Venerdì 25 marzo a Roma, presso la Biblioteca della Camera dei Deputati, l’autrice Lié Larousse interverrà con un breve discorso poetico sulla Pace per la Giornata Mondiale della Poesia evento diretto ed organizzato dalla F.U.I.S
Attraverso la voce di Lumas, giovane sedicenne ottocentesca rappresentata nel romanzo RID DEMENTIA, Lié porta alla luce la crisi di pensiero adolescenziale in una chiave psicologica e animica.
Di seguito un breve estratto: “Lumas questa notte, come ormai le ultime notti passate, non riesce a dormire. Scende dal letto, si avvicina alla finestra che dà sul mare, fuori l’aria è salmastra, qui, dentro di lei, un pensiero non le dà Pace. La Pace. Come si vive in Pace se siamo in lotta nel nostro cuore, nella nostra mente, ogni giorno. Come possiamo puntare il dito contro le ingiustizie del mondo quando siamo noi i primi ad essere ingiusti, con noi stessi, addirittura con i nostri cari, o con il nostro vicino di casa o di Paese. Come possiamo essere tanto ipocriti? Lumas immaginò di capire…”
“I vicoli scorrono come l’acqua, si infilano in ogni interstizio, sembra regnarvi il caos, ma in realtà nella confusione vige un certo ordine. Sono estesi e allo stesso tempo densi; certi ricordano i campi di grano che, seminati dai contadini, daranno un buon raccolto; altri, invece, paiono foreste primigenie che emergono da sole e da sole si estinguono. Sono uno spettacolo magnifico.” (Wang Anyi, “La canzone dell’eterno rimpianto”, 2011)
I vicoli delle città hanno sempre attirato la mia attenzione e la mia immaginazione: sono i luoghi dove la miseria e la ricchezza del mondo si incontrano, dove la luce e il buio si alternano creando effetti cromatici unici e irripetibili. Il mio quartiere, per esempio, è fatto di vicoli che si inanellano gli uni negli altri, da togliere il fiato. Visto dall’alto appare come un grande labirinto, un susseguirsi di case che sembrano spuntare dal nulla, sospese in una nebbia rarefatta. La sera fanno un po’ paura, emettono un suono strano: un tonfo nel silenzio che non saprei descrivere, un suono che l’umidità dell’asfalto sembra rendere sordo, eppure, quando non è rotto da qualche cane che abbaia solitario, è inconfondibile. Il giorno puoi vedere i bambini giocare a palla e le signore stendere i panni su quei fili che come lunghe braccia che tendono le une verso le altre, arrivano a toccarsi e a unire due punti della strada altrimenti estranei. Su quei fili, insieme alle mollette e alle lenzuola di lavanda, corrono fiumi di parole e risate rumorose, insieme a qualche sogno appeso e mai raccolto, e una o due sigarette avvizzite dalla pioggia che, quando cade su questi vicoli, lava via tutte le brutture e sembra dare speranza alle piantine assetate che, ostinate e coraggiose, si ergono minute da qualche buca mal richiusa.
Ogni città ha questa sua anima segreta: seguendo le intricate linee di questi capillari si può scendere in profondità primigenie, dove si può incontrare una vecchia signora seduta su una sedioletta, piccola come lei, che guarda incuriosita i passanti sconosciuti porgendo un cordiale saluto. Ne ha viste tante la vecchietta: quel vicolo è metafora del mondo, a pensarci bene, e da vecchi sembra un posto ideale per interrogarsi sulla vita. I vicoli delle grandi città sono ancora più vivi, secondo me, brulicano di un’umanità vitale e speranzosa, semplice, come quei fiori non rari che crescono un po’ dappertutto. La metropoli sembra stagliarsi minacciosa su questa rete di strade più modeste, più raccolte, più intime, e penso che in fondo, proprio per questo, le invidi anche un po’. A Pechino, per esempio, coglievo ogni momento possibile per andare a farmi un giro in quelle stradine dimenticate dove non tutti i turisti osano passeggiare. Mi sarò persa, per fortuna, almeno una decina di volte, presa dalla bellezza inspiegabile degli Hutong: formati dall’unione di più siheyuan fra loro, cioè case formate da quattro padiglioni separati, ai lati di un cortile centrale. Le porte sono sempre aperte e se gli abitanti ti prendono in simpatia, ti lasciano anche sbirciare tra le pietre grigie e le lanterne rosse di buon augurio. Quei luoghi sanno essere così saturi da esploderti negli occhi: ci sono tante cose ammassate, ammucchiate, ma con un loro ordine intrinseco; c’è una voce antica, una conoscenza primordiale, che si mischia senza sosta al sapore delle speranze future e al suono degli smartphone che non riposano mai. Ogni volta mi sembrava di ritrovare un po’ di “pace”, un po’ di “casa” anche dall’altra parte del mondo.
I vicoli sono stupefacenti e prosaici, custodi delle piccole cose di tutti i giorni e dei più grandi ideali. Le case, a volte, sono così attaccate che le mura diventano fogli di carta dove qualcuno, forse, si divertirà a scrivere qualche verso sbilenco, ma vero come la vita. Perdersi fra queste strade è un ritrovarsi continuo, un tornare con i piedi per terra senza perdere lo slancio verso l’infinito.
