silenzioso eppure dai palazzi intorno a lui veniva il sommesso brusio di chiacchiere e tappi che saltano. Espirò l’ultima boccata di fumo che si aggrovigliò su se stessa salendo nella notte appena fuori l’unico bar aperto.
Entrò a testa bassa e filò al primo tavolino libero.
– ‘Sera Architetto, il solito?- Gli chiese il barista di cui non ricordava il nome, o magari non l’aveva mai saputo.
– Sì, grazie.
Si guardò intorno mentre aspettava il drink. Facce vecchie, stanche, allargavano le labbra e schioccavano lingue mandando giù stravecchi ed amari. Mani stringevano mani, labbra rispondevano auguri ad auguri, sguardi evitavano sguardi.
– Ecco qua, Architetto, il tuo Campari e vodka.- Sorrise la cameriera posando il bicchiere difronte a lui.- Buon Natale.
– Grazie…cara.- Non riusciva proprio a ricordarsi se si chiamasse Oana, Diana o con uno qualsiasi di quei nomi tanto in voga oltre la cortina.- E comunque non sono un architetto.
– Certo che lo sei.- Sorrise ancora la cameriera e se ne andò.
Ebbe il sentore che quel soprannome fosse una presa in giro. Perché lavorava in cantiere, o magari perché in più di un’occasione aveva ricordato a tutti quegli ubriaconi falliti lì seduti che almeno lui una laurea ce l’aveva. Solo che gli altri sbottavano a ridere, dandogli pacche sulle spalle e offrendogli da bere. Alla fine iniziò anche lui a dubitare d’averlo mai preso quel pezzo di carta, e chiedersi di cosa se ne fosse fatto, poi. Forse ci si era pulito il culo.
– Alla salute.- Brindò al vuoto e mandò giù il drink cercando di liberarsi da quei pensieri cancerogeni.
Le slot alle sue spalle suonavano come campane a festa. I disperati che le assediavano sbarravano gli occhi ed imprecavano come in qualsiasi altro giorno.
Dal primo all’ultimo dell’anno, stessa scena un giorno dopo l’altro. Per fortuna sullo schermo sopra il bancone passava il solito film natalizio a ricordare a tutti che quello era uno giorno speciale. Nino se lo ricordava a memoria, lo vedeva tutti gli anni da quando era piccolo. Non gli era mai piaciuto più di tanto, e poi la risata isterica di quell’attore di colore, falso invalido all’inizio del film, gli dava ai nervi, più o meno come l’idea di fondo che in un giorno speciale succede sempre qualcosa di speciale. Ordinò un altro giro e si guardò ancora intorno senza trovare nulla di speciale. Le stesse facce, gli stessi discorsi, le stesse sfighe di qualsiasi altro giorno. Eppure lui si trovava lì, in mezzo a loro.
Era forse quella la sua famiglia ora? Era come loro? Doveva brindare con loro?
Con vecchi, pazzi e beoni? Disperati gioco dipendenti ed alcolisti a tempo perso?
Erano brutti e senza scintilla negli occhi, nelle parole, eppure eccolo lì a salutarsi e scambiare quattro chiacchiere, a condividere tempo, spazio e solitudine. Tipo parenti serpenti che ti tocca sopportare.
Per quanto schifi quello che hai attorno, ce l’hai sempre attorno.
Corpi venivano ed andavano, come trascinati da una corrente invisibile.
Il film finì e c’era chi passava per un caffè dopo il cenone, chi per un amaro prima della pokerata, e chi, come lui e qualche altro, si limitava a mandar giù un bicchiere dopo l’altro.
La mente iniziò a rallentare, la palpebra a pesare, quando, d’un tratto, uno scoppio lo destò dalla sua programmata trance.
– Auguri, auguri a tutti!- Si sgolava il barista.- Questo giro l’offriamo noi.
Nino guardò l’orologio, mezzanotte ora locale.
– Ehi,- si sgolò verso il bancone – sei un po’ in ritardo.
– Che vuoi dire?- Chiese il barista intento a versare a spumante da discount in bicchieri sbeccati.- E’ mezzanotte, è nato Nostro Signore.
– Sì, ma vostro signore è nato ad un paio di fusi orari da qui. Avresti dovuto brindare due o tre ore fa.
Molti occhi si puntarono su di lui, stanchi, lucidi. Per lo più scivolarono via.
– Sei il solito stronzo.- Replicò il barista.- Per te niente champagne.
– Se quello è champagne,- fece Nino – ieri mi sono fatto Belen.
Applausi e schiamazzi soverchiarono il trambusto delle slot machine. Qualche simpaticone offrì addirittura un giro, o due. Nino ne aveva perso il conto, ne aveva perse di cose, ma la notte se ne sbatte e scivola via comunque, impassibile, immutabile.
– Allora come ti va, architetto?- Gli chiese il tizio che aveva offerto l’ultimo giro sedendosi al suo tavolo senza invito.
– Più che come toccherebbe capire dove.- Replicò lui studiando quel volto liscio.
– E comunque non sono architetto.
– Certo che lo sei!- Sghignazzò l’altro mollandogli una pacca sulla spalla.
Nino sbuffò dalle narici.
– Se mi tocchi ancora ti spacco la faccia.
Non era grosso, né eccessivamente cattivo, ma a volte bastano gli occhi ad allontanare gli scocciatori, specialmente se hanno una traccia di pazzia.
Il tizio se la filò ed il tempo riprese a scorrere liscio.
Doveva essere abbastanza tardi quando qualcosa catturò la sua attenzione.
Un paio di chiappe da urlo, strette in una minigonna jeans, si agitavano di fuori strusciando sulla vetrata del bar. Una ragazza discuteva animatamente con uno dei tanti disperati che frequentavano il bar.
– Ti ho detto di no, e mollami.- Urlò la ragazza.
Nino scolò l’ultimo goccio ed uscì fuori. Si appostò accanto ai due litiganti e si accese una sigaretta.
– E dai, Serena, che ti va. Lo so che ti va, non lo vuoi fare un po’ di zum zum con il vecchio Alfredo.
Serena aveva indosso solo quella minigonna ed un piumino da bancarella, e anche l’aria di chi attraversa la vita degli altri come un fantasma, lasciando un terrificante ricordo e nulla più.
– Appunto perché sei vecchio, lasciami stare.
I capelli erano lunghi e neri. Neri come può essere qualsiasi cattivo presagio, ma gli occhi brillavano. In quelle iridi c’era un nuovo giorno, l’orgoglio nonostante la sconfitta, il sangue che ribolle nelle vene. Qualcosa che Nino avrebbe solo potuto proiettare sul soffitto della sua camera.
