
Quell’estate, quella maledetta estate, Cesco e Lucia andarono al mare pochissime volte. In agosto la tradizionale crociera verso sud con gli amici era saltata.
Ormai era l’ultima settimana di ottobre, l’estate finita da molto, gli alberi perdevano le foglie ma in quei giorni non era ancora freddo. Il meteo quel sabato prometteva tempo variabile. Cesco voleva prendersi una pausa: “Lucia che ne dici, ci facciamo due giorni in barca? Soli, io e te. Potrebbe aiutarci a…”
“No”, l’interruppe “mi dispiace, non me la sento. Hai chiesto a Denis e Luca?”
“Hanno impegni. Potresti…”
“Non insistere”, ribatté e lo fissò come se il suo sguardo lo volesse avvertire di ovvi significati, ma che lui non volle cogliere.
“Ti spiace se vado io?”
“No. Va’ pure.”
“Tu?”
Lei non rispose.
Cesco fece per andarsene poi si girò: “Le cose succedono. Non serve…” Lei l’interruppe: “Non mi va’ di parlare. Cerca di capirlo,” lo disse con voce dura, astiosa.
Lui non aggiunse altro. Non c’era altro da aggiungere. Diede un fugace bacio sulla guancia della moglie, salì in camera, si cambiò e prese lo zainetto, sempre pronto, e partì.
Entrò in autostrada a Fornovo, il traffico era abbastanza intenso.
Viaggiava spedito, ma sempre entro i limiti di velocità: a volte i centotrenta, oppure meno.
Superato Borgotaro, forse casualmente, guardò nello specchietto e vide arrivare veloce una Bmv X6. Cesco accelerò.
‘Non farlo’, si disse.
Con quel mostro non c’era gara, ma sapeva che i successivi dieci chilometri di salita erano di curve strette e gallerie, e lì avrebbe potuto dire la sua..
‘Non farlo’, si ripeté. Nella sua mente risuonò la voce di Lucia: quante volte avevano discusso, e lei si era arrabbiata, e aveva ragione.
‘Qualche chilometro poi rallento’, si disse sapendo di mentire.
Non era solo il gusto della sfida, l’istinto della competizione, che pure aveva sempre avuto. Era di più. Era la Bestia Nera dell’aggressività. Tenuta dentro, in una gabbia di rispetto degli altri, di educazione ricevuta. Ma la Bestia Nera c’era e doveva sfogarsi in qualche modo. Negli ultimi tempi era cresciuta, diventata ingombrante.
Il cuore gli batteva violento nel petto. Le mani artigliate al volante. Gli occhi che saettavano dalla strada allo specchietto. Le gomme che gemevano sull’asfalto. A volte l’X6 lo sorpassava e subito dopo Cesco lo metteva dietro. ‘Sei uno stronzo’, si ripeteva: e lo diceva a se stesso.
Due idioti che mettevano a repentaglio la loro stessa incolumità e quella degli altri: lo sapeva.
‘Smettila’, si diceva.
Ma la Bestia Nera ora ruggiva la sua rabbia. Le gomme che stridevano era la sua voce.
Sapeva anche che dopo si sarebbe pentito, si sarebbe dato dello stupido. Sì, gli sarebbe venuto il magone a pensare quanto era stato infantile; ma questo sarebbe successo solo quando avrebbe ripreso il controllo di se stesso. In quel momento l’aggressività imponeva la sua violenza.
All’entrata della galleria del valico Cesco rallentò vistosamente, come a dire: vattene pure, io vinco nella parte ‘guidata’ non in rettilineo.
Quando sbucò sul versante toscano piovigginava.
Cesco era deluso da se stesso, doveva digerire il boccone amaro di sentirsi uno stupido.
Ma non solo quello: un dolore infinito aveva devastato la sua vita e da allora sfidava il destino con aggressività, forse con il desiderio inconsapevole di farla finita.
