365 giorni, Libroarbitrio

FRIGORIFERO MON AMOUR – ANDREA SERRA – MIRAGGI EDIZIONI

365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – Volevo solo morire e invece sono morto – Gianluca Pavia / Lié Larousse – DuediRipicca

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Riponi il mezzo caschetto antinfortunistica sull’appendiabiti. La mezza tuta logora, mezza maglia e lo scarpone. Lasci il gabbiotto del cantiere senza salutare. Non è che non ti piacciano i tuoi colleghi, o non ti piaccia parlare, è che loro con la bocca per intero fanno troppo chiasso, e a te pizzica l’orecchio, quindi non hai mai dato confidenza a nessuno da quando il capo, Uno-Capo, carissimo amico d’infanzia di tuo padre, ti ha compassionevolmente assunto, e figuriamoci se da quel giorno Uno-Manovale-tra-i-tanti si sia mai avvicinato per scambiare una chiacchiera con te. Pure Uno-Capo in verità non riesce a parlarci con te, e la paga, mezzo salario ovviamente, te lo fa pervenire sul tuo conto tutti i primi del mese, puntuale alle ore 8:00. Quindi lasci il tuo posto di lavoro ogni sera così, senza nemmeno mezza parola. L’occhio destro puntato a terra, svelto, con la tua sola pedata destra, cammini lungo il bordo del marciapiede diretto a casa. Segui lo scolo delle fognature senza incontrare nessun Uno da cui divincolarti, ciononostante, avverti lo stesso lo sguardo dei passanti starti addosso. Soprattutto quello dei passanti piccini.
Carini -, bisbigli,- piccoli Uno, loro sono solo un po’ curiosi, tutto qui, mentre i grandi Uno…davvero brutta gente.-
Tutti si rovinano crescendo!”, diceva sempre tuo padre quando tornavi dalla scuola deciso a non metterci più piede. Prima ti squadrano in malo modo poi un brivido di disgusto li pervade storcendogli le labbra attorno le guance, e allora indispettito e dispettoso, in quei momenti quando proprio non ne puoi più.
BUH!- esclami ancora oggi con rabbia, a volte mezzo divertito, fissandoli finché non se ne vanno per primi. Sai perfettamente cosa li mette a disagio. Non la tua parte destra praticamente identica alla loro, ma la nebulosa trasparente mancanza di quella sinistra.
Mandi un giro di chiave. Trac. E mezzo. Ac. Sfili la chiave. Marci la suola della scarpa su mezzo zerbino leggendo LCE CASA . Sorpassi l’uscio. Mandi un giro di chiave. Trac. E mezzo. Ac. Finalmente a casa, al sicuro dalla confusione, dal traffico, dal caos della città, e Intero è davvero una città caotica. Ti sei voluto trasferire nella grande metropoli anni fa, ma ora vorresti sparisse inghiottita nel vuoto cosmico che aleggia color vermiglio tra i satelliti Terra e Giove, e con lei i suoi cittadini. Intanto li chiudi tutti fuori. Afferri mezzo telecomando che t’attende tutte le sere sulla mezza mensola mezza affissa sulla mezza parete. Premi il tastino gommoso e lo riponi dove l’avevi preso. Era una parete intera prima di prenderla a picconate per mozzarla, proprio appena traslocato, ed ora è alta fino alla cinta del mezzo pantalone, così puoi vedere cosa c’è nell’altro mezzo vano senza metterci piede. Nonostante sia passato tanto tempo, le briciole di polvere del foratino arancio, di tanto in tanto, precipitano nel nulla sottostante che ti separa proprio dal mezzo vano oltre la mezza parete mozzata al di qua del mezzo ingresso. Al di là filtra la luce della sera attraverso le mezze persiane della mezza finestra, parla mezzo televisore prontamente adagiato su mezzo divano, mezzo tavolino soggiorna con gli angoli morti di sbieco svenuti su mezzo tappeto, con sopra poggiato mezzo vaso, con mezza acqua, e mezzo pesce morto a galla in fase di decomposizione avanzata. Al di qua mezzo corridoio. Due porte. Una mezza chiusa, una mezza aperta. Dalla mezza aperta s’affaccia la ceramica di un water, sporge quella di un mezzo lavandino e quella spigolosa di una porzione di vasca. Da quella mezza chiusa, non vedi niente. E’ mezza chiusa dalla parte sinistra. Ti svesti della scarpa destra col nebuloso trasparente piede sinistro, abbandoni la calzatura in direzione dell’aldilà osservando la curva liscia fronte mento collo della ceramica del water. Pensi che il tuo profilo ha un qualcosa di familiare a quel gabinetto, e che gli Uno vedano così la tua parte mancante, una verticale sinistra latrina di nebulosa trasparenza. T’incammini verso di lei lasciando una traccia umida a terra e il nulla dell’altra inesistente nebulosa trasparente pedata. Pisci mirando tutto a destra mentre osservi schizzi giallino sparpagliarsi a sinistra, e li vedi sbiadire e divenire nebulosa e poi trasparenti. Un giochetto che facevi già da bambino, quando credevi che spostandoti troppo a sinistra ti saresti perso nella tua stessa nebulosa trasparente mancanza, e chissà dove saresti finito, forse perso nel vuoto totale, e tuo padre non avrebbe più saputo trovarti. Col passare del tempo ti sei reso conto che non saresti sparito proprio in nessun luogo spostandoti più o meno a sinistra, perché a te manca proprio la parte sinistra, o meglio, c’è, ma è di nebulosa trasparenza. Raddrizzi la mira e l’unico serio pensiero è: – Meno male che il pisello è dalla parte destra del corpo,- perché pure se fino ad oggi è sempre stato solo maneggiato da te – pensa che iella non averlo proprio .
Lo riponi tutta a destra nelle mezze mutande alla “non si sa mai”, e con un misto di orgoglio e arrendevolezza vai al lavandino, acciuffi spazzolino e dentifricio e spazzoli forte mezza arcata dentale superiore ed inferiore, sputi tutto diluito dalla sola saliva, poi storcendo le labbra ciucci un po’ di liquido celeste da una bottiglietta di plastica, un gargarismo, due gargarismo, tre,
Così ha deciso di morire, senza dolore alcuno, senza la presenza di parenti o amici. Solo.-
Le parole provenienti dal mezzo televisore ti fanno trasalire.
T’asciughi la mezza bocca con la manica del mezzo cappotto che non hai ancora tolto e scivoli fuori dal bagno, senza degnarti di mezzo sguardo dato che lo specchio non c’è. L’hai frantumato. Raccolto i pezzi. E gettati. Non serve. In punta del piede, in bilico sull’uscio tra il bagno e il mezzo corridoio aguzzi l’udito.