– E non fare la stronza,- sibilò il vecchio, Alfredo, afferrandole un braccio – sei una puttana, no? Fammi questo bel regalo di Natale.
– Mollami, che mi fai male. Ti ho detto di no, è no.
Il vecchio alzò la mano libera per mollare un bel mal rovescio, Nino gettò la sigaretta a terra.
– Lasciala stare, ti ha detto di no.
I due si voltarono sorpresi, neanche dovessero scartare un regalo.
– Fatti gli affari tuoi.- Sibilò Serena.
– Hai sentito la zoccola?- Chiese il vecchio.- Sparisci Architetto.
La mano rugosa era pronta a calare, ma Nino fu più rapido. L’afferrò, liberò la ragazza dalla morsa sul braccio e spinse via il vecchio.
– Guarda che so difendermi da me.- Fece Serena.
– Ne sono sicuro.
Già, quegli occhi avrebbero fatto venire voglia a chiunque di perdercisi dentro. Non ne aveva il tempo però, Alfredo era un stronzo coriaceo, vecchia scuola.
– Ti sei fatto i cazzi tuoi, Architetto.
Il vecchio infilò una mano nella giacca e ne cacciò fuori una lama ben affilata. I clienti del bar guardavano tutti altrove, in fondo neanche quella era una scena tanto speciale da quelle parti. La lama scattò incontro a Nino che, pregando un dio che sarebbe dovuto già nascere da qualche ora, parecchi millenni prima, fu più rapido. Si mosse di lato e con un gancio ben assestato spedì il vecchio in un mondo in cui certe fregole si sublimano da sole.
– Porca puttana,- sbottò Serena stringendogli un braccio- l’hai sistemato per le feste, nel vero senso della parola.
Nino la guardò di traverso.
– Non usare quelle parole, non ti stanno bene.
– Che vuoi dire?
– Che sei una donna, devi mantenere una certa classe, uno stile.
Serena sorrise piantandogli lo sguardo dentro.
– Ehi, cocco, sono pur sempre una puttana.
– Anche le puttane hanno uno stile.
– Quelle che ce l’hanno fanno le veline, o il ministro.
Nino trattenne un sorriso.
– Ok, ci puoi stare, dammi una mano a sistemare il vecchio accanto ai secchioni e ti offro da bere.
Smaltito il rifiuto geriatrico si sedettero ad un tavolo e presero a bere. La ragazza era giovane ma teneva il ritmo senza problemi. Nino beveva, si sparava gli ultimi soldi e chiacchierava con lei come si conoscessero da una vita.
Musica, cinema, poesia, cazzate una dopo l’altra.
Non la vedevano allo stesso modo, anzi, diametralmente opposta, ma era piacevole parlare con un altro essere umano. Cazzo, sì, esistevano ancora.
– Vuoi dirmi che Fante non era ossessionato dal padre?- Chiese lei svuotando l’ennesimo amaro quando ormai il cielo annunciava un altro giorno di merda.
– Certo che n’era ossessionato, ma tutti abbiamo un’ossessione, e spesso la usiamo come scusa per rendere meglio in quello che facciamo.
Lei sembrò oscillare sull’incertezza di quelle parole.
– Non pensi mai a qualcuno con cui ti piaceva sul serio farlo, quando lo fai?
La domanda di Nino rimase sospesa in aria finché lei non si alzò in piedi.
– Te lo dico dopo, mi aspetti un attimo, vado in bagno e torno subito.
Fece cenno di sì e andò a pagare il conto mentre lei cercava la toilette.
I soldi non bastarono e dovette chiedere credito per gli ultimi due giri.
– Sei il solito stronzo.- Ripeté il barista.
– Probabile.- Replicò Nino uscendo fuori a fumare un’altra sigaretta.
Il nuovo giorno iniziava nel migliore dei modi: silenzio e poca gente in giro.
La vita non era poi così male, se non ci si badava troppo.
Il calore di un corpo contro il suo lo fece trasalire.
– Che vuoi fare? Andiamo da me?- Chiese Serena.
A momenti la sigaretta non gli cascò dalle labbra, mentre passava in rassegna quel corpo progettato da qualche sadico genio.
– Credevo che non volessi compagnia.
– Poche chiacchiere e più camminare.- Disse lei trascinandolo verso le case popolari vicino al mercato di quartiere.
Non parlarono lungo il tragitto. Nino si sentiva leggero, quasi inebriato. In parte per l’alcool, in parte per la prospettiva di un po’ di sesso. Quel corpo caldo incollato al suo smuoveva braci non del tutto assopite. La voglia di carne, di studiarsi a fondo, di darci dentro finché non si crolla esausti, sudati, e cazzo sì, in paradiso, lo faceva fremere come non succedeva da tempo.
Quanto tempo? Quanti Natali? Quanti risvegli in letti sconosciuti ed imbarazzanti compassioni lette in occhi estranei.
– Siamo arrivati, ti avverto, casa mia è una casino ma se non ti scandalizzi…
La voce di Serena era trillante, piena d’energia nonostante l’ora e l’alcool ingerito.
Nino fissò il portone, il vetro incastonato tra le assi di ferro, il suo riflesso.
Vide i suoi capelli allungarsi e farsi bianchi e unti. Il ventre da bevitore gonfiarsi. La barba farsi ispida e gli abiti rimanere gli stessi, solo conciati peggio, se possibile. Guardò il riflesso di lei, il loro, o un altro che non fosse il loro. Immagini che potevano essere ricordi o premonizioni. Solitudini collimate in una compensazione inutile, se non ad inacidire il bicchiere da cui a tutti tocca bere, e con cui non c’è un cazzo a cui brindare.
– Non salgo.- Disse il suo riflesso con le labbra rovinate.
– Che vuoi dire?- Stizzì lei dal vetro.
– Che non c’è niente di speciale neanche in una notte “speciale”.
– Sei uno stronzo.
– Lo dicono in tanti.
Il portone si aprì e Serena era quasi sparita dentro quando lui l’afferrò per un braccio, delicatamente.
– Buon Natale.- Disse pescando il pacchetto dalla tasca, quello che gli aveva recapitato qualcuno che non voleva avere niente a che fare con lui, non più.
– Vaffanculo.
Il portone si richiuse e Nino rimase qualche istante a fissare il suo riflesso invecchiato. Poi si aprì ancora, una mano gli strappò il pacchetto e scomparii. Era ormai giorno e quei pochi a cui toccava lavorare pure quella mattina scendevano in strada. I passi di Nino si diressero incerti verso casa. Era stanco, senza forze o idee su cosa lo aspettasse. Nulla di speciale, comunque.
– Almeno un altro Natale ce lo siamo tolto dal cazzo.

