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I Lunedì di LuccAutori – Cent’anni di troppo – Dora Argento
Se non avessi avuto le bretelle rosse, quelle fosforescenti che mi hanno regalato per Natale, quest’ora sarei -bello tranquillo!- nel mio nascondiglio, sotto il letto della camera degli ospiti, che è sempre vuota.
Papa’ e Mamma sarebbero partiti soli , con quella lastima di mio fratello Nuccio e io me ne sarei potuto andare a fare la gara in pace.
“ …e ci giocherai un’altra volta” dice Mamma.
Certo, che ne sa lei che non era una gara qualsiasi, per lei sono tutte uguali, non distingue manco un monopattino da un triciclo, figuriamoci…
”Leva di mezzo quel “coso” con le ruote, Nonò!”
E Papà mi ha pure infilato in macchina arrabbiato senza farmi prendere le figurine di Dragon ball che almeno ci passavo tempo invece di stare qua, chiuso in macchina , con quel frignone di Nuccio che vuole tutto lui e che ha già vomitato una poltiglia verde, come sempre quando è in macchina!
Lo sapevo che non me le dovevo mettere oggi, mannaggia…
Papà le ha viste, anche se eravamo al buio, e mi ha trascinato fuori da sotto il letto, tirandomi per le bretelle che poi, quando le ha lasciate, mi hanno dato una schioppettata sulle spalle che mi fa ancora male .
Aveva la faccia da “teledosenonlafinisci” e quando c’ha quella faccia, severa e scura, non dico niente, ma se nò glielo dicevo che io non ci volevo andare, che avevo la gara più importante di tutta l’estate e che se non ci andavo io avrebbe vinto Peppe, sicuro, sicuro!
Tutto per colpa di una vecchiaccia, di cent’anni poi!
A quest’ora hanno già iniziato, sono le quattro; a quest’ora sono già in cima alla salita, tutti e tre: Lorenzo con lo skate rosso, Nello con quello che usa per le gare, verde e giallo, e quel cornuto di Peppe col suo “mitico” blu; a quest’ora si stanno lanciando giù come pazzi; a quest’ora vedono gli alberi che gli passano accanto velocissimi che manco si capisce che sono proprio alberi, sembrano macchie verdi che si allargano e si stringono, che si rincorrono, una dietro l’altra e che invece poi quando ti fermi, che sei arrivato e ti giri, sono tornati al loro posto, anzi non si erano mossi mai.
Invece io sono legato come un salame con la cintura di sicurezza e Papà pure che si lamenta se metto i piedi sullo schienale
“Stai fermo coi piedi…che così sporchi la macchina nuova”.
La riempirei di calci io questa stupida….non poteva fare che non partiva così ce ne potevamo restare qua?
A quest’ora stanno risalendo dopo la prima discesa – perché la gara finisce dopo dieci discese libere – e a quest’ ora sarà arrivata Susanna, tutta rosa, col cerchietto in testa, e con quelle altre sceme delle sue compagne, rosa pure loro, sempre con le borsette in mano. Ma che ci mettono poi in queste borse microscopiche che non ci entra manco una pistola ad acqua, bleah! E, a quest’ora, di sicuro mi stanno prendendo in giro: “…Nonò se l’è squagliata, Nonò è un fifone…tanto si sa che perdeva…”. A quest’ora.
Se c’ero altrochè se perdevo… ma “quella”, da quando le ho detto che fidanzarmi con lei mi fa schifo si vendica parlando male di me! Con quella bocca tutta inserragliata , con la gabbia metallica che quando ride pare la finestra del convento delle suore dell’asilo , quelle che non escono mai!
E tutto per andare a trovare una vecchia decrepita.
Ma che me ne frega a me di una vecchia rincretinita, senza denti, anzi coi denti tutti cariati, che quando parla sputa a raggiera, mezza ceca, senza capelli, tutta curva col bastone e i piedi con cento calli tutti rattrappiti che manco può camminare, anzi forse la portano sulla barella perché è paralitica e c’ha tutti i fili che escono da tutte le parti come nel telefilm dei medici che si vede la Mamma! Che ci stiamo andando a fare? “Una festa per la prozia che fa cento anni e l’andiamo a festeggiare”.
Ma che c’è da festeggiare quando hai cento anni, sei vecchia stravecchia, non capisci più niente e non ti ricordi manco come ti chiami. Come la nonna di Gino che gli chiede ”E tu chi sei?” ogni volta che quel mischino attraversa la stanza.
