365 giorni, Libroarbitrio

FRIGORIFERO MON AMOUR – ANDREA SERRA – MIRAGGI EDIZIONI

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POKER D’INCUBI E’ AL SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DI TORINO UN DOPPIO APPUNTAMENTO CON GIANLUCA PAVIA & LIE’ LAROUSSE – 2dR –

Presso lo stand G130, Padiglione 2, Alter Ego Edizioni e Augh Edizioni fino al 22 maggio, e oggi alle 17:20 saremo ospiti con il Premio letterario Racconti nella Rete al “Superfestival” la prima vetrina dei Festival culturali ospitata all’interno della XXX edizione del Salone del libro di Torino. Saranno presenti il Presidente del Premio Demetrio Brandi ed alcuni autori vincitori del premio che parleranno della loro esperienza letteraria e dei racconti inseriti nell’antologia Racconti nella Rete edita da Nottetempo. Brandi illustrerà la nuova edizione del premio riservato a racconti brevi e soggetti per cortometraggi.
Vi ricordiamo che il termine ultimo per l’invio del materiale al Premio Racconti nella Rete 2017 è il prossimo 31 maggio
Gianluca Pavia Lié Larousse DuediRipicca
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I Lunedì di LuccAutori – Invito a partecipare alla XVI edizione del Premio Letterario Racconti nella Rete 2017

“E ancora le mezzo sorridi mentre Uno-con-il-telecomando urla: – Viva la vita, a morte la Dolce Morte”.
E Mezzo, sorridi, mentre pensi che volevi solo morire e invece…
L’esplosione ti strappa al tuo Mezzo pensiero.”
 
Con “Volevo solo morire e invece sono morto” di DuediRipicca chiudiamo I Lunedì di LuccAutori, restando in attesa dei nuovi racconti che verrano premiati in autunno vi presentiamo il servizio dedicato al premio Racconti nella Rete, a noi e agli altri vincitori del 2016. Vi invitiamo a partecipare alla XVI edizione del concorso con scadenza 31 maggio 2017, non perdete questa occasione e non perdetevi una delle nostre copie
IN BOCCA A POKER D’INCUBI!
 
Continuate a seguirci su FB e sul nostro blog http://www.libroarbitrio.com da domani tante novità per scrittori, editori, musicisti e pittori, ma anche per voi lettori e per chi semplicemente si lascia coinvolgere dal tutto della vita
 
Gianluca Pavia-Lié Larousse
Demetrio Brandi-nottetempo
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I Lunedì di LuccAutori – Cent’anni di troppo – Dora Argento

Una-scena-del-film

Se non avessi avuto le bretelle rosse, quelle  fosforescenti che mi hanno regalato per Natale, quest’ora sarei -bello tranquillo!- nel mio nascondiglio, sotto il letto della camera degli ospiti, che è sempre vuota.

Papa’ e Mamma sarebbero partiti soli , con quella lastima di mio fratello Nuccio e io me ne sarei potuto  andare a fare  la gara in pace.

“ …e ci giocherai un’altra volta” dice Mamma.

Certo, che ne sa lei che non era una gara qualsiasi, per lei sono tutte uguali, non distingue manco un monopattino da un triciclo, figuriamoci…

”Leva di mezzo  quel “coso” con le ruote, Nonò!”

E Papà mi ha pure infilato in macchina arrabbiato senza farmi prendere  le figurine di Dragon ball che almeno ci passavo tempo invece di  stare qua, chiuso in macchina , con quel frignone di Nuccio che vuole tutto lui e che ha già vomitato una poltiglia verde, come sempre quando è in macchina!

Lo sapevo che non me le dovevo mettere oggi, mannaggia…

Papà le ha viste, anche se eravamo al buio, e mi ha trascinato fuori da sotto il letto, tirandomi per le bretelle che poi, quando le ha lasciate, mi hanno dato una schioppettata sulle spalle che mi fa ancora male .

Aveva la faccia da “teledosenonlafinisci” e quando c’ha quella faccia, severa e scura, non dico niente, ma se nò glielo dicevo che io non ci volevo andare, che avevo la gara più importante di tutta l’estate e che se non ci andavo io avrebbe vinto Peppe, sicuro, sicuro!

Tutto per colpa di una vecchiaccia,  di cent’anni poi!

A quest’ora hanno già iniziato, sono le quattro; a quest’ora sono già in cima alla salita, tutti e tre: Lorenzo con lo skate  rosso, Nello con  quello che usa per le gare, verde e giallo, e quel cornuto di Peppe col suo “mitico” blu; a quest’ora si stanno lanciando giù come pazzi; a quest’ora vedono gli alberi che gli passano accanto velocissimi che manco si capisce che sono proprio alberi, sembrano macchie verdi che si allargano e si stringono, che si rincorrono, una dietro l’altra e che invece poi quando ti fermi, che sei arrivato e ti giri, sono tornati al loro posto, anzi non si erano mossi mai.

Invece io sono legato come un salame con la cintura di sicurezza e Papà pure che si lamenta se metto i piedi sullo schienale

“Stai fermo coi piedi…che così sporchi la macchina nuova”.

La riempirei di calci io questa stupida….non poteva fare che non partiva così ce ne potevamo restare qua?

A quest’ora stanno risalendo dopo la prima discesa – perché la gara finisce dopo dieci discese libere  –  e a quest’ ora sarà arrivata  Susanna, tutta rosa, col cerchietto in testa, e  con quelle altre sceme delle sue compagne, rosa pure loro, sempre con le borsette in mano. Ma che ci mettono poi in queste borse microscopiche che non ci entra manco una pistola ad acqua, bleah! E, a quest’ora, di sicuro mi stanno prendendo in giro: “…Nonò  se l’è squagliata, Nonò è un fifone…tanto si sa che perdeva…”. A quest’ora.

Se c’ero altrochè se perdevo… ma “quella”, da quando le ho detto che fidanzarmi con lei mi fa schifo si vendica parlando male di me! Con quella bocca tutta inserragliata , con la gabbia metallica che quando ride pare la finestra del convento delle suore dell’asilo , quelle che non escono mai!

E tutto per andare a trovare una vecchia decrepita.

Ma che me ne frega a me di una vecchia rincretinita, senza denti, anzi coi denti tutti cariati, che quando parla sputa a raggiera, mezza ceca, senza capelli, tutta curva col bastone e i piedi con cento calli tutti rattrappiti che manco può camminare, anzi forse la portano sulla barella perché è paralitica e c’ha tutti i fili che escono da tutte le parti come nel telefilm dei medici che si vede la Mamma! Che ci stiamo andando a fare? “Una festa per la prozia che  fa cento anni e l’andiamo a festeggiare”.

Ma che c’è da festeggiare  quando hai cento anni, sei vecchia stravecchia,  non capisci più niente e non ti ricordi manco come ti chiami. Come la nonna di Gino che gli chiede ”E tu chi sei?” ogni volta che quel mischino attraversa la stanza.

Hai fatto cent’anni? Va bene, brava, adesso muori e ci lasci in pace.

Però, che idea…e se morisse ? Subito però, all’inizio della festa, cosi’ ce ne torniamo e magari sono ancora in tempo per rifare la gara…?

Se torno prima delle otto posso dire che avevo capito che la gara si faceva di sera, alla rinfrescata. Devo pensare ad un modo sicuro però.

Ecco, se la trovassi che dorme come in questo momento Nuccio, con la bocca aperta, potrei infilarle un imbuto con un veleno potentissimo che la stecchisce subito. Tanto quando uno è vecchio si sa che può morire da un momento all’altro, non si stupisce nessuno . Non è che chiamano la Polizia per un morto di cent’anni!

Oppure, se cammina ancora, potrei farle uno sgambetto mentre scende le scale. Pure che non muore, anche che va all’ospedale…a me basta che la festa non si fa e ce ne torniamo a casa in tempo. E se non ci sono scale in quella casa? Potrei tendere un filo da una parte all’altra della stanza. Quando sono vecchie , che sono incartapecorite, si rompono subito, non ci vuole niente. Come i grissini, tac!

Miii! Mi sto ricordando della zia di un mio compagno che è morta “perché aveva troppi zuccheri”. Questa sarebbe facilissima: potrei comprare tanti pacchi di zucchero e regalarglieli e dirle “Questo è un regalo per te, sono tutti tuoi”. Lei li prende e muore.

Ma tanti quanto? Non è che si muore per un pacco di zucchero. Quando con la mamma andiamo al supermercato ne compriamo almeno tre e non è morto mai nessuno…ce ne vorranno centinaia…

No, questo non va bene, Papà mi metterebbe in croce e forse pure la Polizia:  “…e tu perché le hai regalato tutto ‘sto zucchero?”, “Per il suo compleanno”…ma figurati, lo sa che manco ci volevo venire, sarei il sospettato numero uno. No, farla cadere è la cosa migliore, magari con una spinta.