365 giorni, Libroarbitrio

“L’arte del racconto” laboratorio a cura di Simone Ghelli – Fiumicino / Roma

simone ghelli

L’arte del Racconto è un laboratorio di scrittura creativa nello specifico lo studio del racconto e l’approcciarsi alla sua stesura.

Condotto da Simone Ghelli autore del libro “Non risponde mai nessuno” raccolta di racconti edita da Miraggi Edizioni, il corso si terrà tutti i lunedì, a partire dal 5 febbraio, dalle 18 alle 20 presso la libreria “C’era una volta” di Fiumicino, in via della Foce Micina 10/D. Il costo è di 50 euro al mese.
Per chi fosse interessato e vuole avere maggiori informazioni può contattare la titolare della libreria al numero telefonico 333321674.

 

365 giorni, Libroarbitrio

CRISTOPHERE DE NAZONACCIA – GIANLUCA PAVIA

Christophere de NAZONACCIA

Correva l’anno…
Non lo so, correva troppo veloce e non presi la targa.
Comunque, era una notte buia e tempestosa…
Ad essere sincero, non sono troppo sicuro neanche di questo, già allora il meteo era più variabile dell’umore di una donna in certi giorni particolari.
Per farla breve, due immigrati clandestini avanzavano nell’oscurità.

– Giuse’, io non ce la faccio più. Perché non ci siamo fermati in quella stalla?

– Mari’, venti denari per quella catapecchia erano veramente troppi, non c’era neanche il wi-fi.

– Magari se non ti trastullassi tutto il giorno con le seghe…

– Mari’, sono un falegname, ci lavoro con le seghe, Cristo! E poi parla quella che si è fatta ingravidare dallo Spirito Santo. Pffh, vergine ‘sto prepuzio circonciso.

– Eri ubriaco, cretino. E continua pure a fare lo stronzo, così non la rivedi neanche in cartolina.

– Cos’è una cartolina?

– Non lo so, ma suonava bene. Comunque, non mi dispiace Cristo, come nome per il piccolo, intendo.

Giuseppe non lo tollerava quel nome, suonava antico, polveroso, faceva pensare ad un mignolo contro lo spigolo. Lui preferiva qualcosa di più moderno, all’avanguardia, tipo Goffredo o Arcimboldo o Kevin.
Ne avrebbero discusso in seguito, ora era troppo stremato dal viaggio.
Viaggio iniziato parecchie lune prima, qualche giorno dopo quella fatidica notte in cui Maria, stringendo la mano dell’amica Gabrielle, aveva confessato di essere incinta.
Di cinque mesi. Di. Cinque. Mesi.
Poco importa se erano sposati da appena una settimana e che il povero Giuseppe, tra un mal di testa e una nausea e un’infernale sbornia post nozze, fosse certo d’essere l’unico a doversi accontentare del vecchio, sano, lavoro manuale. E lì ce ne metteva di spirito, più o meno santo.
Era stato un miracolo, la gravidanza, cos’altro? E loro erano fritti, ormai. Giuseppe, mani callose per il quotidiano impegno con le seghe, cosa poteva fare? Privo di qualsiasi istinto paterno, era pur sempre innamorato di Maria: una gnocca stellare, tanto che quando passava la gente si voltava ad esclamare: – E la madonna!
Optò per il buon viso a cattiva sorte, o come si diceva a quei tempi, porse l’altra guancia. Guancia centrata all’istante da vari ceffoni. La gravidanza della vergine aveva già aizzato malelingue e dicerie. I più imputavano il concepimento ad un’intercessione della sua amica, l’arcangelo Gabrielle: nordafricano d’origine, francese d’adozione, brasiliana d’operazione. Per inciso, nessuno è a conoscenza dell’origine dell’appellativo “arcangelo”. Alcuni studiosi lo imputano alla “spada infuocata” celata sotto l’ampia tunica, ma non ci sono testimonianze di nessuno che abbia avuto il coraggio di toccare con mano, tranne un certo Tommaso, detto Lapo, che nonostante scottatosi le dita più e più volte non è mai riuscito a togliersi il vizietto.
Giuseppe mandò giù le insinuazioni d’adulterio e porse ancora l’altra guancia. Guancia bersaglio ideale per un altro ceffone, e al pover uomo iniziarono a finire le guance e girare le palle. La fecondazione di una giovane pura si era estesa a macchia d’acqua benedetta per tutto l’Impero, giungendo all’orecchio di Erode, noto produttore di format con una forte inclinazione alla pedofilia. Il buon Erode li cercò per ogni pertugio dell’impero, era stato infatti abbagliato da un’illuminazione sulla via di Damasco, poi rivelatosi un tir in contromano, ma la decisione era ormai stata presa: madre e nascituro andavano scritturati per il suo nuovo reality “Non sapevo di essere incinta”. E magari solo la madre per un talk incentrato su di lei, qualcosa del tipo “Amici di Maria”, che tanto a Giuseppe non se l’era mai cagato nessuno, neanche per il concepimento la prima notte di nozze, figuriamoci per un cameo in prima serata. E non c’era da sottovalutare la fine filosofia esistenziale del buon Erode: scoparsi un bambino is for boys, il figlio di una vergine is for Erode.

Fatto sta, che tra le malelingue dei vicini, la presenza ingombrante, ingombrante ed infuocata, di Gabrielle e la caccia di Erode intenzionato ad abusare a piacimento della sua famiglia, Giuseppe raccolse le loro poche cose ed emigrò con Maria. Purtroppo non c’erano ancora gli scafisti, o perlomeno non erano così organizzati. Fu una fuga massacrante attraverso il deserto, senza l’ombra di un autogrill. Senza un’ombra e basta.
Patirono la fame, la sete, la stanchezza, le incessanti chiamate di diversi call center che promuovevano la Terra Promessa a prezzi stracciati; tutto per arrivare in quel buco di culo alla periferia dell’impero: Nazonaccia, dove non fecero in tempo a trovarsi una sistemazione che eccoli vittime del razzismo dei locali, terrorizzati all’idea che quegli immigrati potessero rubargli il lavoro che non avevano. Alla fine riuscirono a strappare un prezzo scontatissimo per una baracca in lamiera all’idroscalo, concedendosi finalmente cinque minuti di relax.