All’area di servizio di San Benedetto si fermò. Sentiva di doversi sciacquare la mente dalle
tossine che lo ammorbavano. Con l’auto andava lento, cercava uno spazio vuoto per parcheggiare, d’un tratto, dall’altra parte del piazzale gli parve di vederla. Il cuore si fermò, poi si mise a martellare violento. “Chiara!”, urlò. E subito si rese conto dell’assurdità di quel grido. No, non poteva essere lei. Doveva mantenersi razionale: lo sapeva. I suoi pensieri potevano diventare relitti sballottati in un mare di irrazionalità. Doveva evitarlo.
Ripartì.
Dopo Aulla il sole stava comparendo lentamente, quasi controvoglia.
Ancora mezz’ora e arrivò a Fezzano. Il porticciolo era quasi deserto. Percorse il pontile lentamente guardando barche bellissime di dodici, quindici metri, le ammirava sì, ma senza invidia: lui era legato alla sua non più giovane e neanche tanto appariscente Aziza. No, non l’avrebbe mai cambiata. Mai.
Poi eccola, finalmente. Si fermò sul pontile, posò lo zainetto e la guardò.
Sentì la memoria retrocedere, davanti ai suoi occhi riaffioravano in un unico sguardo le veleggiate tranquille nel mare buono, l’adrenalina col mare cattivo, le dormite sulla tuga con il sole che ti cuoce la pelle. Il Gps che ti dice dove sei e dove andrai: Punta Bianca, le secche della Meloria, San Vincenzo, il golfo di Baratti, l’Elba, poi Capraia e la Corsica. E le sere alla luce morbida della lanterna a mangiare pesce pescato e intanto parlare di letteratura, discutere di politica con Luca, Denis, Willy, Patrizia. Raffiche di passato lo sconquassavano. Con un balzo salì a bordo e si sedette. Con la mano carezzò il timone, tiepido di sole, e rivide Lucia che portava la barca con sicurezza, i capelli scompigliati dal vento. Anche a Chiara piaceva timonare.
Un magone pesante gli attanagliava la gola. Decise di partire, subito. Aprì il boccaporto, prese il salvagente di poppa, il Gsp e risalì in coperta, aprì il rubinetto della nafta e accese il motore. Sganciò le cime di ormeggio e diede gas. Aziza partì lenta e sicura, percorse il breve tratto di porto poi, fuori.
L’aria era pulita, frizzante. Un po’ di onda la faceva dondolare, pareva fosse contenta di andare. Superata la diga foranea ecco il mare aperto. Cesco mise la prua al vento e aprì la randa. Spento il motore, aperse anche il fiocco. Un leggero maestrale gonfiò subito le vele. Direzione sud. Alla destra l’isola Palmaria, poi il Tino. Poi dritto verso la linea dell’orizzonte dove mare a cielo si confondono. Veleggiò per diciotto miglia, e per quelle quattro ore si concesse il lusso di non pensare.
Il sole alto gli disse che era tempo di tornare. Virò, ora il maestrale lo aveva di poppa, virò ancora e sentì il vento graffiargli la sinistra del volto. Direzione 340 gradi.
Un’ora dopo vide affiorare dalla linea incerta dell’orizzonte la sagoma ingobbita di Montemarcello. Ora Aziza avanzava veloce con un maestrale rinforzato. L’ombra delle vele sul mare si faceva via via più lunga, ed ecco Punta Bianca, Tellaro.
Il giorno se ne stava andando, la luce smagriva lentamente, ostinata a non finire. Non gli andava di tornare, non voleva farsi inondare la mente dai fantasmi. Virò a sinistra, senza dirigersi verso il varco della diga foranea. Avrebbe gettato l’ancora in una rada.
Telefonò a Lucia: “Questa notte rimango qui, sono ancorato alla Palmaria, tranquilla va tutto bene. Torno domani.” Cesco fece per spegnere poi non seppe resistere all’impulso di aggiungere: “Oggi…?”
“Oggi come ieri”, disse Lucia con tono scontato, ma il dolore non era difficile da scorgere.
Avrebbe voluto dirgli che rintanarsi in se stessa non era il modo per superare la disperazione, ne avevano già discusso, invece disse solo: “Va bene. A domani.”
