“I vicoli scorrono come l’acqua, si infilano in ogni interstizio, sembra regnarvi il caos, ma in realtà nella confusione vige un certo ordine. Sono estesi e allo stesso tempo densi; certi ricordano i campi di grano che, seminati dai contadini, daranno un buon raccolto; altri, invece, paiono foreste primigenie che emergono da sole e da sole si estinguono. Sono uno spettacolo magnifico.”
(Wang Anyi, “La canzone dell’eterno rimpianto”, 2011)

I vicoli delle città hanno sempre attirato la mia attenzione e la mia immaginazione: sono i luoghi dove la miseria e la ricchezza del mondo si incontrano, dove la luce e il buio si alternano creando effetti cromatici unici e irripetibili. Il mio quartiere, per esempio, è fatto di vicoli che si inanellano gli uni negli altri, da togliere il fiato. Visto dall’alto appare come un grande labirinto, un susseguirsi di case che sembrano spuntare dal nulla, sospese in una nebbia rarefatta. La sera fanno un po’ paura, emettono un suono strano: un tonfo nel silenzio che non saprei descrivere, un suono che l’umidità dell’asfalto sembra rendere sordo, eppure, quando non è rotto da qualche cane che abbaia solitario, è inconfondibile. Il giorno puoi vedere i bambini giocare a palla e le signore stendere i panni su quei fili che come lunghe braccia che tendono le une verso le altre, arrivano a toccarsi e a unire due punti della strada altrimenti estranei. Su quei fili, insieme alle mollette e alle lenzuola di lavanda, corrono fiumi di parole e risate rumorose, insieme a qualche sogno appeso e mai raccolto, e una o due sigarette avvizzite dalla pioggia che, quando cade su questi vicoli, lava via tutte le brutture e sembra dare speranza alle piantine assetate che, ostinate e coraggiose, si ergono minute da qualche buca mal richiusa.
Ogni città ha questa sua anima segreta: seguendo le intricate linee di questi capillari si può scendere in profondità primigenie, dove si può incontrare una vecchia signora seduta su una sedioletta, piccola come lei, che guarda incuriosita i passanti sconosciuti porgendo un cordiale saluto. Ne ha viste tante la vecchietta: quel vicolo è metafora del mondo, a pensarci bene, e da vecchi sembra un posto ideale per interrogarsi sulla vita.
I vicoli delle grandi città sono ancora più vivi, secondo me, brulicano di un’umanità vitale e speranzosa, semplice, come quei fiori non rari che crescono un po’ dappertutto. La metropoli sembra stagliarsi minacciosa su questa rete di strade più modeste, più raccolte, più intime, e penso che in fondo, proprio per questo, le invidi anche un po’. A Pechino, per esempio, coglievo ogni momento possibile per andare a farmi un giro in quelle stradine dimenticate dove non tutti i turisti osano passeggiare. Mi sarò persa, per fortuna, almeno una decina di volte, presa dalla bellezza inspiegabile degli Hutong: formati dall’unione di più siheyuan fra loro, cioè case formate da quattro padiglioni separati, ai lati di un cortile centrale. Le porte sono sempre aperte e se gli abitanti ti prendono in simpatia, ti lasciano anche sbirciare tra le pietre grigie e le lanterne rosse di buon augurio. Quei luoghi sanno essere così saturi da esploderti negli occhi: ci sono tante cose ammassate, ammucchiate, ma con un loro ordine intrinseco; c’è una voce antica, una conoscenza primordiale, che si mischia senza sosta al sapore delle speranze future e al suono degli smartphone che non riposano mai. Ogni volta mi sembrava di ritrovare un po’ di “pace”, un po’ di “casa” anche dall’altra parte del mondo.
I vicoli sono stupefacenti e prosaici, custodi delle piccole cose di tutti i giorni e dei più grandi ideali. Le case, a volte, sono così attaccate che le mura diventano fogli di carta dove qualcuno, forse, si divertirà a scrivere qualche verso sbilenco, ma vero come la vita. Perdersi fra queste strade è un ritrovarsi continuo, un tornare con i piedi per terra senza perdere lo slancio verso l’infinito.
E voi? Quali vicoli risvegliano la vostra immaginazione, il vostro senso dello stare al mondo?
articolo di Martina Benigni
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