– Giuse’.

-…..

– Giuseppe!

– Mari’, lasciami in pace che sto leggendo una mail di Ammazzaoh. Dice che è partito un certo corriere Magi Exp. con i per tuo…ehm, nostro figlio. Ma se neanche è nato, è poi mica ce l’ha indirizzo, tua madre quella rompico

– E certo, lui ha sempre da fare.- Sbuffò Maria guardandosi l’enorme pancia.- E a me chi ci pensa? E al piccolo? E

– E mi si sono hai rotto le palle!- Sbottò Giuseppe.

Maria strabuzzò gli occhi: – A me le acque.

– Cosa?

– Mi si sono rotte le acque.

– Che Natale di merda.- Chiosò Giuseppe.

– Cos’è il Natale?

– Non lo so, ma suonava bene.

E così venne alla luce il piccolo, che dopo una diatriba infernale tra i genitori, tra chi lo voleva chiamare Cristo e chi con un più attuale Manuel, chi rivendicava un tradizionale David e chi un innovativo Natan Falco, prese il nome di Cristophere, una sorta di compromesso tra antico e nuovo, in perfetta sintonia con l’aristocratica atmosfera di Nazonaccia.
La prima decina di mesi passarono in fretta, il bambino era in buona salute, a parte un perenne cerchio alla testa, per di più dorato, ma quello lo vedevano tutti e invece di crucciarsene divenne fonte d’interesse, se non di superstizione.

– E’ il figlio di Dio.- Urlava il pastore.

E ti pareva, bofonchiava Giuseppe sempre più convinto che la creatura non gli somigliasse per niente.

– E’ il re dei re.- Urlava il fabbro.

– Ha il fattore x, sì, è lui il prescelto.- Urlavano gli ubriaconi della locanda.

– Prescelto per cosa?- Chiedeva il padre putativo sperando di sbolognare il piccolo.

– E che ne sappiamo noi, siamo solo ubriaconi.

Insomma, filava tutto liscio e in un attimo giunse il primo anniversario del miracolo, proprio la sera in cui tre ombre misteriose incombevano sull’uscio della dimora in lamiera.

– Oh, mio dio!- Esclamò Giuseppe spaventato da quei tre sconosciuti.

– Sì, dimmi.- Rispose Cristophere che già camminava, parlava e whatsuppava come un adulto.

– No tu, pezzo di scemo. Invocavo Dio.

– Sì, sono io.

Giuseppe ormai fuori dalla grazia di Dio, o del suo presunto figlio, provò a battere il figlio come vuole la Legge, senza riuscirci. Una delle tre ombre aveva interceduto placando la sua ira.

– Non picchiarlo, lui è il figlio di Dio.

– Mari’, te lo dicevo che non era figlio mio.

– Non dire stronzate.- Rispose lei, emergendo dal salotto angolo cottura spigolo da letto vista cloaca bella come non mai, candidandosi di prepotenza a prima milf della storia e della religione. E di educazione fisica, ma ad honorem.

– E voi chi sareste? Se vi manda EquiIsraele abbiamo già pagato le cartelle in sospeso.

– No, Santa Vergine, siamo i re magi, del Magi Exp.- Fece l’uomo indicando gli altri due che non erano più ombre ma gioielli e turbanti e sneaker in diamanti.- Melchiorre, Gasparre e Zuzzurro.

– Siamo venuti ad omaggiare la nascita del figlio di Dio.

– Allora siete in ritardo di un anno.- Replicò Giuseppe.

I tre magi si fissarono le punte delle scarpe, tossicchiando come smarriti.
Poi spiegarono che erano addirittura partiti in anticipo, per non trovare ingorghi al casello di Betlemme, ma solo una volta giunti a Biella, già in ampio ritardo, si erano resi conto che quella che avevano seguito non era la scia della stella cometa, bensì una scia chimica.

– Bando alle ciance.- Fece Giuseppe sfregandosi le mani.- Fuori i doni.

Il primo magio offrì oro, riscuotendo urla di giubilo da parte di Giuseppe; il secondo incenso, riuscendo a strappare appena uno smorfia a Maria.
Il terzo offrì mirra.

– Birra?- Squillarono all’unisono Giuseppe e Cristophere.

– No, no: mirra!

– E che è?

Il terzo magio arrossì in volto e bofonchiò qualcosa a bassa voce.
Sonanti invece furono le pedate, lì dove non batte la luce della cometa, con cui il falegname lo buttò fuori. In breve arrivò un nuovo magio interinale con contratto a progetto, ma almeno portò un paio di casse di birra e tutti poterono sbronzarsi felici e contenti.
Nazonaccia, scolo nevralgico del pattume imperiale, non era certo il Paradiso Terrestre dove far crescere un pargolo, tra tossici, puttane, ladri e i cani dell’Impero sempre più corrotti. Eppure Cristophere veniva su sano e forte.
Nonostante fosse figlio di immigrati s’integrò benissimo con gli altri bambini, drogandosi, rubando e molestando le lucciole con i suoi nuovi amichetti. Una dozzina che lo seguiva dappertutto, un po’ scalmanati ma tutti bravi ragazzi. Solo Giuda, con i suoi lineamenti delicati e quell’ambigua passione per i trucchi della mamma, metteva un po’ in difficoltà Cristophere, specialmente quando lo carezzava sussurrandogli: – Guarda che pettorali e che addome, hai proprio un corpo di cristo. Dammi un bacino, su, un bacino.
I problemi iniziarono con la scuola, specialmente quando Cristopehere prese a rispondere ai maestri, consapevole che non avrebbero potuto insegnare nulla al figlio di Dio.

– Qui le raccomandazioni non contano.- Era solito ripetere il maestro, scordandosi di un certo zio Tonino col posto fisso al ministero.