In tutta serenità, già mille Uno hanno deciso di porre fine ai propri giorni. Il “Servizio della Dolce Morte”, come l’hanno chiamata i ricercatori dell’azienda ospedaliera Sant’Uno, ha fatto molto per chi decide di lasciarsi andare in pace offrendo servizio di trasporto assicurato da tutte le grandi metropoli, biglietti a prezzi agevolati, volatreni diretti, unica fermata: il capolinea.-
Le parole si ripetono nella tua mezza mente, sfuggono e tornano deliziose.
Lasciarsi andare in pace. Possibile? Finalmente si può morire senza sentire dolore?-
Il dolore. Già la parola stessa è terribile, figuriamoci il provarlo. Tutto qui. Non è che si deve avere chissà quale terrificante motivo o segreto indicibile o malattia incurabile per decidere di voler morire, Uno è libero di fare ciò che vuole, figuriamoci Mezzo. Così con mezzo sorriso lasci il mezzo corridoio, mentre dal mezzo televisore continua a trillare la presentatrice a figura intera del TgUno. Passi alla destra della mezza sinistra porta chiusa, ti sdrai sul mezzo letto attaccato alla parete e afferri solo mezze parole, con la mezza testa, tutta persa lontano.
Ancora rivendicazioni. Paladini della vita contro la Dolce Morte.-
Continui a sorridere mentre mezza pila di mezzi panni ammucchiati è lì lì per cedere al suo mezzo peso, il problema è che non sopporti gli armadi pieni di sportelli, e allora meglio che i mezzi indumenti stiano a terra, vicino la mezza fila delle scarpe. Destro, il mocassino, destro, lo scarponcino da lavoro, destra, la scarpa da jogging, destra, quella nera elegante mai indossata.
Ecco perché quel giorno t’ho acquistata, allora io non lo sapevo ancora, ma ora lo so!-
Minacce di nuovi attentati. Allarmi bomba nelle stazioni e sui volatreni.-
Ignorando la mezza tv, e continuando sempre di più a mezzo sorridere t’alzi in fretta, frughi tra i panni alla ricerca di mezza giacca nera, la gamba destra del pantalone di velluto nero, mezza camicia bianca, e prendi lei, la scarpa destra elegante mai messa.
Ecco, così mi vestirò per quando andrò a morire .
Riponi tutto sul letto e osservi la tua sagoma di stoffa mentre la pila crolla cadendo rovinosamente sulle calzature.
-Perfetto. Domani partirò.-
La mezza tv, continua a sproloquiare, ma ormai non ci fai neanche più mezzo caso.
Numero d’emergenza…Adesso passiamo alla FormulaUno.-
Ti volti, t’avvicini alla mezza cucina a gas e dalla busta di carta del pane aperto prendi un grissino,vai alla mezza scrivania adagiata prima del mezzo letto alla stessa parete, ti siedi sul mezzo cuscino, ingurgiti il grissino, apri il cassettino destro, prendi carta e penna e. E il mezzo sorriso si chiude in una mezza “o” di disapprovazione, diciamo una “c”.
Si mostra in bianco e nero mezza capigliatura pettinata all’indietro, un occhio, destro, narice, destra, labbro superiore ed inferiore carnoso, destro, un puntino nero su mezzo mento, mezza faccia destra insomma, una fotografia stampata tagliata verticalmente e relegata in mezza cornice. Il regalo di tuo padre per i tuoi diciotto anni, o almeno secondo lui quello era il tuo diciottesimo compleanno. Perché Uno Papà ti ha trovato sulla spiaggia abbandonato. In un primo momento gli eri parso un corallo gettavo sulla riva dalle onde, e siccome Uno Papà ha una collezione infinita di conchiglie e frutti del mare ormai estinti, nell’affrettarsi a reperire quel piccolo tesoro si è accorto di te Mezzo, essere di non si sa quale specie, solo quando già ti aveva preso tra le mani. Così questa la tua prima fotografia dei tuoi probabili diciotto anni e sapendo che lui aveva buone intenzioni non l’hai mai gettata. Ti era bastato nasconderlo quel dono, in fondo al cassetto, sotto fogli di carta che solitamente non usi. Perché odi scrivere pure se l’ami profondamente, il problema è che sei mancino. Non destrorso, e quindi non ne sei capace, non ne sei mai stato capace di raddrizzare la calligrafia d’illeggibile nebulosa trasparenza, neanche con l’aiuto del tuo Uno Papà che si metteva lì vicino a te e ti faceva scrivere infinite volte, sono destrorso sono destrorso, fino a che tu poi esasperato: – E no!- Gli urlavi.- E no Uno Papà, non lo sono!-
Perciò finite le scuole, se non proprio per un esigente esigenza, hai smesso di scrivere. Ora invece, due parole di saluti e ringraziamenti al tuo Uno Papà vorresti proprio scrivergliele. Ma ti blocchi di nuovo. Osservi quei lineamenti. Appartengono a te. Tu sei Mezzo. Sei il mezzo di ogni cosa. L’altra metà? L’altra metà di ogni cosa? Sei nato senza. Hai imparato a vivere senza, quindi non serve.
Non ti serve?
Ancora te lo domandi.
E ancora non trovando risposte né soluzioni quando c’è di troppo attorno a te, lo tagli via.
Gli altri sono Uno. Quelli che vivono facendo caos nel caos.
E tu invece sei solo Mezzo. Mezzo nella terra degli Uno che vive nella caotica città di Intero.
E fa male.
Fa male nella mezza mente, tra le mezze parole che non ti escono, come le lacrime che non piangi, forse perché il cuore non è come il pisello, non lo puoi ripiegare da un lato, lui sta tutto a sinistra, e forse tu neanche ce l’hai un cuore, o forse è solo nebulosa trasparenza.
Passi mezza nottata in bianco ad arrovellarti su questo quesito, ma quando spunta mezza alba, per carità, basta, e mezzo eccitato infili la chiave. Ne mandi un giro. Trac. E mezzo. Ac. Osservi la tua “LCE CASA” , pensi alle forbici, ai coltelli, alle accette, alle seghe e che grazie al “Servizio della Dolce Morte” non ne avrai più bisogno. Poi mezzo sorridi, di nuovo, perché il pensiero che tutto stia per finire indolore è così leggero e confortante da sognare che la “Dolce Morte” sia una bella ragazza, e sempre sorridendo pensi che con la iella che hai sarà Una-Stronza, ciononostante sei pronto per la partenza. E t’incammini alla stazione del volatreno.
La carrozza è mezza vuota, l’altra metà è occupata da Uni e Une nei loro splendidi abiti interi sfoggiando sorrisi completi di chi ha una vita che è Una. Raggiungi il tuo posto vicino al finestrino. Punti l’occhio fuori. Guardi in alto perché sotto è un precipizio di binari e ti da’ il voltastomaco.