“ Nuccio finiscila! Mamma lo fai finire a Nuccio, mi tira il cravattino di Batman! Me lo rovina!”

“E dai Nonò lo sai che è piccolo, un po’ di pazienza…”.

E certo, solo io la devo avere. Quando le vomita sul vestito nuovo, come l’altra volta che doveva uscire con Papà per fare pace dopo la litigata che si erano fatti e si era messa tutta scollata , allora la pazienza la perde pure lei…

E’ che Nuccio non è un bambino , è una “macchina del pianto con vomito automatizzato”, premi: “wuah”, premi: “wuah, premi……..Che idea! E se raccogliessi il vomito di Nuccio  e lo versassi addosso alla prozia, tutti penserebbero che sta male e chiamerebbero subito l’ambulanza: ua   ua ua ua ua ua uauaua …

E vai! Questa mi piace.

“Mamma, lo posso conservare il vomito di Nuccio? Così mi ricorderò sempre di quando era piccolo…”

“Nonò non dire scemenze, scendi, siamo arrivati.”

Papà, tenendomi dal collo “così non scappi”, mi spinge verso un grande portone di legno scuro  e inciampo sulla soglia di un pavimento bianco e nero che pare una scacchiera gigantissima! Mentre Mamma consegna alla cameriera il regalo, un pacco piccolo, che forse sarà una dentiera per la prozia, io immagino di essere il mio pezzo preferito – il cavallo nero- e mi ingrugnisco, cercando di allungare il mento e i denti in fisionomie cavalline  ma papà, pensando che faccio il verso alla cameriera -che di equestre però non ha niente assomigliando più a un panda grassoccio, per le occhiaie stratosferiche che si ritrova! – mi stringe il collo accompagnandolo da un “finiscila!”, sibilato fra i denti, che pare una lama ghiacciata.

Entriamo in un salone che se non è grande come il campetto dietro la scuola poco ci manca. Un sputo -di quelli buoni- di Saro, non arriverebbero al tetto e per una partita a calcetto l’unica cosa che si dovrebbero eliminare sono queste quattro colonne in mezzo – tutte a righe!- assolutamente inutili.  Si vede che chi ha costruito questa casa non ha pensato alle cose più elementari!

Vedo subito quello che cercavo per il mio piano: una scala che porta al piano di sopra con un corrimano tanto largo che potrei scivolarci con tutti e due i piedi uniti. E’ fatta! Con una bella spintarella la prozia  i gradini se li fa tutti, sicuro sicuro! Appena arriva…

Questo salone è gigantesco, pieno di cose strane: in centro c’è una tavola lunghissima con una tovaglia tutta buchi come la groviera,  di quelle che mamma dice che si mettono ogni morte di Papa perchè costano un sacco.

Oggi di Papi mi sa che devono esserne morti almeno due!

Dal tetto poi,  pende una specie di ancora, forse un lampadario, con cui verrebbero benissimo gli arrembaggi sulla nave nemica. Insomma se qui ci venissi con tutta la banda saprei bene cosa farci .E  la vecchia… la leghiamo al lampadario e ci giochiamo a freccette! Forte!

Siamo i primi ad essere arrivati e della prozia neanche l’ombra, magari è già in fin di vita e fra poco scenderà uno di quei medici col naso a becco, gli occhiali tondi e i vetri spessi come le biglie che ci darà la notizia con voce da gufo , guardandoci con lo sguardo inquisitore e  sperando che magari qualcun altro si senta male.

Mamma lo dice sempre che sono come i vampiri, che è meglio starne alla larga!

Papà, tenendomi sempre stretto il collo, mi spinge verso un divano “sprofondoso” di una stoffa rossa a fiori neri un po’ vecchia, con le molle rotte .

C’è n’è una specialmente che mi  preme proprio sul culo e sento la punta che mi buca i pantaloni. Cerco di spostarmi ma papà, pensando che voglio alzarmi, mi spinge verso il basso con la sua mano forte. Sono fregato, non mi posso muovere da qui e l’unica cosa che posso fare è guardarmi i piedi, stretti nelle scarpe nuove, che si muovono dondolando avanti e indietro, tutti ci annoiamo a morte! Con la mano però seguo i disegni della tappezzeria che sono più in rilievo e che mi portano ad una scucitura dove infilo facilmente il  mignolo. La scucitura è ruvida,come se ci fossero fili metallici ma, dentro, il dito sprofonda nel vuoto e finalmente trovo la molla fastidiosa. Cerco di allargare il buco per poterci infilare almeno due dita e ci sto lavorando bene quando un pizzicotto caldo e doloroso mi fa venire la scossa. Mamma se n’è accorta. Non posso fare manco questo.

La cameriera-panda si avvicina , portandosi dietro l’odore di fritto dalla cucina, e offrendoci un vassoio d’oro con degli orribili pasticcini a forma di cuore tutti zuccherosi – fatti da una cuoca femmina,  sicuro!- che si appiccicano uno sull’altro. Sicuramente ne avrà mangiato qualcuno perché le sue dita grasse, con le unghia tutte mangiate come quelle della mia compagna Geppa,  hanno tracce di zucchero sulle punte dei polpastrelli. Secondo me se li è anche sleccazzatitutti e poi li ha rimessi sul vassoio –come faccio io, ma solo con quelli di cioccolato però!- perché vicino alla bocca c’è traccia di unto misto a zucchero in polvere . Quando passa da me la fulmino:“Non ne voglio!” e mamma mi comincia una predica -di quelle che sono come quando catturi un ragno, che più lo allontani e più lungo è il filo di bava-  sull’importanza dell’educazione, che si dice sempre grazie, che bisogna stare al proprio posto bla bla bla… e mentre parla aziono il dispositivo che ho nel timpano per disinnescare l’udito e la guardo mentre apre e chiude la bocca come un luccio fuori dall’acqua – tutta brillante con il vestito nuovo argentato- e le sopracciglia che si arcuano o arrotondano a seconda che mi implori di fare il bravo o che mi minacci.

Un suono improvviso mi stappa automaticamente le orecchie e interrompe mia madre dalla predica , lasciando  il ragno dondolante appeso al labbro, incerto se tornare indietro. E’ il campanello, una specie di clacson gracchiante a volume altissimo – la prozia deve essere assai sorda- che preannuncia l’entrata di una comitiva di “Decrepiti in visita al Museo dei Fossili”, gli amici della prozia, come mi spiega la mamma.

Entrando consegnano i loro regali al solito panda che se ne va traballando  come un equilibrista. Il più giovane avrà  circa 200 anni.

Tutti insieme sembrano una ragnatela gigante. Il primo gruppo di rughe inizia sulla prima vecchia, una signora  con una gobbetta  che muove il collo in avanti e indietro come le tartarughe e, attraversando pance sballonzolanti, vene varicose che sembrano i fiumi di una carta geografica, doppiomenti cascanti come lenzuola stese al sole sbattute dal vento, passi zoppicanti, dentiere traballanti, chiome sparute ed elettrizzate come una foresta dopo un incendio e piedi deformati con le dita tutte litigate fra di loro, finiscono sulla nuca di un vecchio tanto magro che la giacca  sembra vuota,come appesa a una gruccia.

Ma poi -dico io- in mezzo a tutti questi nonni, neanche un bambino con cui giocare ! Fortunatamente , dalla porta della cucina, entrano una fila di vassoi odorosi di forno  con un sacchissimo di cose da mangiare, il tavolo si riempie in un baleno ma, per prima, avvisto una montagna di patatine fritte croccanti su cui mi piombo. Il panda le avrà sleccazzate? Ma dai! ci vorrebbe un mese a sleccazzarsele una per una…me ne frego e , infatti, sono buonissime.

Vedo il passeggino di Nuccio in movimento, si sarà svegliato e avrà fame e Mamma non se n’è accorta – è impegnata con un fossile che deve aver preso la scossa perché trema tutto- forse è arrivato il momento di fargli assaggiare qualcosa di buono. Preparo una merenda super con patatine, maionese , marmellata, olive, caponata- tutto ben mescolato- fette di limone e una spruzzata di aranciata sopra e la porto a mio fratello che mi aspetta con la bocca già aperta, infilo un boccone del miscuglio e mi diverto a vedere la sua faccia che pare un fumetto: si contorce  tutta quando becca il limone aspro o si bea a succhiare la maionese dal pane. In mancanza d’altro anche mio fratello può essere divertente e gli faccio leccare anche una patatina dal mio piatto, altro che pappine, per questo le vomita! .

Ce ne stiamo tranquilli a mangiare in un angolo e faccio in tempo a togliere tutto e pulirgli la bocca prima che torna mamma.

“Due piatti ? Ti sei abboffato Nonò, non è che poi ti senti male?”

Con la bocca fatta di sale , pregusto le altre cose che mangerò: panelle, pizzette e una montagna di dolci al cioccolato, il resto lo lascerò alla comitiva che intanto si è trasformata in uno sciame di cavallette affamate.

Evidentemente lo stomaco funziona a tutti.