Il concetto stesso di istruzione obbligatoria lo soffocava, con l’intrinseca assenza di qualsiasi libero arbitrio. La scuola iniziò ad andargli sempre più stretta, anche perché nonostante le rassicurazioni della Protezione Civile, l’edificio crollava ogni morta di papa, ma essendo l’aspettativa di vita molto breve, era un bel casino ritrovarsi sempre in mezzo alle macerie. Così, nonostante le proteste dei suoi, decise di mollare gli studi.

– Allora te ne vieni in bottega con me.- Gli ordinò il padre.

Sfortunatamente, al perdere tempo con seghe e affini, Cristophere preferiva correre dietro alle maddalene, e anche come pescatore non ebbe grande successo. Tirava su e riportava a riva solo uomini, fregandosene delle acque territoriali e di qualsiasi confine deciso dall’uomo, e vedendo che era cosa buona e giusta creò le ong. Inutile dire che la sua attività non era ben vista né dagli abitanti di Nazonaccia, istruiti a dovere dalla propaganda di Erode su cosa pensare di tutti quegli sbarchi, né dai cani dell’Impero che un bel giorno silurarono la sua nave. Per fortuna schizzò sulle acque riuscendo a raggiungere la riva e quindi a salvarsi. Gli altri poveretti imbarcati con lui affogarono tutti, guadagnandosi dieci minuti d’indignazione e post solidali e gessetti colorati e poi il dimenticatoio.
Il tempo passava irrigidendo il clima intorno a lui. Essendo Nazonaccia un territorio che professava l’omertà come credo, in cui ognuno volgeva la testa dall’altra parte pur di non vedere certi intrallazzi, un giovane come Cristophere era indigesto ai più. Nessuno volevo ascoltare le sue invettive contro le piaghe da decubito sui culoni flaccidi degli spettatori di Erode, né farsi assillare con i vari “non desiderare la donna altrui” o “raccogli la cacca del cane”, tantomeno farsi convincere ad andare fuori a vivere la vita piuttosto che rintanarsi nel Tempio, il nuovo centro commerciale che andava per la maggiore. Anche i cani dell’Impero iniziarono ad essere stanchi, ogni volta che c’era una lapidazione arrivava quel giovanotto strambo urlando: – Scagli la prima pietra chi è senza peccato. E figuriamoci, quello era onnisciente, e in una periferia piccola come Nazonaccia i segreti avevano vita breve, così ognuno preferiva filarsela piuttosto che essere sputtanato in piazza, rovinando la festa a tutti.
La rottura vera e propria con la sua gente fu sancita dall’incidente alla discoteca Heaven. Pietro, il buttafuori alla porta, ritrovandosi davanti quella marmaglia mal vestita sbarrò l’ingresso del locale. Cristophere, che era già su di giri per via di certi funghetti rimediati dai suoi amici Esseni, sbottò afferrandogli la testa:

– Tu sei Pietro, e prima che il vocalist canti perla terza volta, con questa pietra spaccherò la console del dj.

L’energica comitiva forzò allora l’entrata riversandosi nel locale, scatenando l’effetto domino dei problemi a seguire. Erano tutti ragazzi di periferia, con le mani bucate e quindi senza un soldo, non potevano di certo permettersi alcuna consumazione alcolica. Come al solito, ci pensò Cristophere a risolvere il problema.
– Ecco la consumazione di Dio, che toglie la sete del mondo.- Urlò al bancone trasformando l’acqua in vino, la coca cola in cuba libre, i quattro bianchi annacquati in tre negroni belli carichi, per la gioia di Giuda e la disperazione di Ponzio Pelato, il manager della discoteca, e dei vari spacciatori di incenso e polvere d’angelo. Ne uscì fuori una festa come dio comanda, e a Cristophere gli ci vollero tre giorni e tre notti per risorgere dalla sbronza. Non fu un bel risveglio: gran parte dei pusher del quartiere ce l’aveva su con lui per avergli rovinato il mercato, i cani dell’Impero lo cercavano per non aver emesso fattura e Maria preoccupata lo mise sul primo lowcost che lo portasse via da Nazonaccia.
Gli anni passati a vagabondare si confondono con il mito. Alcuni studiosi assicurano abbia aperto un chiringuito sulle spiagge spagnole, altri che fosse il lavapiatti di un ristorante londinese, ma essendo già allora un peccato capitale preparare una carbonara con panna e bacon l’alternativa più credibile sembra essere un viaggio in India per ritrovare se stesso. Il problema per il figlio di Dio era che in quel paese ce n’erano un fottio, di divinità. E di reincarnazioni di Dio, E di concubine di Dio, e ne erano tutti felici. Un po’ meno i concubini, di Dio. Fu così che venne investito in pieno, prima da un tuctuc, poi dall’illuminazione.

– Siamo tutti figlio di Dio. Ognuno di noi è Dio, e può crearsi tutti i paradisi ed inferni che vuole.

Il suo misticismo di amore, libertà, rispetto, musica, poesia, dipingere corpi nudi in spiaggia all’alba, sorrisi a sconosciuti incrociati per caso, lo convinse a tornare a casa. Non per mandare avanti gli affari di famiglia, come sperava Giuseppe, né per tirarsene su una propria, di famiglia, sogno di Maria. La sua missione sarebbe stata il risveglio di tutti i suoi fratelli e sorelle. Avrebbe predicato l’amore e la consapevolezza, per risvegliare gli animi corrotti dalle leggi e dalle convenzioni degli uomini. Prese a girovagare insieme ai soliti amici arringando le folle con il suo credo.
– Beati i poveri, perché loro è i regno dei cieli.- Urlava, ma i più sognavano una multiproprietà ai Caribi e non molti gli diedero spago. Primo fra tutti Giuda, imprenditore in rampa di lancio che non gradiva le malsane idee del suo amico, nonostante continuasse ad ammirare quel corpo di cristo patendo le pene dell’inferno. Quindi il buon Giuda decise di non perderlo di vista, sabotando la sua campagna d’illuminazione.
– E’ più facile che un cammello passi per la cruna di una ago, che un ricco entri nel regno di Dio.- Proclamava Cristophere, e Giuda con un rapido giro di chiamate ai suoi amici palazzinari fece costruire aghi di cinquanta metri, ecomostri di ferro e cemento per la cui cruna sfilavano lisci lisci non solo i cammelli, ma anche il suo mega yacht e quelli dei suoi compari.

– Se ci amiamo gli uni con gli altri,- esortava il messia – Dio rimane in noi.