E voi? Quali vicoli risvegliano la vostra immaginazione, il vostro senso dello stare al mondo?
Quanto è lontano da qui il paradiso?
Sembra vicino, lo sembra alle volte
Quando spiragli ci sfiorano il viso
Nei smarrimenti di notti sconvolte
Forse la vita è soltanto una scala
Ed ogni giorno soltanto un gradino
Verso qualcosa che infine regala
La pace ed il senso del mero destino
Son contenitori di sogni e energie
I nostri corpi, che ne misurano il viaggio
Per accettarlo scrivo poesie
Le mie fantasie mi rendono omaggio
Non c’è nessun Dio che ci dà la forza
Niente è infinito così è la natura
Che così bella ci incanta e si sforza
Di farci coraggio se abbiamo paura
La sensazione di essere vivo
Che provi se guardi un cielo stellato
È il vero segnale, il gesto incisivo
Che il dono prezioso è l’essere nato
Salgo le scale sudandone il prezzo
Non c’è l’inferno, non c’è il paradiso
Ogni scalino che salgo la apprezzo
La vita ti ha dato, la stessa ti ha ucciso
Se fosse freddo come d’inverno
L’inferno che invece pensiamo di fuoco
Se fosse vivere e pensare in eterno
Il vero finale, la beffa del gioco
Se fosse calda come l’estate
La lacrima che ti solletica il viso
Se fosse l’occhio nelle passeggiate
La porta segreta che è già il paradiso
.adesso per te
vorrei essere come te per me
capace
d’afferrare con forza tra le mani
il tuo viso sfatto e indolenzito
dal cuore abbattuto a caccia,
e sparare via il buio
imbrattandoti tutto di luce e pace
ma non sono capace
se non di starmene qui
da nessuna parte e dappertutto, per conto mio
e scrivere
di desiderare d’essere
chi non so essere.
Aveva smesso di parlare.
Aveva bisogno di tranquillità, di pace.
Per far riposare la mente, il cuore, le gambe,
calmare le ansie del caos dal chiasso opprimente ed ossessivo,
e ritrovare dentro di sé ciò ch’era fuori di sé .
Voleva star bene e aveva deciso di guarire col silenzio,
ma quello buono,
che fa zittire il fischio nelle orecchie,
il pianto dagli occhi,
il tremore delle mani.
Aveva smesso di parlare per questo,
per medicarsi.
Attraversa l’anima
come una lama
e ne sonda i paesaggi
ora mesti, ora bui
dove corvi neri come pece
gracchiano così forte
da grattarti le pareti del cuore.
Percorre deliziosi giardini
decorati da candide margherite
a scaldarti da un tiepido sole primaverile.
Ma quando la sua linfa
giunta all’apice scoppia
il foglio si macchia.
Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace.
…Questo intendo quando dico che vorrei risalire il corso del tempo: vorrei cancellare le conseguenze di certi avvenimenti e restaurare una condizione iniziale. Ma ogni momento della mia vita porta con sé un’accumulazione di fatti nuovi e ognuno di questi fatti nuovi porta con sé le sue conseguenze, cosicché più cerco di tornare al momento zero da cui sono partito più me ne allontano: pur essendo tutti i miei atti intesi a cancellare conseguenze d’atti precedenti e riuscendo anche a ottenere risultati apprezzabili in questa cancellazione, devo però tener conto che ogni mia mossa per cancellare avvenimenti precedenti provoca una pioggia di nuovi avvenimenti che complicano la situazione peggio di prima e che dovrò cercare di cancellare a loro volta.
No. Non da me. Mai.
Non un passo nella vostra marcia,
non una nota nel vostro unisono,
raglio che si fa latrato.
Striscioni solcati una fiumana,
esibizioni di forza priva del voto,
strozzatevi con queste pillole in quartine.
Mai riconoscerò le vostre pretese,
neppure se innalzaste Gesù Bambino
a Presidente del Paese di Bengodi
o ululaste per l’Elisir trovato,
m’irretirebbero le vostre aspettative
di casta. Superumani nell’accusa,
vorreste reclutarmi per un mondo
di gente riempita di sputi, gente
che fugge davanti la poesia che avanza.
Qualunque sia il vostro discrimine di classe
io provengo da una assai più in basso,
un paria per le mode da voi escogitate ed
imposte. Quel che la massa fa non è mai pulito,
non all’inizio, non quando ammannito ai media,
non quando polizia. Le prime dimostrazioni
che vidi, prima degli striscioni, erano
contro di me, solo, per due anni, ogni giorno
cori, con intermezzi di semi-conciliatorie
punzecchiature, e una sussiegosa viltà morale
che affettava profonda repulsione. Il vostro
ordine del mondo l’ho scoperto allora.
Dal bosco di bambù un fresco soffio
dolcemente penetra nella mia stanza;
i chiari raggi della luce lunare
danzano briosi nel cortile.
Le stelle scintillano qua e là nel buio,
le lucciole segnalano la loro presenza,
si chiamano più in là gli uccelli d’acqua.
Io triste penso nella dolce notte
che nel mondo tutto dipende
dall’atroce guerra più che dalla dolce pace.
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