La luna galleggiava in un cielo blu intenso che di lì a poco sarebbe diventato nero.
Con il buio l’aria rinfrescò, ma non gli andava di chiudersi dentro. Rimase lì a guardare in lontananza le luci di Lerici che bucavano l’orizzonte. Scese sottocoperta, cercò qualcosa da mangiare, trovò solo una scatoletta di tonno e dei grissini. Nel frigorifero una bottiglia di vermentino di Sardegna. Tornò in coperta. Senza preparare il tavolino aprì la scatoletta e sturò la bottiglia. Mangiò qualche boccone e trangugiò un bicchiere di vino, poi un altro e un altro ancora. La rada era imbevuta di silenzio. Le stelle ora si vedevano nitide. Piccolissime macchie di luce. Si chiese se in quella profondità ci fosse un dio. Improvvisamente, come se i pensieri tenuti compressi nel fondo del cervello per tutta la giornata volessero esplodere nella sua mente, si sentì sommergere da uno strano sgomento. Rivolse lo sguardo su in alto e bisbigliò: “Dove sei Dio? Dove?” Avrebbe voluto gridare, ma aveva la gola attanagliata da un nodo inestricabile. Poi lo fece. Si alzò in piedi e gridò: “Dove sei Dio giusto e misericordioso? Perché mi hai dato la felicità, mi hai concesso quella creatura angelica per poi strapparmela via. Con quale logica, per quale castigo?” La notte nera gli fece udire solo lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo. Dentro di sé nessuna risposta. Solo una domanda: ‘Perché?’, si ripeteva. Senza usare il bicchiere, alzò il fondo della bottiglia e trangugiò finché il respiro lo consentì. Prese fiato, e ancora il vino scorreva dentro il suo corpo come se volesse lavar via il magone che lo mordeva.
‘Non ho strumenti capaci di capire, non ho parole capaci di consolare’, si disse. Una sottile rabbia gli stava montando dentro, riuscì solo a chiedersi: ‘Dio, se è vero che esisti da qualche parte, perché lasci sprofondare in questo abisso di disperazione questa tua creatura? Eh? Perché?’, protestò. Ma Lui, Dio, non gli rispose, allora Cesco pensò di maledirlo. Restò qualche momento immobile, il suo corpo fermo, la sua mente ferma. No, non riusciva ad amarlo, non più, ma nemmeno a imprecarlo.
“Chiara!!”, gridò al cielo, come se lei potesse sentirlo. Poi Cesco si accasciò sul pagliolo, raggomitolato in una posizione fetale. Sentì le lacrime scendere sulle guance. Come un coltello affilato quelle lacrime squarciarono la sua corazza e il suo pianto si fece dirotto, infantile.
Aziza dondolava dolcemente, cullando nel suo grembo quel corpo che sussultava squassato dai singhiozzi di un pianto liberatorio. Lentamente la coscienza di Cesco si sciolse, vinta dal vino e dalla stanchezza.
Più tardi il freddo intenso della notte lo svegliò. Aveva gli arti rigidi, la bocca impastata. La testa girava. Scese sottocoperta, si buttò sulle lenzuola della cabina di prua, lì dove con Lucia aveva parlato, riso, dormito, e anche fatto l’amore.
Lì avevano concepito Chiara.
Sì, proprio lì era iniziata la sua breve fantastica vita. Da allora anche quella dei genitori era diventata fantastica.
Dopo qualche mese il matrimonio, poi la sua nascita, poi quell’angelo che era tutta la loro vita. Poi un giorno un saluto rapido e qualche passo di corsa, poi lo stridore delle gomme sull’asfalto, poi un tonfo sordo, poi l’urlo lacerante della sirena, poi i passi in corsia.
Poi l’attesa.
Il tempo che rallentava. Si fermava.
Poi lo sguardo muto di un medico a dire tutto.
A dire che tutto era finito.
Racconto “L’angelo” scritto da Gino Dondi
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Opera pittorica – Creatività, libertà – Umberto Verdirosi
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