Mi parlano di sopra , tutti un po’ gridando e molti non sentendo e, da una parte all’altra del tavolo, sfrecciano tanti “come-cosa- che hai detto?” che , anche se non raggiungono il bersaglio giusto, vanno bene un po’ per tutti , e comunque non si fermano e continuano a riempirsi il piatto e poi… ridono, ridono tutti.

Che c’hanno poi da ridere? Forse quando uno sa che sta per morire  è contento perché è ancora vivo…

Mio nonno , l’anno scorso, quando mi ha chiamato che voleva vedermi subito era a letto da diversi giorni ma mi disse di correre, che aveva urgenza di raccontarmi una barzelletta -che lo sapeva che io ci faccio la collezione- e me la raccontò facendo le facce buffe, come sapeva fare lui, e non riusciva a finire perché ridevamo tutti e due come scemi. E poi è morto. Si chiamava Antonio, come me.

“Nonò, non mi senti? ma che fai, dormi? Guarda , c’è una cosa per te!”

Alzo gli occhi e lo riconosco subito: uno skate  con le ruote pluridirezionali, le testine di acciaio cromo e gli ammortizzatori con le doppie molle che ci puoi saltare pure gli scalini della Madrice! Il disegno poi è…bellissimo! Una lancia di fuoco inizia dalla punta su uno sfondo nero e poi, salendo, si trasforma in frecce colorate che bucano uno scudo! Noooo è pure firmato da Niki , il campione americano di skate!

Ma… è impossibile da trovare in Italia, come hanno fatto?

Non vedo più niente, ho gli occhi annebbiati dalle lacrime e mi vergogno di piangere ma oramai sono un fiume di muco dolciastro che mi riempie il naso e  non riesco a fermarmi, è il regalo più bello che potevano farmi Mamma e Papà.

Sento un fazzoletto profumato che mi struscia e mi graffia un poco la faccia ma mi asciuga il muco e gli occhi che si snebbiano.

Forse che sono svenuto per tanto tempo?

La faccia che vedo è quella di mamma ma …più vecchia!

Mamma mia, non è che le rughe sono contagiose? Cerco subito Papà e lo vedo uguale, menomale, e dietro di lui mamma, è lei,  pure uguale e allora, di chi è questa faccia?

“Sono  tua hold zia. Non ti puoi arricordare perché vivo in America ma sapevo di te, di  un nipotino bello assai e ca ti piace troppo lo skate. Io nu ne capiscio niente ma il negoziante mio amico told me che è un modello very  beautifull. Ho indovinato, Nonò?”

Mi passarono davanti tutte le torture che avevo immaginato per lei e dallo stomaco qualcuno mi diede come un cazzotto.

La prozia è vecchissima e assomiglia ad un ghiacciolo un po’ squagliato, ma ha una voce dolce e un sorriso buono e allegro come quello del Nonno…

Ah già, giusto, è sua sorella… e anche la dentiera deve essere americana -è bianchissima !- e poi… è venuta in aereo dall’America, forte!

Magari fa quelle cure americane ed è indistruttibile, come Batman .

Forte questa zia! Già me la immagino, col vestito giallo di “Dragon ball terza evoluzione”, quando la presenterò a quegliscimuniti coi loro skate  che sembrano carriole, altro che skate!

E poi come dice “skate” con  la “ kappa” e la “a” che fanno tutto un rimbombo: skate, skate…

La guardo e le faccio l’occhiolino.

“Zia posso provarlo sulle scale?”,

“Oh yes. Ma you attento ok?” mi schiaccia l’occhio e guarda i Fossili

“ Non cadiri su questi “vecchi birilli”, si rumpinu subito, comu grissini, ok ?”

E ride, con una risata squillante e rido pure io, e mi dà una pacca sulla spalla e io la spingo , ma piano, e ci diamo il “cinque” e ridiamo ancora, come scemi…

Non è che adesso mi muore pure lei?

 

Racconto “Cent’anni di troppo” scritto da Dora Argento
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:

http://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/racconti-nella-rete-2016

 

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I Lunedì di LuccAutori – L’angelo – Gino Dondi