Fuori ha iniziato a piovere. Bella la pioggia. Quando piove provi un gran gusto nel camminarci sotto. Che cada fitta e sottile, grossolana ed impetuosa, è comunque tiepida la pioggia. Ti lasci colpire dalle gocce che si spaccano librandone altre più piccine. Ti piacciono le cose piccine. Un picchiettio che t’accarezza spargendosi dappertutto e dappertutto ti bagna scivola e si mescola alla tua nebulosa trasparenza, e un brivido ti percuote lungo mezzo collo fino a sotto il mezzo mento e ancora più su. E’ come ricevere un mezzo bacio. A volte credi che dare un mezzo bacio possa essere bello come riceverlo della pioggia.
– Ciao.-
Trasali dal dolce pensiero. Infastidito ti volti. Una-Bambina è seduta al posto libero affianco al tuo. Non le rispondi, torni a guardare fuori attendendo che si accorga del tuo essere Mezzo e che se ne vada spaventata o in lacrime o terrorizzata, scegliesse lei.
– Ciao.- Insiste.
Prendi aria dalla narice e pensi ma questa Una-Bambina non ce l’ha una Una-Mamma, o un Uno-Papà? E nel mentre dei tuoi pensieri la senti lasciare il sedile piano piano. Deve averti visto ed è fuggita pensi.
– Ohi, t’ho detto “ciao”, ma che sei sordo?-
Davanti il tuo unico destro occhio Una-Bambina ti guarda con l’arcata sopraccigliare incurvata come un punto interrogativo, il naso arricciato, le labbra in una smorfia buffa e ti tiene la mezza bocca tra la sue piccole dita scuotendoti il mezzo viso.
– Ohi? Ma che sei morto?-
Ti scosti come impaurito, atterrito, no, di più, terrorizzato, e qualcosa prende a scombussolarsi tutto nella mezza nebulosa trasparenza, rimbombando nella mezza mente.
Lei scivola a terra. Si ritira su. Sale di nuovo sulla tua gamba destra, si siede sul tuo ginocchio, ti squadra da capo a piede tutta la mezza sinistra, poi storcendosi tutta osserva la mezza parte destra.
Tu sei immobile spaventatissimo ed incredulo.
Lei fissa con le mani sulle sue ginocchia e la testa curvata a guardarti nell’occhio. S’avvicina, piano piano, e: – Buh!-
Tu sobbalzi.
Lei ride ricadendo indietro ma l’afferri per il braccio giusto in tempo.
– Allora sei vivo!- Esclama.- E perché non mi rispondi? Sei sordo?- Ti strilla nell’orecchio che a momenti non ti ci rende lei, mezzo sordo.
Scuoti la mezza testa ancora sconvolto accennando un velocissimo “no”.
– Ho capito! Allora sei muto?.-
Agiti lo stesso “no”, ma lentissimo questa volta.
– Mmh, strano però, perché non parli allora?- Poi si sistema di nuovo cavalcioni e si riavvicina piano piano al tuo occhio.
– Il tuo occhio è grigio come il tempo fuori, io ho gli occhi castani guarda.-
E si spiaccica le mani sulle palpebre e stira la pelle giù sulle guance e ti fa pure la linguaccia.
– Vedi?-
Accenni un sì col mezzo volto.
– A scuola un compagno, il più antipatico di tutti, e pure il più brutto, mi dice sempre che sono marroni color cacarella, e allora io gli do un pugno sul naso .
E mima la scena e ti tiri indietro non si sa mai ti colpisca.
– Io mi chiamo Luce di Luna, come la stella, quella famosa, che è morta quando è morto pure la stella di nome Sole che faceva la luce gialla. Io so tutta la storia. Tu la conosci?-
Fai “sì” con la mezza testa, sempre senza proferire mezza parola.
Tre Uni in lunghi cappotti neri entrano trafilati nella carrozza un attimo prima che il
dondolio anticipi la partenza del volatreno. Tossiscono, bisbigliano l’Uno nell’orecchio dell’altro Uno.
La voce stereofonica avvisa di sedersi ed allacciare le cinture. Tu osservi la Una-Bambina di nome Luce di Luna seduta sulla tua gamba. Lei ti strizza l’occhio e sguscia a velocità di biscia sul sedile di fianco che già s’è allacciata le cinture, abbassa il bracciolo che vi separa, afferra la tua cinta, l’allaccia avendo cura di racchiudere al suo interno la tua nebulosa trasparenza che oscilla al dondolio della pre-partenza. Tu non fai mezza mossa. T’accorgi che sulla testa indossa un occhiale con le lenti scure e un po’ arancio, a mo’ di ferma capelli. Luce ti osserva non facendo altro che sorridere che quasi fa fare mezzo sorriso pure a te, se non fossi preoccupato per tutto quell’agitarsi nella nebulosa trasparenza, che lo senti pulsare anche in gola, nelle tempie.
Luce, cala l’occhiale sul naso, prende aria, ci gonfia le guance e stringe i braccioli con forza. Tu le copi le movenze, prendi aria, ci gonfi la mezza guancia e niente, il bracciolo a sinistra non lo puoi stringere, è come il cuore, nel lato sbagliato di un essere mezzo sbagliato. I denti di Luce battono fortissimo e fanno volontariamente confusione. Tu serri la tua mezza bocca e ci tieni i denti chiusi dentro e silenziosi. La discesa ad altissima velocità vi spiaccica i corpi sui sedili. Le guance di Luce sventolano lasciando libere praline di saliva, la nebulosa trasparenza s’allarga scontrandosi con tutto ciò che incontra. Il lancio. Partiti.
– Figooooo.- La voce di Luce irrompe nell’aria e nel tuo voltastomaco che s’agita volendo mezzo scapparti fuori. E ride forte “AHRAHRAHRAHRA” di quella risata di tutte le note allegre e gutturali, e mezzo ridi di cuore anche tu, respingendo in dentro il conato, con le note dell’aria che entra ed esce in un “HSHSHSHSHS”.
E la guardi con l’occhio che t’inizia a luccicare bagnandosi, e non capisci il perché, ci si sarà cacciata un po’ di polvere dentro, ma lei continua a ridere e non ha idea di quanto ti ricorda Brio. Brio, Una-Amichetta del cuore. Brio Una-Compagna di giochi, l’unica che aveva avuto il coraggio di sederti di fianco, allo stesso Uno-Banco vuoto per metà, quella sinistra. Brio che giocava sempre con te, e ti stava sempre appiccicata anche se gli Uno-Genitori non volevano. O almeno, ti era rimasta vicina fino al giorno dell’incidente, fino al giorno in cui volle essere come te, il giorno in cui per la prima volta Uno-Papà ti guardò con lo sguardo inevitabile.
Era triste, arrabbiato, ma tu non lo potevi sapere che Una non diventa mezza, neanche se la seghi per verticale. Uno-Papà di Brio, nonché Uno-avvocato, non si era fatto mezzo scrupolo, e adesso Uno-Papà campava con sola mezza pensione in una mezza pensione. L’incidente. Avrai avuto probabilmente cinque anni, perché quanti anni hai veramente nessuno lo sa, all’epoca iniziasti a tagliare a metà ogni cosa intera, creando non pochi disastri e disagi al povero e buono tuo Uno Papà. E lui che esasperato t’urlava dietro