Giuda passando tra le file più lontane dal maestro, ripeteva: – Sbattitene degli altri e fatti i cazzi tuoi. Così l’ampio messaggio di Cristophere prese ad essere travisato.

Diceva: – Ama il tuo prossimo come te stesso.

– Gli immigrati nel cesso.- Correggeva Giuda mischiato tra la folla.

– Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

– Beati programmi di Erode che cancellano la noia.

– Sfamate gli affamati e dissetate gli assetati.

– Con le offerte di McDonald è anche più facile.

– Non giudicate e non sarete giudicati.

Beh, questo fu il messaggio che arrivò più chiaro, viste tutte le grane giuridiche che avevano Giuda e i suoi amici.
Il seguito di Cristophere cresceva sempre più, pari passo al malumore delle istituzioni e delle grandi aziende, che registravano dissensi in ascesa e profitti in picchiata. Eppure questo non bastava al rivoluzionario di Nazonaccia, che decise di abbinare le sue prediche a esibizioni da like and share, rispolverando quei miracoli che tanto gli erano costati in gioventù.
Si recò allora fuori l’ospedale più vicino e guarì tutti i lebbrosi, ma Giuda, sempre sulle sue tracce, insinuò l’utilizzo di metalli pesanti aizzando il malumore perfino nei miracolati. Fu così che la folla si ribellò contro Cristophere, compresi gli stessi ex-lebbrosi, e al grido di “ No vax!” lo riempirono di mazzate. Il messia non era tipo da abbattersi, così continuò il suo peregrinare, e trovandosi dinanzi al funerale di un ricco mercante, urlò alla sua tomba: – Lazzaro, alzati e cammina.
La tomba si spalancò, e ne saltò fuori un vecchietto arzillo e raggiante.

– Sono tornato, merde!

E le merde, i vari parenti non più eredi della sua fortuna multimiliardaria, non la presero bene, e riempirono Cristophere di mazzate, a cui si aggiunsero quelle dei finanzieri indispettiti dal suo favoreggiamento al falso invalido. Le cose non andavano per il meglio, per il messia era l’ora di giocarsi l’asso nella manica, e decise di giocarselo in casa. Organizzò una mega festa per promuovere la sua predicazione, con tanto di musica, balli, sballo e buffet. Per sua sfortuna, ad occuparsi del catering fu Giuda e va bene estasi e trance mistica, ecstacy e trans moschisti, ma ritrovarsi al buffet con due tramezzini al tonno e nulla è una bestemmia. La gente era ubriaca, affamata e iniziava ad innervosirsi. Senza perdersi di spirito il maestro guardò la folla, impose le mani e moltiplicò i pani e i pesci. Neanche Giuda era un tizio arrendevole, e sempre mimetizzato nella folla, prese a baccagliare: – Non è giusto, io non mangio pesce, sono vegano. E un mormorio contrariato si levò dalla folla.

– Io sono celiaco, non mangio pane.

Il mormorio divenne protesta e poi baccano indemoniato.

– Io sono respiriano, tutta questa gente mi leva il cibo di bocca.

Cristophere rimpianse il posto come lavapiatti.

– E la tracciabilità degli ingredienti?

– Io mangio solo bio a chilometri zero?

– E che vuol dire?

– Non lo so, ma suonava bene.

– E’ vero, suoniamogliele per bene.

E niente, in un attimo centinaia e centinaia di persone, innervosite dalla fame e sballate dall’ecstacy e sobillate da Giuda caricarono il maestro e lo gonfiarono di botte.
La degenza per riprendersi dalle varie fratture fu lunga e dolorosa. Cristophere era stanco e sconsolato, ignorava perché il suo messaggio venisse costantemente frainteso. I suoi amici più stretti vedendolo ridotto come un povero diavolo, decisero di organizzare una cena in suo onore.

– Per quanti prenoto?- Chiese Matteo.
– Per dodici, Giuda non ce lo voglio.- Intervenne Luca.- Ogni volta che c’è lui in giro succede qualche casino.
– Già, sta sulle palle anche a me.- S’accodò Giovanni.- Niente Giuda, fosse l’ultima cena che organizziamo.

E così si ritrovarono intorno ad una lunga tavolata, a bere e mangiare e ridere e scherzare. Tutti tranne Giuda, di cui nessuno aveva messo in conto un passeggiata serale che lo conducesse lì per caso, ad imbattersi in loro rimanendoci di sale. Giudo vacillò, si resse alle mura in fango e guano della locanda. Tutti i suoi presunti amici intorno a quel bonazzo di Cristophere, che, già brillo a metà cena, sollevando una bruschetta al lardo di colonnata e un quartino di rosso si lanciò in uno dei suoi soliti sketch.

– Questa è la mia carne e questo è il mio sangue, prendete e mangiatene tutti, e fanculo i vegani.

La locanda venne scossa dalle risa degli avventori, tutti abbastanza ubriachi da trovare esilarante quella misera gag. Unanimità che escludeva Giuda, lesto a riprendere la scena con lo smartphone e correre a tradire il suo vecchio amore. I Nas fecero irruzione nella locanda e fermarono Cristophere con l’accusa di cannibalismo. Lo misero in croce tre giorni per farlo confessare, ma lui non spiccicò parola, certo che il continuo predicare amore e perdono avrebbe spinto i suoi seguaci a ribellarsi contro quella ennesima assurda ingiustizia.

Invece niente.
Nessuno protestò. Nessuno alzò la voce.
Nell’indifferenza più totale, i suoi amici e tutti i suoi seguaci ne approfittarono.
Chi concesse diverse interviste urlando alla telecamera che era sempre sembrato una brava persona.
Chi confessò di aver sempre nutrito dubbi su di lui, come fece Giuseppe.
Chi denunciò tocchi in fuorigioco sotto la doccia dopo il calcetto.
Chi addirittura raccontò di festini privati a base di carne umana e sangue di vergine.
Giuda intraprese perfino un commercio di souvenir dal dubbio gusto: corone di spine in plastica con led a 200w, statuette di Maria che piangeva sangue con un Cristophere neonato che le leccava via, medagliette con su inciso “sono sopravvissuto al cannibale di Nazonaccia”.
Un minimo di sollievo lo provò vedendo quei fiumi di persone in processione verso di lui, magari per confortarlo, per gridare all’ingiustizia. Quando si rese conto che si trattava dei soliti turisti della tragedia, accorsi a flagellarlo con i flash dei loro selfie, a pagare per strizzargli l’aceto in gola, alzò gli occhi al cielo e sospirò la celebre frase:
– Perdonami padre, era meglio se che mi facevo i cazzi miei.
Il cielo lampeggiò d’elettricità condensata, le nuvole si diradarono e una voce tuonò:
– E che vuol dire?
– Non lo so, ma ci stava bene.