Cratività - Verdirosi

Quell’estate, quella maledetta estate, Cesco e Lucia andarono al mare pochissime volte. In agosto la tradizionale crociera verso sud con gli amici era saltata.
Ormai era l’ultima settimana di ottobre, l’estate finita da molto, gli alberi perdevano le foglie ma in quei giorni non era ancora freddo. Il meteo quel sabato prometteva tempo variabile. Cesco voleva prendersi una pausa: “Lucia che ne dici, ci facciamo due giorni in barca? Soli, io e te. Potrebbe aiutarci a…”
“No”, l’interruppe “mi dispiace, non me la sento. Hai chiesto a Denis e Luca?”
“Hanno impegni. Potresti…”
“Non insistere”, ribatté e lo fissò come se il suo sguardo lo volesse avvertire di ovvi significati, ma che lui non volle cogliere.
“Ti spiace se vado io?”
“No. Va’ pure.”
“Tu?”
Lei non rispose.
Cesco fece per andarsene poi si girò: “Le cose succedono. Non serve…” Lei l’interruppe: “Non mi va’ di parlare. Cerca di capirlo,” lo disse con voce dura, astiosa.
Lui non aggiunse altro. Non c’era altro da aggiungere. Diede un fugace bacio sulla guancia della moglie, salì in camera, si cambiò e prese lo zainetto, sempre pronto, e partì.
Entrò in autostrada a Fornovo, il traffico era abbastanza intenso.
Viaggiava spedito, ma sempre entro i limiti di velocità: a volte i centotrenta, oppure meno.
Superato Borgotaro, forse casualmente, guardò nello specchietto e vide arrivare veloce una Bmv X6. Cesco accelerò.
‘Non farlo’, si disse.
Con quel mostro non c’era gara, ma sapeva che i successivi dieci chilometri di salita erano di curve strette e gallerie, e lì avrebbe potuto dire la sua..
‘Non farlo’, si ripeté. Nella sua mente risuonò la voce di Lucia: quante volte avevano discusso, e lei si era arrabbiata, e aveva ragione.
‘Qualche chilometro poi rallento’, si disse sapendo di mentire.
Non era solo il gusto della sfida, l’istinto della competizione, che pure aveva sempre avuto. Era di più. Era la Bestia Nera dell’aggressività. Tenuta dentro, in una gabbia di rispetto degli altri, di educazione ricevuta. Ma la Bestia Nera c’era e doveva sfogarsi in qualche modo. Negli ultimi tempi era cresciuta, diventata ingombrante.
Il cuore gli batteva violento nel petto. Le mani artigliate al volante. Gli occhi che saettavano dalla strada allo specchietto. Le gomme che gemevano sull’asfalto. A volte l’X6 lo sorpassava e subito dopo Cesco lo metteva dietro. ‘Sei uno stronzo’, si ripeteva: e lo diceva a se stesso.
Due idioti che mettevano a repentaglio la loro stessa incolumità e quella degli altri: lo sapeva.
‘Smettila’, si diceva.
Ma la Bestia Nera ora ruggiva la sua rabbia. Le gomme che stridevano era la sua voce.
Sapeva anche che dopo si sarebbe pentito, si sarebbe dato dello stupido. Sì, gli sarebbe venuto il magone a pensare quanto era stato infantile; ma questo sarebbe successo solo quando avrebbe ripreso il controllo di se stesso. In quel momento l’aggressività imponeva la sua violenza.
All’entrata della galleria del valico Cesco rallentò vistosamente, come a dire: vattene pure, io vinco nella parte ‘guidata’ non in rettilineo.
Quando sbucò sul versante toscano piovigginava.
Cesco era deluso da se stesso, doveva digerire il boccone amaro di sentirsi uno stupido.
Ma non solo quello: un dolore infinito aveva devastato la sua vita e da allora sfidava il destino con aggressività, forse con il desiderio inconsapevole di farla finita.
All’area di servizio di San Benedetto si fermò. Sentiva di doversi sciacquare la mente dalle
tossine che lo ammorbavano. Con l’auto andava lento, cercava uno spazio vuoto per parcheggiare, d’un tratto, dall’altra parte del piazzale gli parve di vederla. Il cuore si fermò, poi si mise a martellare violento. “Chiara!”, urlò. E subito si rese conto dell’assurdità di quel grido. No, non poteva essere lei. Doveva mantenersi razionale: lo sapeva. I suoi pensieri potevano diventare relitti sballottati in un mare di irrazionalità. Doveva evitarlo.
Ripartì.
Dopo Aulla il sole stava comparendo lentamente, quasi controvoglia.
Ancora mezz’ora e arrivò a Fezzano. Il porticciolo era quasi deserto. Percorse il pontile lentamente guardando barche bellissime di dodici, quindici metri, le ammirava sì, ma senza invidia: lui era legato alla sua non più giovane e neanche tanto appariscente Aziza. No, non l’avrebbe mai cambiata. Mai.
Poi eccola, finalmente. Si fermò sul pontile, posò lo zainetto e la guardò.
Sentì la memoria retrocedere, davanti ai suoi occhi riaffioravano in un unico sguardo le veleggiate tranquille nel mare buono, l’adrenalina col mare cattivo, le dormite sulla tuga con il sole che ti cuoce la pelle. Il Gps che ti dice dove sei e dove andrai: Punta Bianca, le secche della Meloria, San Vincenzo, il golfo di Baratti, l’Elba, poi Capraia e la Corsica. E le sere alla luce morbida della lanterna a mangiare pesce pescato e intanto parlare di letteratura, discutere di politica con Luca, Denis, Willy, Patrizia. Raffiche di passato lo sconquassavano. Con un balzo salì a bordo e si sedette. Con la mano carezzò il timone, tiepido di sole, e rivide Lucia che portava la barca con sicurezza, i capelli scompigliati dal vento. Anche a Chiara piaceva timonare.
Un magone pesante gli attanagliava la gola. Decise di partire, subito. Aprì il boccaporto, prese il salvagente di poppa, il Gsp e risalì in coperta, aprì il rubinetto della nafta e accese il motore. Sganciò le cime di ormeggio e diede gas. Aziza partì lenta e sicura, percorse il breve tratto di porto poi, fuori.
L’aria era pulita, frizzante. Un po’ di onda la faceva dondolare, pareva fosse contenta di andare. Superata la diga foranea ecco il mare aperto. Cesco mise la prua al vento e aprì la randa. Spento il motore, aperse anche il fiocco. Un leggero maestrale gonfiò subito le vele. Direzione sud. Alla destra l’isola Palmaria, poi il Tino. Poi dritto verso la linea dell’orizzonte dove mare a cielo si confondono. Veleggiò per diciotto miglia, e per quelle quattro ore si concesse il lusso di non pensare.
Il sole alto gli disse che era tempo di tornare. Virò, ora il maestrale lo aveva di poppa, virò ancora e sentì il vento graffiargli la sinistra del volto. Direzione 340 gradi.
Un’ora dopo vide affiorare dalla linea incerta dell’orizzonte la sagoma ingobbita di Montemarcello. Ora Aziza avanzava veloce con un maestrale rinforzato. L’ombra delle vele sul mare si faceva via via più lunga, ed ecco Punta Bianca, Tellaro.
Il giorno se ne stava andando, la luce smagriva lentamente, ostinata a non finire. Non gli andava di tornare, non voleva farsi inondare la mente dai fantasmi. Virò a sinistra, senza dirigersi verso il varco della diga foranea. Avrebbe gettato l’ancora in una rada.
Telefonò a Lucia: “Questa notte rimango qui, sono ancorato alla Palmaria, tranquilla va tutto bene. Torno domani.” Cesco fece per spegnere poi non seppe resistere all’impulso di aggiungere: “Oggi…?”
“Oggi come ieri”, disse Lucia con tono scontato, ma il dolore non era difficile da scorgere.
Avrebbe voluto dirgli che rintanarsi in se stessa non era il modo per superare la disperazione, ne avevano già discusso, invece disse solo: “Va bene. A domani.”
La luna galleggiava in un cielo blu intenso che di lì a poco sarebbe diventato nero.
Con il buio l’aria rinfrescò, ma non gli andava di chiudersi dentro. Rimase lì a guardare in lontananza le luci di Lerici che bucavano l’orizzonte. Scese sottocoperta, cercò qualcosa da mangiare, trovò solo una scatoletta di tonno e dei grissini. Nel frigorifero una bottiglia di vermentino di Sardegna. Tornò in coperta. Senza preparare il tavolino aprì la scatoletta e sturò la bottiglia. Mangiò qualche boccone e trangugiò un bicchiere di vino, poi un altro e un altro ancora. La rada era imbevuta di silenzio. Le stelle ora si vedevano nitide. Piccolissime macchie di luce. Si chiese se in quella profondità ci fosse un dio. Improvvisamente, come se i pensieri tenuti compressi nel fondo del cervello per tutta la giornata volessero esplodere nella sua mente, si sentì sommergere da uno strano sgomento. Rivolse lo sguardo su in alto e bisbigliò: “Dove sei Dio? Dove?” Avrebbe voluto gridare, ma aveva la gola attanagliata da un nodo inestricabile. Poi lo fece. Si alzò in piedi e gridò: “Dove sei Dio giusto e misericordioso? Perché mi hai dato la felicità, mi hai concesso quella creatura angelica per poi strapparmela via. Con quale logica, per quale castigo?” La notte nera gli fece udire solo lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo. Dentro di sé nessuna risposta. Solo una domanda: ‘Perché?’, si ripeteva. Senza usare il bicchiere, alzò il fondo della bottiglia e trangugiò finché il respiro lo consentì. Prese fiato, e ancora il vino scorreva dentro il suo corpo come se volesse lavar via il magone che lo mordeva.
‘Non ho strumenti capaci di capire, non ho parole capaci di consolare’, si disse. Una sottile rabbia gli stava montando dentro, riuscì solo a chiedersi: ‘Dio, se è vero che esisti da qualche parte, perché lasci sprofondare in questo abisso di disperazione questa tua creatura? Eh? Perché?’, protestò. Ma Lui, Dio, non gli rispose, allora Cesco pensò di maledirlo. Restò qualche momento immobile, il suo corpo fermo, la sua mente ferma. No, non riusciva ad amarlo, non più, ma nemmeno a imprecarlo.
“Chiara!!”, gridò al cielo, come se lei potesse sentirlo. Poi Cesco si accasciò sul pagliolo, raggomitolato in una posizione fetale. Sentì le lacrime scendere sulle guance. Come un coltello affilato quelle lacrime squarciarono la sua corazza e il suo pianto si fece dirotto, infantile.
Aziza dondolava dolcemente, cullando nel suo grembo quel corpo che sussultava squassato dai singhiozzi di un pianto liberatorio. Lentamente la coscienza di Cesco si sciolse, vinta dal vino e dalla stanchezza.
Più tardi il freddo intenso della notte lo svegliò. Aveva gli arti rigidi, la bocca impastata. La testa girava. Scese sottocoperta, si buttò sulle lenzuola della cabina di prua, lì dove con Lucia aveva parlato, riso, dormito, e anche fatto l’amore.
Lì avevano concepito Chiara.
Sì, proprio lì era iniziata la sua breve fantastica vita. Da allora anche quella dei genitori era diventata fantastica.
Dopo qualche mese il matrimonio, poi la sua nascita, poi quell’angelo che era tutta la loro vita. Poi un giorno un saluto rapido e qualche passo di corsa, poi lo stridore delle gomme sull’asfalto, poi un tonfo sordo, poi l’urlo lacerante della sirena, poi i passi in corsia.
Poi l’attesa.
Il tempo che rallentava. Si fermava.
Poi lo sguardo muto di un medico a dire tutto.
A dire che tutto era finito.

Racconto “L’angelo” scritto da Gino Dondi
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Opera pittorica – Creatività, libertà – Umberto Verdirosi

Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:

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365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – La lezione di Yoga – Maria Giulia Benini

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Arrivò in anticipo di un quarto d’ora. La palestra era al piano terra di un palazzo di periferia. Sulle quattro vetrate si ripeteva una decalcomania inquietante: un essere umano attorcigliato in una contorsione innaturale.

“Sono ancora in tempo” pensò, “adesso vado via”.

Aveva appena ripreso in mano le chiavi dell’auto quando arrivò una tipa dall’aria sognante e con un pallino in fronte che le sorrise.

“Sei nuova, vero? Io mi chiamo Cecilia e sono l’insegnante di yoga. Vieni dentro che apriamo la palestra e ti mostro lo spogliatoio”.

Sospirò e si rassegnò, consolandosi al pensiero che in fondo era solo una lezione di prova.

La colpa era tutta di quella sua amica fanatica di discipline orientali: le aveva fatto una gran ramanzina ricordandole che a trentacinque anni una donna inizia ad invecchiare, che tutto il grasso accumulato non si elimina più e che l’equilibrio della mente e del corpo vanno di pari passo, blandendola infine con la promessa che un po’ di yoga le avrebbe fatto perdere i chili di troppo senza sudare.

Nel frattempo arrivavano gli altri allievi, perlopiù signore cinquantenni, un uomo dall’età indefinibile coi capelli bianchi ma l’aria giovanile, una ragazzina anoressica e poi, un tipo incredibilmente bello, con la faccia di Paul Newman e il fisico di Rudolph Nurejev, inguainato dentro una pantacalza-body aderentissima. Le parve dal modo in cui parlava che non fosse italiano.

L’insegnante le indicò lo spogliatoio femminile, dove le signore avevano iniziato a ciarlare mentre si svestivano.

Inorridì quando vide che tutte rimanevano a piedi nudi, ma fece finta di nulla e si tenne i calzini: dopo una giornata di lavoro i suoi piedi non erano certo fragranti.