– Mai una volta che ti venisse in mente di ricostruirle le cose!-
Povero Uno-Papà che si ritrovava per casa mezzo litro di latte, mezzo chinotto, mezza passata di pomodoro su mezza fetta biscottata e sul pavimento della cucina appariva a fine giornata un’opera d’arte astratta. Mezzi libri uguale mezzi voti. Cercavi d’assomigliare alle cose o almeno che loro somigliassero a te. Ma niente. La difficoltà poi aumentava dal tuo incaponirti che l’unico verso giusto era quello verticale. Nessuno ti capiva. Ormai neanche più il tuo Uno-Papà, sempre più stanco e demoralizzato. Ma lei, Brio, sembrava avesse una risposta per tutto. La sapeva lunga lei, figlia di Uno-Avvocato e Una-Chirurgo. Un giorno durante la ricreazione ti si piazzò davanti con la pagina strappata della rivista di medicina a cui era abbonata la sua Una-Mamma. Riportava l’immagine di due Une-Sorelle-Gemelle-Siamesi, in un riquadro erano attaccate, in un altro staccate. Sotto la scritta POST OPERATORIO la descrizione dell’intervento nei minimi particolari più gli strumenti utilizzati. E Brio, che la sapeva proprio proprio lunga, da dietro la schiena ti mostrò la valigetta della Una-Mamma con tutti gli attrezzi chirurgici.
– Ta tannnn!-, esclamò.
Certo è che non c’erano proprio tutti tutti gli strumenti medici, ma almeno i più importanti sì. Gocce di Dormibenventiquattrore, pinze, ovatta, disinfettante, garze, filo per sutura, ago e grappette ma soprattutto il bisturi. Ricordi perfettamente la convinta risposta che ti diede alla tua incerta domanda.
– Ma sei sicura?-
– Sì! Voglio essere come te. Mezza.-
Le passasti la soluzione disinfettante dalla testa ai piedi con le garze dal liquido rossastro imbevuto. Ovviamente, verticale.
– Ahi mi pizzica l’occhio!-
– E tanto non ti servirà più tra poco. Brio fai ancora in tempo a ripensarci.-
– Ti ho detto che voglio essere Mezza! E non chiamarmi più Brio. Comincia a chiamarmi Io e passami le goccine per favore.-
– Pensi che sentirai tanto dolore?-
No, non credo. Qui c’è scritto che hanno somministrato gocce tranquillanti pre-operazione.-
– E poi?-
– E poi boh, non lo so. Segue sull’altra pagina, ma io non ho fatto in tempo a strapparla via questa mattina, ma ho letto ieri. Iniziata la conta si sono subito addormentate per un po’ di ore, le hanno tagliate, e quando si sono svegliate erano divise. Quindi tu conta, taglia e sbrighiamoci!-
– Scusa di quante ore di sonno si parla?-
– Non me lo ricordo, uffa quante domande, facciamo che appena hai fatto mi dai due pizzicotti e mi svegli, e ce ne andiamo a casa da te!-
– Va bene. Allora conto: Uno, uno-due, uno- tre, uno-quattro.-
Inspirasti col bisturi stretto tra le dita tremolanti, lo infilzasti al centro della tenera testolina di Brio. Tutto quello che accadde dopo è un avvolgersi di figure sul nastro a righe bianche e rosse del gelataio.
– Luce? Luce dove sei?-
– Sono qui mamma.-
– Lascia stare in pace il signore, mi scusi se le ha creato. –
La Una-Mamma s’interrompe all’istante. T’osserva mentre spalanca bocca e occhi all’unisono e caccia un urlo così forte di terrore che nemmeno stesse per finire il mondo, e Intero, o stesse assistendo all’implosione di Sole e Luna, o allo zampillare di sangue fuori dal cranio di Brio. Forte così forte che a te, Luce e a tutti i presenti vi tocca tapparvi gli orecchi.
Tranne i tre Uno-con-la-giacca-nera. Quelli se ne stano lì in piedi, alla testa del vagone a controllare l’ora sull’orologio. A battere i piedi a terra. Ad asciugarsi la fronte.
Mamma, cosa urli?- Chiede Luce.
Allontanati da quel…quel…quel mezzo coso.- Implora Una-Mamma portandosi le mani al volto.
Te lo eri promesso alla maggiore età che te ne saresti andato lontano a crearti la tua giusta mezza vita, proprio per non sentire mai più urla disperate come queste.
Luce ti guarda, guarda tutta la tua mezza figura, e pure l’altra di nebulosa trasparenza, come se ti stesse valutando per la prima volta. E dal sorriso che le riempie il visino, non deve essere una brutta valutazione.
– Ma mamma, non è un “mezzo coso”, è un Uno-Mezzo. –
La madre rimane pietrificata. Luce ti sorride e stringe il tuo braccio sinistro, o quello che dovrebbe esserci sotto la nebulosa trasparenza, e quella cosa che strepitava tanto nel tuo mezzo nulla sinistro ora ha aumentato il volume. E senti che si stringe, e rimbomba, e qualcosa di caldo scivola via dall’occhio destro, e pure da quello che dovrebbe essere il sinistro.
Scusa, ma Una-Mamma è un po’ nervosa, stiamo andando a salutare Una-Nonnina. Sai, è molto malata, e vuole andare in un posto dove starà meglio. –
I tre Uno-in-giacca-nera si lasciano scivolare via le giacche mentre pensi che questa Una-Bambina è proprio simpatica.
Ti asciughi la guancia destra, ma lei non ha finito.
E tu, vuoi andare anche tu nel posto dove si starà meglio?
Gli altri viaggiatori iniziano ad urlare, ma tu non te ne curi, quella domanda ti è esplosa dentro, e lo spostamento d’aria ti scombussola la mezza mente.
Sì. Forse. Non lo so.- Sussurri appena, che qualcosa ti blocca la mezza gola, t’inchioda le parole al mezzo palato.
Allora se non ci vai, dopo ti va di giocare un po’ con me?
Le senti appena quelle parole. La carrozza è tutto un urlo e un battere di mani sul vetro e la sirena del freno d’emergenza che qualche Uno ha tirato.
Certo.- Ti sorprendi delle tue stesse parole, mentre segui Luce scivolare dal sedile, prendere la madre per mano e sedersi con lei qualche fila più in là, proprio a pochi metri dai tre Uno-con-la-giacca-nera che non hanno più la giacca, ma uno strano gilè pieno di fili e lucine.
Le mezzo sorridi mentre il più alto fa un passo in avanti stringendo nelle mani quello che sembra un telecomando, mentre fuori Intero oscilla sotto il vagone del volatreno, mentre quella morsa a sinistra si scioglie irradiandosi in tutto il corpo, visibile e nebulosa trasparenza. E ancora le mezzo sorridi mentre Uno-con-il-telecomando urla: – Viva la vita, a morte la Dolce Morte.
E Mezzo, sorridi, mentre pensi che volevi solo morire e invece…l’esplosione ti strappa dal tuo Mezzo pensiero.