365 giorni, Libroarbitrio

Volevo solo morire e invece sono morto – DuediRipicca …a Prato!

Domani Sabato 26 novembre Racconti nella Rete sarà a Prato
alle 17:00 alla libreria Giunti presenti alcuni dei vincitori del premio letterario con intervento di Demetrio Brandi.
Sarà proiettato il cortometraggio “Tale padre tale figlia” di Alex Creazzi, vincitore della sezione corti 2016. Le letture saranno a cura di Lorella Paola Betti e Alessandra Giuliana Marson dell’associazione culturale Nuova Colmena.
Accompagnamento musicale di Marzio Matteoli.
Vi aspettiamo!

365 giorni, Libroarbitrio

Il lunedì di LuccAutori – Il mio dentista – Andrea Serra

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Il mio dentista si chiama “il mio dentista”.
Era il dentista di mia madre e poi è diventato il mio.
E quando telefono per prendere appuntamento, sono talmente incarognito e depresso che non mi viene proprio in mente di dire all’assistente: “buongiorno, mia madre non mi ha mai voluto rivelare il nome di battesimo del dentista. E’ una questione di vita o di morte, me lo dica!”
Il mio dentista mi fa accomodare.
Mi mette il tovagliolo al collo e la cannula aspirasaliva in bocca.
Chissà come mai al mio dentista viene sempre da farmi qualche domanda quando ho la cannula in bocca.
«Lavora sempre all’Università?» mi chiede.
Il mio dentista mi conosce da più di vent’anni e non ricorda mai che da una vita non lavoro più all’Università. Che poi non ci lavoravo neanche allora. Ero solo un grigio e inutile dottorando del corso di laurea in filosofia.
Ma il mio dentista è appassionato di filosofia. E quindi per lui io lavorerò all’Università per sempre.
«Vo, vov vovovù avevvivà, vo vivenvo uiivo.»
Chissà come mai il mio dentista capisce perfettamente quello che dico quando ho la cannula in bocca.
Forse capisce solo più se gli parli così. Sta anche tutto il giorno con gente nella mia stessa condizione, poveraccio.
E quasi sicuramente, per fare due parole a cena, metterà anche a sua moglie una cannula in bocca.
Il mio dentista si illumina.
I due cerchi dorati ed enormi dei suoi occhiali brillano sotto la lampada.
«Sta scrivendo un libro? Bene, benissimo, lo sa cosa deve fare? Non deve fare un finale, ma tre finali, anzi, cinque finali, meglio ancora! Perchè ogni lettore dovrà decidere in base al proprio libero arbitrio quale finale preferisce, anche se poi tutti i finali sono già scritti, perchè tutti i destini sono già scritti e quindi non c’è libero arbitrio!»
Il mio dentista ha le idee confuse.
Il mio dentista è un uomo sulla cinquantina, senza barba e senza peli, con gli occhi azzurri e la pelle pallida e tumefatta. È vegano e parla solo di cibi naturali e reincarnazioni.
L’odore di disinfettante mi invade le narici e la luce in faccia mi acceca.
Il mio dentista mi trapana il molare e mi consiglia caldamente di spedirmi il manoscritto a casa con ricevuta di ritorno. Qualcuno potrebbe rubarmi l’idea, dice. E’ pieno di brutta gente in giro e devo stare attento.
Il mio dentista non si placa.
Mentre mi fa l’anestesia per estrarre il dente che ha già curato mille volte e che adesso è ufficialmente in putrefazione, mi consiglia di leggere un po’ di libri che mi potrebbero servire.
«Legga sopratutto Aïvanhov, lei lo conoscerà sicuramente. E’ un maestro contemporaneo e non ha mai scritto nulla, come tutti i maestri d’altronde, perché teneva solo conferenze, che sono poi state trascritte dai suoi discepoli. Lo legga, mi raccomando, lui ha detto tutto, tutto quello che è presente nell’universo. Provi a partire da qualcosa di breve, non so, dall’Opera omnia ad esempio.»
Vorrei dire al mio dentista che leggerò tutto, ma proprio tutto quello che vuole. Ma ho la bocca completamente insensibile. E mi gira la testa.
La poltrona e lo studio tremano.
Dev’essere un terremoto o una tempesta di asteroidi. Mi sporgo e vedo dal finestrino che stiamo attraversando la nebulosa di Orione.
Il mio dentista deve avermi fatto una di quelle anestesie che si usano in Tibet per sedare gli yeti molesti.
Il mio dentista mi consiglia altri venti maestri che potrebbero aiutarmi, indipendentemente dal fatto che il mio libro sia un manuale naturalistico sui girini zoppi del Madagascar o un romanzo pulp sulle foche monache del Molise.
Il mio dentista ha preso un martello pneumatico ed è convinto di dover fare dei lavori di rifacimento sul tratto autostradale che da questo momento passa per la mia bocca.
Il mio dentista perde lucidità.
Ha deciso che vuole spaccarmi la faccia e mi prende a martellate.
Devo aver fatto qualcosa di molto brutto a sua madre o a sua sorella.
Il mio dentista impugna un revolver e mi spara in bocca. Poi con un cacciavite arrugginito prova ad estrarre il proiettile dalla gengiva.
Il mio dentista ha stretto un accordo con la ferramenta dietro l’angolo e si mette a provare tutti i tipi di tenaglie del mondo perché altrimenti la ferramenta gli ritira la sponsorizzazione.
Il mio dentista è posseduto dal demonio. Ansima e si muove come un ossesso.
Il mio dentista è in preda ad un raptus omicida.
Prende un punteruolo e prova a soffocarmi.
Il mio dentista è fuori di sé e straparla.
Con una voce metallica parla di infezioni ai canali e di fili ai salami.
Il mio dentista ha deciso di cambiare lavoro.
Da grande vuole fare l’agopunturista e così, per fare un po’ di pratica, prende degli aghi vecchi dalla scatola di ricamo di sua nonna e me li pianta in bocca.
Io provo a sbracciare per dirgli che non riesco più a respirare, ma lui non mi vede.
Dalla luce della lampada esce un alieno arancione che mi intima di stare calmo, perché gli aghi cureranno la mia anima e mi aiuteranno ad essere una persona migliore.
Dopo dieci anni luce e dopo aver rivisto più o meno trenta volta il film completo della mia vita, il mio dentista mi dice che posso sciacquare. Ha finito.
Sul suo cassettino ci sono brandelli della mia mascella.
Il mio dentista si toglie i guanti insanguinati e mi guarda fisso con le sue pupille azzurro chiaro.
Rimane immobile per diversi secondi.
Lo guardo attentamente e noto che ha smesso di respirare.
Il mio dentista è morto.
Oppure il suo spirito ha abbandonato la materia ed è partito per un viaggio astrale.
Il mio dentista sta per rarefarsi da un momento all’altro e il suo corpo è vicinissimo all’evaporazione.
Il mio dentista ha la pelle di un neonato e di un vecchio prossimo alla morte.
E, non so perché, mi ricorda un verme gigante albino che vive sottoterra.
Sarà per la sua testa oblunga o per il cocktail di droghe e barbiturici che ha definito “leggerissima anestesia che le ho fatto”.
Improvvisamente il corpo diafano ed emaciato del mio dentista viene rioccupato dal suo spirito.
Il mio dentista riprende a parlare. Come tutti i grandi maestri vuole salutarmi con una battuta.
Mi dice che la cosa più importante è l’istante della morte, della propria morte. L’ultimo pensiero che si ha prima di morire. Perché lì si decide la successiva reincarnazione e quindi il livello del karma. E la storiella riguarda un tizio in India che aveva deciso di pensare ai suoi figli al momento della morte, per aiutare i figli ad evolversi o per qualche altro motivo che non comprendo per via dell’anestesia e del sangue che sta invadendo il cotone che ho in bocca, che durerà per un paio di giorni e non riuscirò più a mangiare e avrò un male cane e sarà l’inferno. E vorrei dire al mio dentista che non me ne importa proprio niente della sua storiella, perché mi sono già messo la giacca addosso e voglio solo andarmene a casa a soffrire in silenzio, ma lui ci tiene proprio a concluderla.
«Sa come finisce la storia del tizio in India? Che al momento della sua morte, mentre guarda i figli che sono attorno al letto, gli viene in mente che nella bottega non è rimasto nessuno perché i figli sono lì con lui e proprio in quel momento muore. E così rimane inculato.»