Notò che le altre avevano body e tute aderenti. Lei invece aveva rispolverato una vecchia tuta a colori fluorescenti, con banda laterale sulle gambe e sulle braccia, comperata senza neanche provarla a una svendita di articoli sportivi; infatti era come minimo una taglia in più.

Intanto la palestra aveva preso vita.

Una musichetta di sottofondo sembrava prenderla in giro, con tamburelli e strumenti pizzicati, che evocavano leggerezza e agilità, cose che lei non possedeva nemmeno a sette anni.

Nurejev e gli altri erano già seduti a gambe incrociate sopra tappetini dall’aspetto gommoso e fissavano il vuoto davanti a loro.

Starnutì quattro volte di seguito a causa di un odore pungente che le ricordò le canne che si facevano i suoi compagni del liceo, quando vide che la maestra stava accendendo dei bastoncini di incenso negli angoli della stanza.

Qualcuno le disse di sedersi come gli altri.

“Togliti i calzini” le sibilò la sua vicina di posto, ma fece finta di non sentire. Aveva già difficoltà a incrociare le gambe senza sentire un dolore maledetto alle ginocchia.

“Ora, nella posizione del loto, come ringraziamento per quello che stiamo per fare, canteremo l’Om”, fece l’insegnante.

“Inspirate, poi espirate, e…. Oooooooooommmmmmmmm”.

Un coro di voci gravi, acute e stonate riempì la stanza.

Improvvisamente sentì un prurito pungerle la gola. Le capitava sempre così nelle situazioni che trovava ridicole: diventava paonazza finchè non scoppiava a ridere sguaiatamente.

L’insegnante prese il suo rossore per imbarazzo.

“Non devi vergognarti di cantare con noi, vedrai che dopo le prime volte ti verrà naturale. Senti l’energia che si sprigiona dalle nostre voci? La puoi percepire intorno a te!”

Tenendo gli occhi chiusi, mentre quel suono continuava, cercava di pensare a qualcosa di serio o di triste: le tasse, il giorno del funerale della nonna, la bocciatura in quarta ginnasio,  i pantaloni taglia quarantotto che non si chiudevano più…

Poi tirò un gran sospiro e l’attacco di ridarella passò.

I primi venti minuti scivolarono via veloci, con una serie di respirazioni e movimenti rilassanti, e stava già esultando, convinta che lo yoga fosse proprio la disciplina che faceva per lei, quando i nodi vennero al pettine.

L’insegnante pronunciò un nome irripetibile, e tutti si capovolsero a testa in giù, con la fronte appoggiata sul pavimento e le gambe per aria. Alcuni lo facevano in mezzo alla stanza, altri appoggiati alla parete o appesi alle spalliere con delle cinghie, come grossi pipistrelli.

Lei rimase immobile, pensando a un modo per fuggire.

Sentì un tocco leggero sulle spalle.

“Adesso anche tu provi. Io aiuto te”.

Era Newman-Nurejiev, scultoreo nella sua pantacalza, che le sorrideva cameratesco. I suoi muscoli erano tonici,  vedeva nitidamente i bicipiti che erano proprio all’altezza dei suoi occhi, e aveva un buon odore, forte e selvatico, che le ricordò il muschio.

“No grazie, è la prima volta per me e del resto io ho il terrore di stare a testa in giù, e questa poi è solo una lezione di prova….”

“Tu no avere paura, io tengo stretta, Cecilia fa sempre aiutare principianti perchè io più forza per tenere strette persone pesanti”.

“Non fa una piega” pensò “Mi ha appena dato dell’obesa”.

“Ora metti gomiti appoggiati a terra e fronte in mezzo a mani intrecciate. Io sollevo”.

Fece come le diceva e non ebbe il tempo di pensare che si sentì agguantare per le natiche e dopo un capogiro folle si rese conto di essere a testa in giù, con il nerboruto che la teneva per le gambe.

Le guance le bruciavano e sentiva chiaramente l’odore dei piedi di Nurejev, che le ricordarono immediatamente il provolone piccante; una fila di facce, quelle di tutti gli altri capovolti come lei, la fissava sorridendo.

Respirò, cercando punti di riferimento nello spazio sottosopra.

Poi, improvvisamente, la tragedia.

Il suo intestino, da trentasette anni abituato ad una sistemazione comoda e stabile all’interno di quella pancetta, ebbe forse paura  di perdere il posto.

E infatti si ribellò, ribollì, cercò di lottare con la gravità, ma non ci fu nulla da fare, perchè quando lei si accorse di cosa stava per accadere era già troppo tardi.

Fu come un barrito, anzi un coro di barriti, il rumore dell’enorme peto che scaturì da quelle povere viscere capovolte.

Inutile dire che tutti ne furono attoniti, e più che imbarazzati stupiti, ma quello che accusò lo sgomento maggiore fu proprio Nurejiev, che dallo spavento fece un balzo indietro, dimenticando che la poveretta si reggeva dritta solo grazie al suo sostegno.

Un’altro capogiro e piombò sul pavimento battendo forte le ginocchia.

Pensò prima che avrebbe voluto morire, poi, dato che questa non era una possibilità concreta, decise di svenire. E non ci fu verso di farle aprire gli occhi.

Rimase impassibile agli schiaffetti, agli schiaffoni, alle spruzzatine e alle bicchierate d’acqua.

Alla fine chiamarono un’ambulanza.

La caricarono in barella che non dava segno di vita, e si guardava bene dal farlo.

Sentì le voci preoccupate di Nurejiev e della maestra che chiedevano ai barellieri le indicazioni per raggiungere l’ospedale, poi le portiere si chiusero e la sirena iniziò ad urlare.

 

***

 

Accese un bastoncino di incenso, tirò le tende per schermare il rosso violento del tramonto che invadeva la stanza da letto e si sistemò sulla stuoia nella posizione del loto.

C’era una calma perfetta. Bussarono piano.

“Non disturbo te se faccio yoga anch’io?”

Era vergognosamente bello anche in pantaloncini e canottiera, sensuale e selvaggio come quel primo giorno che l’aveva visto.

“Ma no Rudy, entra”.

Dopo un anno le era ancora difficile pensare senza imbarazzo a quell’incidente che aveva portato importanti novità nella sua vita.

Lo guardò mentre silenzioso come un felino, con pochi gesti aggraziati appoggiava la fronte sul pavimento e si  capovolgeva nella posizione sulla testa. Ci sarebbe rimasto come minimo venti minuti.

Giunse le mani davanti al petto, chiuse gli occhi e assaporò il profumo della felicità, fatto di muschio selvatico, incenso e provolone piccante.

Racconto “La lezione di Yoga” scritto da Maria Giulia Benini
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Opera pittorica – Lasciati andare, ridi – Davide Cocozza

Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:

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I Lunedì di LuccAutori – Rapina goffa -Francesco Bianchi

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Belin come sparano bene quelli! Eppure ero ben nascosto dietro il bancone. Mi sono sollevato solo un momento per sbirciare al di là e… Cristo come brucia! Il mio braccio mi fa un male cane, e sanguino, mi gira la testa. Sono nella merda! Merda nera. Ma cosa credevo di fare? Cosa mi è venuto in mente? Le rapine sono per quelli con i coglioni veri sotto, non per i coglioni e basta come me. Lì per lì sembrava una buona idea. Ti procuri una pistola, cinque minuti di adrenalina ed è fatta, e avrei messo a posto i miei casini. Invece come ogni volta che prendo un’iniziativa io, si complica tutto. A cominciare da quel carabiniere, non poteva farsi i cazzi suoi? No! Doveva fare l’eroe. Mi si butta addosso e cerca di disarmarmi. Io non volevo sparare, il colpo è partito da solo, e l’ho preso in pieno! E adesso i suoi colleghi sono appostati là fuori, e se solo provo a tirare su la testa me la fanno saltare, questo è sicuro. Che male la ferita, e non riesco a fermare l’emorragia. E poi che genialata. Rapinare proprio la filiale Carige dove ho il conto, bravo Eugenio, bella pensata. Ma il direttore mi sta proprio sul cazzo, soprattutto perché si è rifiutato di concedermi il prestito. E’ anche colpa sua se mi ritrovo in questa situazione. Guardalo lì ora, tutta la sua spocchia è sparita.

-Non è vero Direttore? Dico a te!-
-Se ne sta lì tutto rannicchiato a frignare come un poppante-

Il telefono vicino alla scrivania, suona.