Racconto “Volevo solo morire e invece sono morto”
scritto da Gianluca Pavia e Lié Larousse – DuediRipicca
scelto per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Copertina del libro Poker d’incubi di DuediRipicca
edito da AlterEgo edizioni, con prefazione di Paolo Di Paolo
Se desiderate la copia firmata dagli autori potete scriverci a:
duediripicca@yahoo.com

Potete acquistare il libro con all’interno il racconto vincitore del Premio
“Racconti nella Rete 2016” in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link  http://www.alteregoedizioni.it/poker-dincubi/

DuediRipicca

#Pokerdincubi
#Alteregoedizioni
#PremioRaccontinellaRete

 

365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori- Isbraa e Tabush – Diana Salvadori

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Piove. Piccoli ticchettii sulla stoffa sopra la mia testa. È già mattino, lo vedo nella trasparenza della tela verde.
Non ho voglia di alzarmi, sto bene qui distesa al calduccio. Tabush, il mio giovane gatto bianco e rosso, è raggomitolato ai miei piedi, li scalda. Guardo i piccoli movimenti della stoffa mentre le gocce la spingono in basso. Penso al sole delle mie strade, mentre andavo a scuola, e ridevo con la mia amica.
Ci piacevano due ragazzi: Tadir e Monder. Loro, ci sorridevano, noi, non potevamo guardarli ma li sentivamo, vicini, curiosi. Così facevamo sempre la stessa strada, per farci trovare, farci vedere. Eravamo promesse spose, allora, ma la vita, poi, ci ha fatto arrivare fin qui, al confine.
Tabush si muove, agita la coda, per farmi capire che si sta svegliando, ma resta sui miei piedi; anche lui non vuole uscire.
Mi piaceva tanto Tadir, aveva occhi neri, lunghi, leggermente a mandorla. Un gran sorriso, mani magre e decise. Parlava poco, stava fermo con gli altri uomini a osservarmi. Sentivo che lui era diverso, lui guardava proprio me. Quella me nascosta, segreta a tutti, quella dei sogni.
Tadir sorrideva poco, ma mentre mi guardava, lo sentivo sorridere, per me. Sorrideva, come me, dei sogni.  Sì, anche Tadir sognava, di diventare un bravo calzolaio, o meccanico, di essere un giovane marito, di danzare euforico al mio fianco. E poi, tanti bambini, maschi e femmine. Forse, lui guardava in me, i miei sogni.
Tabush si allunga, si stira, mi fa leggere fusa sulla pancia, io rido, il suo pelo mi fa il solletico. Qualcuno fuori urla che sta arrivando il cibo.
L’ultima volta che ho visto Tadir, la mia amica mi ha detto: “Ti ha scritto una poesia, è sotto il sasso al ponte delle pietre, dai, corri, andiamo a prenderla”. Ero a casa, Tabush sdraiato al sole mi ha seguito, ha giocato con le pietre mentre io leggevo: “Mia cara Isbraa, il suono del tuo nome è nel battito del mio cuore, quando si fermerà, mi troverai nel tuo battito.”
Tabush mi sale sul viso, si struscia sul mio naso, mi lecca una guancia.
Oggi non so dove sia Tadir.
Mentre facevo la valigia, ho preso la sua poesia, l’ho riletta; ho piegato il foglio nove volte, in segno di buon auspicio, ho preso il cofanetto azzurro e lì l’ho riposto. Ora è sotto il mio cuscino.
Alla partenza, Tabush era nervoso, miagolava e graffiava le mie gambe, si aggrappava alla valigia. Ho preso uno scialle, fine, l’ho arrotolato attorno al suo collo, lui si è calmato. Ho accarezzato il suo pelo rosso e bianco e gli ho detto: “Tu e Tadir venite con me”.
Qui, a Idomeni, non ho ancora visto la mia amica e neppure il mio Tadir.
Lei, prima di partire, mi ha lasciato un suo diario, dicendomi: “Isbraa, non scordiamoci di noi”. Anche lei, di poche parole.
Tabush ora vuole uscire, io lo controllo, ho paura di perderlo, così me lo coccolo ancora un po’ mentre gli metto il suo piccolo scialle.
Fuori non piove più, siamo in tanti, oggi sappiamo dove siamo, domani lo scopriremo.
Io spero di ritrovare la mia amica. Io spero di sposare Tadir.
Tabush mi aiuterà.