Racconto “Il mio dentista”  scritto da Andrea Serra
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “Il lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi
in tutte le librerie a distribuzione nazionale

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365 giorni, Libroarbitrio

Shhh! – L.L.

Lié - 1- 1- '16

UE’ VICINA! AUGURIIII! LA VUOI UN PO’ DI LENTICCHIA?

Erano passati cinque minuti alla mezzanotte. L’aria striata da polveri pirotecniche a dipingere un fantasmagorico inizio anno. E tu Lié in balcone, sola,  tra la foschia e le ultime scintille di una stella filante davanti gli occhi. Quasi mi viene da dire te lo avevo detto. Cinque ore prima davanti agli occhi avevi un guazzabuglio di messaggi sul display del cellulare che ti domandavano dove fossi finita, che il duemilasedici sarà un anno indimenticabile e speciale come tutti gli anni precedenti, che in effetti sono stati sempre tutti estremamente indimenticabili, insomma un mucchio di parole inviate da un oggetto piccolo ad una così piccina mente dove l’unico pensiero che aleggiava, figlio unico a spasso nella materia grigia, (anche se tendenzialmente credo che la tua di materia sia più una mille colori), era non avere paura non resterai sola, non avere paura non resterai sola, non avere paura, non resterai sola. E allora sbrigati e non stare lì a sospirare. Jeans, reggiseno, rimmel e, lo specchio. No. No no no non ti guardare, non c’è bisogno, fallo fare a me, dai, io vado a memoria, su spazzolati i capelli e via , esci da qui, esci forza, esci ti ho detto. E invece. Ti sei immobilizzata. Davanti lo specchio. Una statua di sale. Ed io eccola lì. E dai, ti ho detto non guardarti nel riflesso, fai così, senti a me, rispondi ai messaggi, scrivi: arrivo, sono quasi pronta, vi raggiungo, ci vediamo lì, eccomi. Dai è facile, datti una mossa, con quelle dita piccole, forza, no no no no no , non ti guardare allo specchio. E noi eccoci qui. Vuoi rovinare tutto? E’ che. Ohi, te lo dico subito – Non mi va di starti a sentire ora. Sai non so se è più forte la tristezza che ci facciamo per come riusciamo a mascherarla, la tristezza. Parla per te. O se è più forte la paura che è tanto forte quanto il temer d’essere abbandonata, dimenticata. Mica ti capisco io a te, mi sono persa, sei complicata, hai capito! Zitta. Finisci di vestirti e filiamo. Mi dispiace. Ma da qui non ci muoviamo. Così, per una buona volta, impariamo a non avere più paura di stare sole. Senti, ti ho detto parla per te. Infatti parlo per me, e siccome parlo sul serio da adesso farai quello che dico io. Scriviamo così: ragazzi grazie, siete sempre gentilissimi con me, vi amo tutti, amo tutto il mondo e l’universo con le stelline vere che brillano in cielo, ma io ho deciso che me ne starò a casa, tranquilla tranquilla, non vi offendete vi prego, auguri a tutti! Ti odieranno e resterai sola. Naaa. Piuttosto mettiamoci un maglione, prendiamo la bottiglia dal frigo, il pacchetto di stelle filanti e andiamo a sederci in balcone. Come in balcone? da sola? Io non ho più paura di stare sola. Ma fa freddo e poi già da adesso? Mancano tre ore alla mezzanotte, accendi la radio, che ne so, prendi il cellulare per controllare l’ora. Prendiamo l’accendino per le stelline filanti, e il libro di Gogh lì sul tavolo, e la penna e il quadernino, non abbiamo bisogno d’altro, e poi non c’è da preoccuparsi, credo che ce ne accorgeremo quando scoccherà la mezza.

ALLORA? QUI STIAMO FESTEGGIANDO, VUOI SALIRE?
Di’ sì! Accetta cavolo! Shhh! 
NO, STO BENE QUI MA GRAZIE. E FELICE ANNO NUOVO!