-Che faccio, rispondo?-

-Pronto? Si, no io so perfettamente quello che sto facendo. Si esco fuori, non voglio farmi ammazzare come un cane. Si il carabiniere è già morto, e ricordatevi che ho ancora un ostaggio con me. Bravo, il direttore. Anzi, se non volete che accoppi pure lui, fatemi uscire di qui. Voglio un’auto che mi porti via, mi porto l’ostaggio e i soldi, e non dovete seguirmi fino a che non mi sentirò al sicuro. Ecco bravo. Si ti do’ cinque minuti-

Voglio un’auto? Non seguitemi? E poi dove vado? Non sono mica Al Pacino. Belin, che situazione! Toh, mi è sembrato che il carabiniere si muovesse. Aspetta un po’. Si, si muove, allora non è morto. Certo che se resta ancora un po’ lì a sanguinare… Devo fare qualcosa, ma cosa? Chiamo l’ambulanza, perché no? Aspetta un attimo, ho sentito un rumore, si, sento dei passi, mi devo alzare, vedere cosa succede. Le gambe mi tremano, ho perso un sacco di sangue. Oh Cristo, e quelli chi sono, le teste di cuoio? Sono già entrati, e ora che faccio? E cosa faccio, mi arrendo, ce n’è già uno che mi ha individuato e mi punta contro un mitra. Alzo le mani.

Il soldato ha visto il carabiniere. Adesso mi viene incontro. Meno male, in fondo vada come vada, basta che questa storia finisca. Ma che fa? La pistola l’ho buttata, mi arrendo non vedi le mani in alto? Prende la mira, ma perché?

-No, non sparare il carabiniere non è morto! E’ stato un incidente-

Il soldato solleva la visiera dell’elmetto, e osserva il carabiniere agonizzante. Raccoglie la mia pistola.

-Questo qui? E non è ancora morto?

Il soldato punta l’arma contro il carabiniere e bang, gli spara in testa.

-Adesso lo è!-

Un altro soldato arriva e osserva la scena, si avvicina, mi guarda un attimo poi si volta verso il compare. Parlano sembrano eccitati, si mettono a ridere.

-Ma che fanno? Si portano via i soldi del Caveau? Ma che poliziotti sono? Se prima ero nella merda, ora ci sto affogando dentro. Ora sono pure legato come un salame, e vicino c’ho pure quello stronzo di direttore che mi guarda esterrefatto, e puzza pure come una capra-

I due soldati tornano con delle grosse sacche rigonfie di soldi. I due si guardano per un attimo e poi uno dei due annuisce. Sempre con la mia pistola la punta contro il direttore. Urlo con tutta la voce che ho in corpo.

-No!-

Il soldato ha sparato. Schizzi di sangue e cervello tutti addosso e ora tocca a me non ci sono santi.

-Eddai! Spara e facciamola finita-

Il soldato apre la mia pistola e toglie i proiettili rimasti nel caricatore, se li mette in tasca. Poi con un taglierino mi slega e mi consegna la pistola. Si allontana ridacchiando.

-Ora sono tutti cazzi tuoi, imbranato!-

Il soldato solleva l’auricolare che aveva puntato nel petto.

-E’ ben asserragliato, ha ucciso il carabiniere e l’ostaggio. Noi ci ritiriamo, non possiamo fare nulla dalla nostra posizione. Si, è sotto al bancone. Si, lacrimogeni e irruzione, passo-

Il figlio di puttana mi guarda ancora una volta e mi fa un ironico saluto militare. Tutti e due scompaiono nel retro. Ancora rumoredi passi. Questa volta sono tanti. Arrivano i primi due lacrimogeni, e già non ci vedo più un tubo. Un altro soldato o quello che è fa capolino dal bancone, mi vede. Non so perché ma mi viene da ridere e gli punto la mia pistola scarica contro. Il suo fucile da assalto però non lo è, e mi spara addosso una bella scarica di proiettili contro. E mi centra, in pieno. Non sento dolore, solo che faccio fatica a respirare. Guardo la faccia del direttore stecchito a fianco a me, pare che anche lui mi guardi, con la lingua di fuori fa veramente ridere. L’irreprensibile direttore, una vita per il lavoro, e a che cazzo ti è servito? A crepare, proprio come me, criminaluccio da quattro soldi e disoccupato cronico. Strade diverse, stesso destino. Non male come consolazione. Mi viene ancora da ridere, ma se lo faccio mi brucia il petto. Anzi no, ora non sento più nulla.

Racconto “Rapina goffa” scritto da Francesco Bianchi
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Opera pittorica – Giustiziato a morte – Pawel Kuczynski

Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
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I Lunedì di LuccAutori – Maria – di Elena Margreth

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Per un istante, un eterno attimo, pensai che tutto ciò che stava accadendo era terribilmente ingiusto e che, se il Signore amava realmente Cristo, non doveva permettere che suo figlio, che MIO figlio andasse a morire in quel modo.
Pensiero dettato da una rabbia che per poco si sovrappose al dolore, pensiero cupo che scacciai via immediatamente, sapendo che in cuor mio era ingiusto.
Avanzavamo.
Io lo seguivo con la forza della disperazione di una madre che vede il figlio soffrire e lui, Gesù, avanzava a passo lento, con i piedi insanguinati, le braccia e le spalle impegnate a sorreggere una pesante trave di legno, il corpo ricoperto di lividi e sputi pieni di odio gratuito, il suo viso e la corona di spine erano sporchi di sangue.
Compiva ogni singolo e doloroso passo con la sola forza della fede.
Così arrivammo alla cima di quella collina.
Mi chinai su di lui in preda ai singhiozzi, avrei voluto stringerlo, ma sapevo che gli avrei fatto solo del male, avrei voluto poterlo curare, avrei voluto impedire a quegli uomini ciò che ormai era inevitabile.
Presi il suo volto tra le mie mani e lo accarezzai, lo guardai negli occhi con la consapevolezza che non avrei più rivisto la loro luce.
Rimasi lì per troppo poco tempo perché mi presero e mi spostarono di peso.
Un uomo gli si avvicinò porgendogli un bicchiere di latte e miele dicendo che con quello il dolore si sarebbe attenuato, ma Gesù rifiutò.
Mi fecero allontanare ancora impedendomi di vederlo, ma sentii le sue urla.
Poi lo vidi, vidi il suo corpo che veniva trascinato in alto, sentivo il suo dolore, sentivo che respirava a fatica, sentivo le sue costole rompersi e i polmoni alla ricerca di aria, sentivo le sue parole che chiedevano perdono, perdono per tutti coloro che peccavano, per coloro che avevano deciso la sua condanna.
Sentivo il suo amore espandersi.
Sentivo la sua fede.
Pura.
Ad un tratto non sentii più nulla, i suoi occhi si spensero e la sua bocca non riuscì più a trovare aria, fecero scendere il suo corpo e io lo presi tra le mie braccia con delicatezza, come se avessi paura di fargli del male e lo cullai lasciandomi distruggere dal dolore.
Erano passati due giorni dalla morte di Cristo e il dolore si era sostituito ad un vuoto che faceva quasi più male.
Mi continuavo a ripetere che dovevo essere forte, mille volte in passato mi ero immaginata questo momento pensando soprattutto di essere di sostengo per gli apostoli; sapevo che non ce l’avrebbero fatta da soli.
Ora appena mi incontravano tacevano, ma era giunto il momento di vederli, di parlargli, così entrai nella loro stanza e subito il silenzio scese fra di noi.
Senza giri di parole gli comunicai ciò che era loro compito fare: continuare la missione di Cristo.
Ero fredda e lucida quando pronunciai quelle parole, ma appena incontrai i loro sguardi dubbiosi e sentii delle obiezioni provai rabbia, ma una rabbia dolce, come quando Gesù si era trattenuto più a lungo nel tempio e non aveva avvisato dove si trovasse, ecco così ero arrabbiata, ma anche preoccupata, molto preoccupata.
Tutti tacquero, lessi nei loro occhi un’altra forza, ma soprattutto tenacia.
Successivamente mi ritirai nel mio dolore, incamminandomi con un cesto di oli e profumi contenente anche una nuova veste bianca verso il luogo dove era riposto il corpo di mio figlio.
Camminavo lentamente e a tratti non riuscivo a tenere le lacrime, mi sentivo pesante e mi muovevo con un’immensa fatica, alzai lo sguardo da terra solo quando mi trovai davanti al sepolcro, ma appena alzai il viso notai con stupore che la pietra che chiudeva l’ingresso era stata spostata.
Entrai preoccupata, ma non trovai né il suo corpo né la veste macchiata di sangue che lo ricopriva.
Uscii velocemente con l’intenzione di chiedere aiuto e appena i miei occhi si adattarono alla luce lo vidi.
Cristo era lì con il suo sorriso luminoso e rassicurante e con gli occhi vivi che emanavano amore.
Mi chiamò prima per nome e poi “madre”.
Sentendo la sua voce, quella voce che temevo persa, mi lasciai scappare insieme al sorriso una lacrima di gioia.
Mio figlio aprì le braccia e dai bordi delle maniche si intravedevano le ferite.
Ci abbracciammo a lungo in silenzio.
Il mio cuore si riempì di calore e pace.
E fede.