Racconto “Isbraa e Tabush”  scritto da Diana Salvadori
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

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Opera pittorica
– L’attesa –  Lucio Fontana – 1965

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi,
in tutte le librerie a distribuzione nazionale
oppure on line al link di seguito:
http://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/racconti-nella-rete-2016

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I Lunedì di LuccAutori – Il corredo – Giusi Scerri

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Oltrepassavano i muri con i loro suoni, cadenzati e acuti, inseguendosi nell’aria fino ad arrivarle alle orecchie. Ascoltarli, era quello che più le piaceva sentire, quando la mattina tornava su questa dimensione. Ogni giorno era l’inizio di una avventura nuova, non si aspettava niente, ma era certa che tutto fosse là ad aspettarla. Un tintinnio di porcellana, due donne, le loro voci lontane quel che bastava per non sentire le parole. Profumi di timo, pomodoro a soffriggere, odori che arrivavano lenti e intensi fin dentro il sonno della domenica. Uno sbattere di sportello, frammenti di risate, rumori di passi, in cucina la vita era già iniziata, mentre, accovacciata tra le lenzuola, assaporava le impronte dei sogni appena lasciati.

La luce filtrava decisa dalle persiane verdi a indicare che ora di alzarsi, eppure, Caterina, preferiva indugiare, come se avesse paura di consumare troppo in fretta la giornata, o che essa, vivendola, deludesse le aspettative che in quel momento erano lì custodite e da ammirare.
Era un rito alzarsi, poggiare i piedi sulle mattonelle fresche, indugiare a sentire l’aria sulle gambe, il tempo fresco e dilatato dei giorni di festa.
L’armadio bianco a tre ante era posto davanti al letto, leggero e incombente allo stesso tempo.
Caterina apriva le finestre per lasciare entrare la luce naturale del giorno e il cinguettio degli uccelli sembrava invadere la camera insieme al caldo del sole dei primi giorni d’estate.
Ora avrebbe avuto tutto il tempo per “ammirare” quel piccolo tesoro, distribuito, sui due ripiani a sinistra dell’armadio.
Nel momento in cui si aprivano le ante il profumo di lavanda e di canfora anticipava, alla vista, quello spettacolo di colori.
Scatole fiorite, buste lucide, pile di asciugamani rilegate con fiocchi rosa e bianchi, lenzuola ricamate, “strofinacci” da cucina, con disegni naif, che portavano lontano la fantasia.
Quando le mani arrivavano a poggiarsi sulla prima pila di spugna, indugiavano ad accarezzare quella morbidezza, ogni colore pareva dare sulla pelle una sensazione diversa.
Poi con cura, Caterina, cominciava ad appoggiare le scatole ancora chiuse sul letto, alcune contenevano camicie da notte ricamate, forse da riservare ai viaggi o a quando sarebbe diventata mamma. Le camicie di seta, invece, scappavano dalle mani un po’ tremanti per la paura di sciuparle, cangiavano alla luce e la voglia di indossarne qualcuna e guardarsi allo specchio era troppo grande ogni volta.  Ve ne era una in particolare, color amarena, che metteva in risalto la sua pelle bianca, sembrava un vestito da sera, era bello specchiarsi e riconoscersi.
Successivamente, con lentezza e soddisfazione, le riponeva nelle scatole raccogliendole nella velina, uno scricchiolio lieve nel ripiegare i suoi tesori.
A seguire tirava fuori i completi da cucina e le lenzuola, quando voleva essere più audace, le portava al viso per annusarne l’essenza fiorita della vita futura.
Quali tavole avrebbero apparecchiato quelle tovaglie? quali letti avrebbero abitato le lenzuola?
Il cuore sembrava scorrere dal petto alla gola e dalla gola al petto, quando sentiva un rumore arrivava inaspettato, indugiava qualche minuto e quando era certa di non essere sentita, con delicatezza, riponeva tutto al suo posto nell’armadio: “i loro incontri dovevano rimanere segreti”.

Quando la nonna portava a casa un nuovo pezzo del corredo, Caterina si sentiva orgogliosa, sapeva che ella aveva fiducia in lei, che la riteneva importante come donna e come portatrice di vita. La nonna sapeva che avrebbe mutato forma un giorno, che forse sul momento non l’avrebbe capito appieno quel gesto, ma sentiva che ne stava cogliendo l’importanza.
Aveva traslocato dalla casa della sua infanzia ormai da anni e fu così impegnata a vivere, che non si accorse del tempo che passava veloce, parte del corredo fu usato, altro andò materialmente perduto, eppure, si rese conto che il ricordo che restava di esso lo sorpassava, oltre le stagioni e i ricordi, il gesto, restava indelebile.
Caterina aveva sviluppato la consapevolezza che il “corredo” non sarebbe mai andato perduto, che la cura con la quale era stato messo da parte, anno dopo anno, fino ad arrivare a lei una volta diventata grande, le aveva dato la sicurezza e la fiducia, che le generazioni che l’avevano preceduto la stessero pensando e le dessero sostegno.
Spostandosi in uno spazio speciale ringraziò sua nonna e capì quando le diceva: “Ti verrò in mente tante volte e dirai, la mia nonna aveva ragione”. La nonna ne aveva già fatto esperienza e con amore lo comunicava a quella bambina che con gratitudine avrebbe tramandato il suo corredo.