*****

Racconto “Maria” scritto da Elena Margreth
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Opera pittorica – La Pietà – Salvador Dalì

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I Lunedì di LuccAutori – Si fa presto a dire chiodi – Giulio Artom

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Maria lo aveva pregato di essere gentile, almeno per una sera.
“Luigi, è la prima volta che invitiamo a cena i Colombo, sono i nostri nuovi vicini di casa, evita di metterli in imbarazzo”.
“Non capisco che bisogno ci sia di invitarli, non abbiamo nulla da dirci e organizzare cene ti crea inutili ansie.”
In realtà la serata era iniziata bene, Maria aveva offerto l’aperitivo, una cena di quattro portate, il caffè e il liquore distillato in casa con i cioccolatini. Il Luigi all’inizio aveva perfino parlato un po’ con il Signor Colombo degli imminenti lavori di manutenzione straordinaria nel condominio spiegandogli che secondo lui il geometra era un incompetente e il progetto per l’impermeabilizzazione del tetto era pieno di errori. Poi, dopo la macedonia, si era chiuso nel suo mutismo, con lo sguardo fisso nel vuoto e gli sbadigli mal trattenuti. A nulla erano valse le occhiatacce di Maria, finché, alle dieci e mezza, con la conversazione che languiva nonostante gli sforzi della padrona di casa, il Luigi proclamò:
“Maria andiamo a letto, che i signori vogliono andare a casa.”
A nulla erano valse le scuse di Maria per quella uscita inopportuna e le sue richieste agli ospiti di rimanere ancora un po’. Dopo di che i Colombo salutarono e lasciarono frettolosamente casa Recalcati.
Maria avrebbe voluto fargli la solita scena madre, ma sapeva che tanto non sarebbe servito a nulla. Per il Luigi a quell’ora si andava a letto. Così come al cinema quando il film giallo si prolungava e lui lasciava la sala prima della fine senza preoccuparsi di conoscere il finale. Al ristorante invece si alzava annunciando ai commensali: “Ho finito, andiamo”, senza curarsi che tutti avessero terminato.
Coricarsi alle dieci e mezza era una delle tante regole che scandivano la sua giornata, come i due caffè doppi senza zucchero in tazza grande e con latte freddo a parte, uno la mattina al bar dell’angolo e l’altro a casa dopo pranzo e la sequenza di lettura delle pagine del Corriere della Sera: dapprima i necrologi, poi lo sport, quindi la cronaca cittadina e via via tutte le restanti notizie. Con un altro ordine invece Luigi Recalcati risolveva i giochi della Settimana Enigmistica che acquistava ogni sabato mattina alla stessa edicola. Quanto ai libri Luigi ne leggeva molti, ma tutti dello stesso autore, anzi autrice, Corin Tellado, una delle più prolifiche di tutta la storia della letteratura. Era abitudinario anche nell’alimentazione, fatta solo di pesce d’acqua dolce, carni bianche e verdure a vapore, e nella gestione del suo guardaroba che a ogni stagione si arricchiva di un completo grigio a un petto, tre camicie millerighe celesti con collo alla francese e due cravatte regimental.
Ma era nel suo negozio di ferramenta che il Luigi Recalcati dava il meglio di sé stesso, soprattutto quando un cliente aveva bisogno di qualche chiodo per appendere dei quadri.
“Lei la fa facile, si fa presto a dire chiodi. Come li vuole? A testa piana, bombata, fresata, a gruppino? In ferro lucido, ottonato, nichelato, zincato? E lo spessore? la lunghezza?
“Ma non saprei, pensavo a quei chiodi curvi, per i quadri…”
“Caro il mio Signore, i chiodi si curvano solo quando si picchiano col martello in modo sbagliato. Probabilmente Lei si riferisce ai cancani, ma questa è tutta un’altra storia. Ci sono cancani quadri a punta, tondi, striati, a vite, tipo volo, neri, lucidi, cancanetti zincati, ottonati… La scena si risolveva sempre nello stesso modo, fin quando il cliente, stremato, finiva col far venire il Luigi a casa per un sopralluogo a pagamento al fine verificare che razza di chiodo sarebbe servito.
Una sera, prima della chiusura, un uomo si presentò in negozio:
“Buonasera, vorrei cinque anelli per ancoraggi in acciaio con occhio saldato a passo mordente da dodici millimetri”
“Bene! quando una persona è preparata tutto è più veloce”, esclamò il Luigi voltandosi a cercare gli anelli.
“Certo, vedrà che stasera facciamo proprio in fretta” disse tranquillo l’uomo puntandogli la rivoltella alla schiena. Ammutolito e tremante il Luigi gli consegnò senza fiatare l’incasso della giornata.
“Ha visto come ci siamo sbrigati, a proposito, sa che ora è?”
Guardando l’orologio d’oro che teneva al polso il Luigi si accorse che l’altro lo fissava facendo cenno di sì con la testa. Senza dire altro si slacciò il Rolex e lo porse tremante all’uomo, che se ne uscì in fretta dal negozio scomparendo veloce nel buio della sera.

Racconto “Si fa presto a dire chiodi”  scritto da Giulio Artom
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi,
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365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – La maledizione di famiglia – Luigi Giampetraglia

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Nonna Titina diceva sempre che la nostra famiglia teneva la calamita per le disgrazie.
Era una cosa che ti metteva l’ansia addosso e ti toglieva la voglia di fare le cose, pure le più semplici.
E non potevi nemmeno darle torto!
Nonna Titina aveva seppellito già tre figli (fino a mò, come diceva sempre lei. E quando lo diceva, con quegli occhi velati dalla cataratta, faceva più paura di un film di Dario Argento).
In effetti i miei zii sono tutti morti in circostanze un po’ strambe.
Il primo a fare una brutta fine fu zio Nino, che si spezzò l’osso del collo mentre dava la caccia ai granchi fellone sugli scogli.
Poi toccò a zio Luca, lo sciupafemmine della famiglia, morto strozzato da uno gnocco.
Ultima, venne zia Rosa, che fece la morte più scema di tutti: finì sotto a un treruote nel tentativo di scansare un gatto nero che le stava attraversando la strada.
Ciro e Carmela sono gli unici sopravvissuti.
Carmela è mia madre e io penso che si sia salvata solo perché lei, a certe cose, semplicemente non ci credeva.
Zio Ciro, che viveva con noi perché era ancora giovane, era tutto il contrario di Mamma ed era sicurissimo che sarebbe stato il prossimo.
Zio Ciro si faceva gli esami tutti i mesi e ammosciava tutti quanti con questa storia della maledizione di famiglia. Mamma diceva sempre che si era preso una brutta fissazione e che se non si decideva a sentire uno psicologo c’era il rischio che lo dovessimo far chiudere.

A San Giovanni ci conoscono tutti. Anche se la nostra è una fama di riflesso.
Siamo l’emanazione naturale dell’unica celebrità di famiglia: la nonna.
Nonna Titina tiene una tabaccheria alla Croce al Lagno che è la più antica del quartiere.
E guai a chi gliela tocca! Dice sempre che la sua Tabaccheria ha resistito a tutto, al contrabbando, alle scommesse clandestine, alle tasse, al pizzo e pure al terremoto!
Per quelli di San Giovanni lei è semplicemente: ‘A Tabaccara.
Per associazione zio Ciro e la mamma sono ‘e figli d’ ‘a Tabaccara e io, mia sorella Katia e i nostri sei cugini siamo tutti, indistintamente, ‘e nepute d’ ‘a Tabaccara. Mamma dice che non ci sta niente da fare, che pure se mi laureo in ingegneria astronautica e vado sulla Luna, per la gente del quartiere rimarrò sempre ‘o nepote d’ ‘a Tabaccara.
Quando sono morti zio Nino e zio Luca l’hanno scritto pure sui manifesti funebri:
E’ mancato all’affetto dei suoi cari Nino Rea, di anni 19, detto ‘o figlio d’ ‘a Tabaccara.
Stessa sorte toccò, due anni dopo, a zio Luca.
Zia Rosa, per evitare di essere identificata per l’eternità con l’attività di famiglia, pare avesse dato esplicitate indicazioni a Tonino ‘O Stuorto, titolare dell’unica agenzia funebre del quartiere.
Con la spiacevole conseguenza che, quando fu il suo turno, davanti al suo manifesto funebre c’era sempre una crocchia di gente che si domandava chi cavolo fosse questa Rosa Rea.
E c’era sempre qualcun altro che rispondeva: “Comme? ‘A figlia d’ ‘a Tabaccara!”

Era già da un po’ di tempo che sospettavo ci fosse qualcosa di vero nelle farneticazioni di zio.
Una sera, mentre eravamo in camera mia, mi fissò attraverso quei suoi occhialoni spessi come vetrocemento e mi chiese:
“Ma tu cu ‘na fattura ‘nguollo, che faresti?”
Io allargai le braccia.
“Non lo so, andrei da un prete o… da un mago!”
“Come quelli della tivù?”
“Quelli sono degli imbroglioni”
“E da chi?”
Andai alla finestra e indicai il palazzo della banca dall’altra parte del Corso.
“Là abita una vecchia che toglie i malocchi, forse ti può aiutare!”
“E tu come ‘e saje ‘sti cose?”
“’O sanno tutti quanti zio Ci’!”