 

Racconto “Il corredo”  scritto da Giusi Scerri
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi,
in tutte le librerie a distribuzione nazionale
oppure on line al link di seguito:
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365 giorni, Libroarbitrio

Volevo solo morire e invece sono morto – DuediRipicca …a Prato!

Domani Sabato 26 novembre Racconti nella Rete sarà a Prato
alle 17:00 alla libreria Giunti presenti alcuni dei vincitori del premio letterario con intervento di Demetrio Brandi.
Sarà proiettato il cortometraggio “Tale padre tale figlia” di Alex Creazzi, vincitore della sezione corti 2016. Le letture saranno a cura di Lorella Paola Betti e Alessandra Giuliana Marson dell’associazione culturale Nuova Colmena.
Accompagnamento musicale di Marzio Matteoli.
Vi aspettiamo!

365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – Centodieci – Valentina Grosso

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Era un’estate di quelle che sembravano non finire mai. Pepè e Giacomo non ne volevano sapere di stare in casa e così sgattaiolarono fuori. Le strade del paese, a causa della calura opprimente, erano deserte. Anche la signora Nenè che era solita starsene sulla sua sediolina, ai bordi della strada, a sferruzzare, si era rifugiata in casa. Se non fosse stato per le loro risa e il rumore dei loro passi sul selciato, ad un forestiero arrivato per caso sarebbe sembrato un paese deserto. Un po’ era così infatti, in tanti erano andati via, chi per scelta propria e chi no, ma la cosa che avevano in comune era che nessuno vi aveva mai fatto ritorno. Un po’ come loro padre, oramai erano quattro anni che mancava da casa, ma la madre era convinta che prima o poi sarebbe tornato. Così ogni sera accendeva un lumino rosso sotto la sua foto, s’inginocchiava e con il rosario tra le mani, pregava sottovoce.
Correvano a perdifiato, giù per i ripidi vicoli che portavano verso valle, ridevano ed erano contenti. Passarono dietro il casolare un po’ fatiscente dello zio Natale e recuperarono il pallone di tela mezzo sgonfio. Lo nascondevano sempre li per non farlo vedere alla mamma. Era il loro segreto. La mamma li aveva messi in guardia, non dovevano accettare regali dagli sconosciuti, poteva essere pericoloso. Ma quel ragazzotto biondo e pieno di lentiggini a loro sembrava un tipo a posto, e nonostante non avessero capito una sola parola di quella sua lingua strana, avevano accettato il regalo senza preoccuparsene troppo. “Ok Guys?” e aveva alzato il pollice all’insù. Giacomo anche l’aveva imitato mettendo il pollice all’insù e lui intanto aveva preso il pallone.
Ricominciarono a correre dando calci alla palla che avanzava lungo la mulattiera insieme a loro. Ad ogni calcio si sentivano più leggeri e contenti. La spensieratezza che avevano a dodici anni dando un calcio ad un pallone non l’avrebbero mai più avuta, neanche tanti anni dopo quando continuarono a giocare nel campo dell’oratorio dietro la chiesa. Era diverso, uno sgangherato campo di pozzolana non poteva competere con l’odore degli ulivi, dell’erba tagliata da poco e perchè no, anche con l’odore del letame appena posato. Così correndo arrivarono fino all’uliveto di Padrone Milo, uno dei pochi uomini rimasti ancora in paese. Si diceva in giro che era rimasto al paese perchè aveva un difetto alla schiena e per questo non poteva correre. Se ne andava sempre in giro a cavalcioni sul suo mulo, con un fucile in mano. In paese si mormorava che fosse un po’ “tocco” perchè non parlava quasi mai con nessuno, e a qualsiasi domanda gli venisse fatta rispondeva sempre con dei numeri . “Non uno, non due, non tre ma centonove” e poi faceva ampi gesti con le mani. Nessuno capiva che cosa dicesse ma tutti sembravano trattarlo con grande rispetto.
Adesso che la radura con gli ulivi si stendeva a perdita d’occhio davanti a loro, potevano cominciare la partita. C’erano due alberi che avevano la distanza giusta tra di loro da sembrare proprio una porta da calcio a tutti gli effetti. Facevano a turno per chi stava in porta e per chi calciava. Adesso era il turno di Pepè di battere. Si sistemò il pallone davanti ai piedi con gesti da giocatore esperto che era sceso in campo migliaia di volte. Fece alcuni passi indietro e poi con tutta la forza che aveva sferrò il calcio, colpendo la palla con il collo del piede. Il pallone volò in alto, sopra la testa di Giacomo che sbracciandosi fece un salto sgraziato nel tentativo di parare la palla. Niente da fare, il pallone lo superò e … BOOOOOOM…  “Goool” urlò con tutto il fiato che aveva in corpo Pepè. “Goool” e correva in tondo con le braccia aperte e gli occhi chiusi. Così da immaginarsi il boato delle urla dei tifosi allo stadio dopo che il capitano della squadra aveva segnato.
Recuperarono il pallone, e continuarono a giocare, dandosi il cambio in porta. Anche Giacomo segnò. Anche qui un boato accompagnò il suo gol e lui correva felice tra gli ulivi come se avesse vinto la coppa del mondo. Andarono avanti così fino al tardo pomeriggio, quando sentirono in lontananza un rumore di zoccoli. Era Padrone Milo, che avanzava in sella al suo mulo, completamente ricoperto di fango ed erbacce. Sembrava molto contrariato di vederli nel suo campo e brandiva in aria il fucile. Spaventati se la diedero a gambe risalendo a ritroso la mulattiera che li aveva portati lì. Arrivati in cima guardarono indietro e videro Padrone Milo, che adesso sembrava un puntino lontano, scendere dal mulo proprio nel punto dove loro qualche minuto prima stavano giocando a pallone. Si voltarono e si diressero verso casa. Era ora della merenda.
Milo, o Padrone Milo come lo chiamavano in paese, guardò con ansia il punto dove i due fratelli poco prima stavano giocando a pallone. Aveva tentato da lontano di avvertirli, si era sbracciato facendo ampi gesti con il fucile, per dirgli di smetterla, di andare via che era pericoloso. Aveva visto come i due erano scappati, avevano paura di lui e non di quello che gli stava intorno. Sapeva che in paese tutti pensavano che fosse matto. Ma lui lo sapeva che non era così. Non era matto. Sordo si, ma tocco no.
Lui al fronte non ci poteva andare, aveva qualcosa alla schiena che non andava, così gli avevano detto i medici. Ma i suoi fratelli si, loro erano sani e tutti e cinque erano andati al fronte. Solo Catello era tornato, e aveva visto nei suoi occhi, oramai svuotati da qualsiasi barlume di vita, lo sdegno che provava verso di lui. Era rimasto sei mesi e poi si era imbarcato per il nuovo mondo. Lui però quello sguardo non l’aveva dimenticato e da allora aveva deciso che avrebbe fatto qualcosa per rendere fiero suo fratello. Per fargli capire che anche lui valeva qualcosa.
Fu così che aveva deciso di disinnescare le bombe e le mine inesplose che pullulavano nei campi intorno al paese. L’ultimo regalo che la guerra aveva lasciato a tutti quanti. Come un’ amante capricciosa dopo la fine della sua relazione clandestina, la guerra non ne voleva sapere di andarsene, non ne voleva sapere di lasciarli in pace. Te la ritrovavi davanti ad ogni passo, ogni volta che giravi l’angolo e vedevi una casa oramai disabitata, lei era lì che ti aspettava. Lui cercava di fare del suo meglio per mandarla via. Girava le campagne lì intorno, a dorso del suo mulo, scrutando minuziosamente il terreno, cercando di identificare la possibile presenza di qualche mina, nascosta dalla terra e dal tempo. Era diventato piuttosto bravo. Una volta che la trovava scavava ad una decina di metri una buca profonda, per ripararsi,  e accendeva la miccia per far brillare la bomba.
Il campo di ulivi dove poco prima stavano giocando quei due ragazzi era invaso di mine. Quegli incoscienti ne avevano fatte saltare un paio, di quelle piccoline, con il pallone ed ora toccava a lui farle saltare completamente. Cominciò a scavare la solita buca profonda qualche metro, proprio tra i due ulivi che erano serviti da porta a Pepè e Giacomo. Preparò la miccia con molta cura e allontanò il mulo. Solo allora si avvicinò e la vide. Nera, metallica, quasi lucente sotto i raggi del sole. Era facendo saltare mine che era diventato sordo. La numero trentasei era più grande del previsto e il boato lo travolse in pieno. Non sentì più nulla, solo ronzii sommessi. Per questo sembrava matto, non sentendo ciò che gli altri dicevano lui rispondeva solo con il numero di mine che aveva fatto esplodere. ‘Non uno, non due, non tre ma centonove’. Questo era il numero a cui era arrivato. Con cura attaccò la miccia, la tese bene al suolo e si nascose nella buca che aveva fatto poco prima. La numero centodieci squarciò il silenzio di quell’estate che sembrava non dover finire mai.