La signora Pace era una vecchietta artritica, con un grugno da pirata stitico e rughe tanto profonde da sembrare tracciate con una forchetta.
“Che ve serve?”
Zio Ciro mi diede un colpetto col gomito.
“Mio zio è convinto di avere una fattura addosso” spiegai.
La vecchia annuì facendo ciondolare i grandi orecchini da zingara aggrappati ai lobi come scimmiette, quindi versò dell’acqua in una ciotolina butterata di ruggine e la piazzò sulla testa di zio.
“State fermo!”
Zio Ciro assunse una posa da visita militare, petto in fuori, pancia in dentro, collo dritto.
“Vedete qualcosa?”
La vecchia fece ondeggiare l’acqua nella ciotola, poi la posò sul tavolo davanti a noi e indicò le bolle semitrasparenti che galleggiavano in superficie.
“Figlio mio, tu stai ‘nguaiato: guarda quante uocchje!”
Zio Ciro si passò una mano sulla fronte.
“Io ‘o ssapevo!” piagnucolò. “Ve prego: aiutateme!”
La signora Pace guardò zio Ciro come se lo vedesse per la prima volta.
“Ma voi nun site ‘o figlio ‘d ‘a Tabaccara?”
“E allora?”
“Allora ce sta poco ‘a fà”
Mi alzai e picchiai un pugno sul tavolo.
“Voi non ci state dicendo tutto!”
La vecchia sollevò un sopracciglio spoglio e si rigirò la dentiera in bocca.
“Ma comme: nun cunuscite ‘a storia?”

“Fu Alina a fare la fattura!”
“Chi?”
“’Na figlia d’ ‘a Madonna!”
Scossi la testa elemosinando chiarimenti.
“Un’orfana,” tradusse la signora Pace “che fu adottata dalla famiglia di tuo Nonno Peppe per tener fede a un voto. Alina e tuo Nonno crebbero insieme, come frato e sora. Solo che non erano fratello e sorella e succedette quello che non doveva succedere!”
“Cioè?”
“Se ‘nnamurarono! Donna Maria, che era la tua bisnonna, se ne accurgette, ma facette finta ‘e niente perché nun vuleva fa parla’ ‘a ggente. Poi, furbescamente, prese una ragazza a servizio, ‘na bella guagliona, della stessa età di Peppe, che si chiamava Titina”
“Nonna Titina?”
La signora Pace annuì ancora.
“Titina era ‘na figlia ‘e ‘ntrocchia e nun se puteva permettere ‘e perdere ‘o treno. Alla fine, con l’aiuto della futura suocera, riuscì a far perdere la testa a Peppe. Alina si sentì tradita da tutti, era giovane e fragile e, alla fine, si buttò dal terzo piano, con la foto del suo amore stretta in petto!”
Zio Ciro si fece il segno della croce.
“Da questo punto ’a storia se complica: qualcuno dice che Alina aveva scritto una maledizione dietro la foto, ‘na fattura contro Titina e i figli che avrebbe avuto da Peppe, altri invece che la fattura la disse a voce, poco prima di morire”
“E questa foto che fine ha fatto?”
“Fa parte d’ ‘o mistero: nisciuno ‘o sape!”
“Ma ‘sta fattura non si può togliere?”
La vecchia sospirò liberando un olezzo di cipolla fritta.
“Le fatture fatte in punto di morte songo ‘e cchiù ‘mpicciose, però…”
Io e zio Ciro allungammo il collo come tacchini curiosi.
“… Se Titina chiedesse scusa ad Alina…”

Se avesse dovuto, che ne so, bere un infuso di sangue di drago o rubare un uovo d’oro a un gigante, sono quasi certo che zio Ciro non si sarebbe dato per vinto… ma quello era troppo!
A memoria d’uomo nessuno ricordava di aver visto la nonna scusarsi con qualcuno.
Nonna Titina era una di quelle persone a cui non importava se l’altro avesse o meno ragione… era l’altro e, quindi, aveva torto!
Non so come mi venne in mente.
Fatto sta che, prima che potessi pentirmene, cedetti all’entusiasmo incosciente dell’età e proclamai:
“Zio Ci’ non ti preoccupare: ci parlo io con la nonna!”

Nonna Titina era un mezzo busto di cartapesta ammuffito, incastrato tra l’espositore di caramelle e il minibar della Pepsi.
Quando entrai nella Tabaccheria mi scrutò con sdegno, come se la infastidissi già a sufficienza con la mia presenza.
“Che ce fai ccà?”
“Nonna dobbiamo parlare!”
“Veramente?” fece lei appoggiando gli avambracci flaccidi sul bancone. “E di che cosa?”
“Di Alina”
Calò un silenzio teso.
Ebbi la fugace visione di un bambino identico a me che scappava dalla Tabaccheria come un piccolo ladro.
“Siamo stati dalla signora Pace,” dissi tutto d’un fiato “e lei ci ha raccontato tutta la storia”
La nonna sospirò. Quando era agitata trasudava una nota acuta di sigari all’anice che quasi azzerava i bassi persistenti di ascelle sudate.
“Parla, parla” disse sparendo sotto al bancone.
“La signora Pace dice che per togliere la fattura dovresti scusarti con Alina. Mamma dice che è dei nostri peccati che ci dovremmo vergognare e non di chiedere scusa per essi…”
Rise. Una risata da strega delle fiabe, strafottente e maligna.
“Non c’è nessuna fattura!” disse riemergendo e allungandomi una scatola di sigari impolverata.
Un istante dopo nell’aria vibrò la voce di mia madre che mi chiamava sulla frequenza a ultrasuoni del rione.
“Gigginooo…”

Dopo cena mi chiusi in camera e aprii la scatola. Dentro c’era un foto di Nonno Peppe.
Lo riconobbi perché nel salone Mamma ne teneva una identica.
Solo che questa aveva una costellazione di goccioline brune che emergevano dalla superficie.
Sangue, pensai.
Quella era la foto, quella di cui ci aveva parlato la signora Pace e che Alina stringeva a sé quando si era uccisa.
Mi spostai vicino alla finestra, la voltai e cominciai a leggere.

Alina sei il mio unico amore, Titina è solo la donna che sono costretto a sposare, per mettere a tacere le chiacchiere della gente. Non provo niente per lei. Il mio amore è solo per te e sarà per sempre così. Ti amo
Peppe

Dunque è così che stavano le cose. Ma perché la Nonna aveva voluto che leggessi quella lettera?

“Non servirà a niente. La signora Pace ha detto che deve essere mamma a chiedere scusa ad Alina!”
Probabilmente zio Ciro aveva ragione, ma non mi andava di alimentare il suo pessimismo.
“Mamma dice che una buona azione non è mai sprecata!”
“Mammeta dice nu sacco ‘e cose” si lagnò Zio Ciro varcando per primo la soglia del cimitero.

La tomba di Alina era spoglia e senza fiori. C’era solo un cero rosso, solitario e scolorito.
Zio Ciro si chinò sulla lapide e adagiò il crisantemo proprio sotto la cornice ottonata della foto.
Nel ritratto Alina aveva lineamenti regolari e occhi di un azzurro così intenso da sembrare dipinti.
“Da giovane doveva essere veramente bella!” dissi.
Zio Ciro mi diede un pizzicotto affettuoso su una guancia.
“Mò però lasciaci soli!”
Era giusto così, avevano tanto di cui parlare.
Mi allontanai e mi riparai all’ombra di un salice dai rami ritorti. Mi appoggiai contro il tronco, chiusi gli occhi e annusai l’aria.
C’era un piacevole odore di gelsomino, di erba bagnata e… di sigari all’anice e ascelle sudate.
“Nonna! Che ci fai qua?”
“Chhiù luntano fuje dai peccati e cchiù sarrai stanco quando te acchiapperanno. E io so’ stanca Gigì, stanca assai”
Non c’era bisogno di aggiungere altro, la abbracciai come non avevo mai fatto prima, lei mi diede qualche buffetto sulla testa e poi raggiunse zio Ciro sulla tomba di Alina.

Nonna ha lasciato la gestione della Tabaccheria a zio Ciro. Adesso, passiamo molto più tempo insieme. Tutte le domeniche andiamo a trovare Alina al cimitero. Prima però passiamo da zio Nino, zio Luca, zia Rosa e il Nonno.
Teniamo mezza famiglia in quel cimitero e Mamma dice che pe’ mò basta.
La storia della maledizione forse era vera e forse no… Ma ormai importa poco. Ci siamo liberati da un peso, questo conta.
E adesso possiamo finalmente provare ad essere una famiglia normale.

 

Racconto “La maledizione di famiglia”  scritto da Luigi Giampetraglia
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I lunedì di LuccAutori”

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