Racconto “Centodieci”  scritto da Valentina Grosso
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi
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365 giorni, Libroarbitrio

DuediRipicca Vincitori del Premio Racconti nella Rete – Volevo solo morire e invece sono morto – Lié Larousse & Gianluca Pavia

Abbiamo vintoooo!
“Volevo solo morire e invece sono morto” di DuediRipicca – Lié Larousse e Gianluca Pavia – è stato premiato dalla giuria tecnica della XV edizione del premio letterario “Racconti nella rete” per la nostra originalità ed inventiva stilistica fuori dal comune!
Il nostro racconto inoltre sarà inserito nell’antologia del premio 2016 edita da Nottetempo assieme agli altri racconti selezionati, verrà illustrato dagli studenti del Liceo Artistico Passaglia di Lucca ed esposto durante il festival letterario che si terrà nel mese di ottobre.
Con l’occasione ringraziamo tutti coloro che ci hanno letto e commentato, tutti voi followers che ci seguite ogni giorno, la giuria che ci ha premiato e il presidente Demetrio Brandi che con questo progetto letterario dà l’opportunità ai nuovi e sconosciuti scrittori come noi di farci conoscere al mondo della letteratura.
Le nostre congratulazioni e sentiti complimenti vanno all’amico e scrittore stimato Andrea Mauri selezionato anche lui nella rosa dei 25 premiati con il suo racconto “Un banchetto diverso”.
A novembre saremo in libreria!
Intanto vi lasciamo alla lettura della poesia scritta e dedicata al racconto premiato, perché sarà follia o sarà normalità o forse non è nulla di entrambe, perché noi siamo così senza essere così, e il senso alle cose non lo stiamo più a cercare, e allora dedichiamo parole alle parole, oltre che alla pittura  alle muse al vino agli amici e a tutto ciò che non conosciamo e invece sì, e poesiamo racconti, e raccontiamo poesie, immaginatevi un nostro romanzo, immaginatevi il poesare immorale fazioso inopportuno romanzesco raccontare nostro, ecco anche per quello, il poesare immorale fazioso inopportuno romanzesco raccontare nostro, non dovrete aspettare molto, tant’è che la raccolta di racconti è pronta, e che c’entra?Interpretazioni arbitrarie? Ne siamo tutti liberi…continuate a seguirci e a leggerci!

autoritratto-uomo-disperato- gustave coubert 1844

Che sia dolce e cruento

Guardo il mondo
da dietro uno specchio,
tipo in un film,
e oltre, l’interrogatorio
con lo sbirro cattivo
e l’altro, ancor di più.

C’è un’indagine in corso,
ormai sono coinvolto
ma il mio ruolo
non lo conosco:

vittima o carnefice
accusa o difesa,
il grado d’imputazione
neanche m’interessa.

E le giuro
signor Giudice
né colpevole
né innocente,
ma colpevole d’innocenza
o forse ingenuità.

Volevo solo vivere
e mi ritrovo a morire
tutto il giorno
tutti i giorni,
ma la prego
signor Giudice
che sia almeno
dolce e cruento.

Gianluca Pavia 

 

http://www.raccontinellarete.it/?p=28273