Hai fatto cent’anni? Va bene, brava, adesso muori e ci lasci in pace.
Però, che idea…e se morisse ? Subito però, all’inizio della festa, cosi’ ce ne torniamo e magari sono ancora in tempo per rifare la gara…?
Se torno prima delle otto posso dire che avevo capito che la gara si faceva di sera, alla rinfrescata. Devo pensare ad un modo sicuro però.
Ecco, se la trovassi che dorme come in questo momento Nuccio, con la bocca aperta, potrei infilarle un imbuto con un veleno potentissimo che la stecchisce subito. Tanto quando uno è vecchio si sa che può morire da un momento all’altro, non si stupisce nessuno . Non è che chiamano la Polizia per un morto di cent’anni!
Oppure, se cammina ancora, potrei farle uno sgambetto mentre scende le scale. Pure che non muore, anche che va all’ospedale…a me basta che la festa non si fa e ce ne torniamo a casa in tempo. E se non ci sono scale in quella casa? Potrei tendere un filo da una parte all’altra della stanza. Quando sono vecchie , che sono incartapecorite, si rompono subito, non ci vuole niente. Come i grissini, tac!
Miii! Mi sto ricordando della zia di un mio compagno che è morta “perché aveva troppi zuccheri”. Questa sarebbe facilissima: potrei comprare tanti pacchi di zucchero e regalarglieli e dirle “Questo è un regalo per te, sono tutti tuoi”. Lei li prende e muore.
Ma tanti quanto? Non è che si muore per un pacco di zucchero. Quando con la mamma andiamo al supermercato ne compriamo almeno tre e non è morto mai nessuno…ce ne vorranno centinaia…
No, questo non va bene, Papà mi metterebbe in croce e forse pure la Polizia: “…e tu perché le hai regalato tutto ‘sto zucchero?”, “Per il suo compleanno”…ma figurati, lo sa che manco ci volevo venire, sarei il sospettato numero uno. No, farla cadere è la cosa migliore, magari con una spinta.
“ Nuccio finiscila! Mamma lo fai finire a Nuccio, mi tira il cravattino di Batman! Me lo rovina!”
“E dai Nonò lo sai che è piccolo, un po’ di pazienza…”.
E certo, solo io la devo avere. Quando le vomita sul vestito nuovo, come l’altra volta che doveva uscire con Papà per fare pace dopo la litigata che si erano fatti e si era messa tutta scollata , allora la pazienza la perde pure lei…
E’ che Nuccio non è un bambino , è una “macchina del pianto con vomito automatizzato”, premi: “wuah”, premi: “wuah, premi……..Che idea! E se raccogliessi il vomito di Nuccio e lo versassi addosso alla prozia, tutti penserebbero che sta male e chiamerebbero subito l’ambulanza: ua ua ua ua ua ua uauaua …
E vai! Questa mi piace.
“Mamma, lo posso conservare il vomito di Nuccio? Così mi ricorderò sempre di quando era piccolo…”
“Nonò non dire scemenze, scendi, siamo arrivati.”
Papà, tenendomi dal collo “così non scappi”, mi spinge verso un grande portone di legno scuro e inciampo sulla soglia di un pavimento bianco e nero che pare una scacchiera gigantissima! Mentre Mamma consegna alla cameriera il regalo, un pacco piccolo, che forse sarà una dentiera per la prozia, io immagino di essere il mio pezzo preferito – il cavallo nero- e mi ingrugnisco, cercando di allungare il mento e i denti in fisionomie cavalline ma papà, pensando che faccio il verso alla cameriera -che di equestre però non ha niente assomigliando più a un panda grassoccio, per le occhiaie stratosferiche che si ritrova! – mi stringe il collo accompagnandolo da un “finiscila!”, sibilato fra i denti, che pare una lama ghiacciata.
Entriamo in un salone che se non è grande come il campetto dietro la scuola poco ci manca. Un sputo -di quelli buoni- di Saro, non arriverebbero al tetto e per una partita a calcetto l’unica cosa che si dovrebbero eliminare sono queste quattro colonne in mezzo – tutte a righe!- assolutamente inutili. Si vede che chi ha costruito questa casa non ha pensato alle cose più elementari!
Vedo subito quello che cercavo per il mio piano: una scala che porta al piano di sopra con un corrimano tanto largo che potrei scivolarci con tutti e due i piedi uniti. E’ fatta! Con una bella spintarella la prozia i gradini se li fa tutti, sicuro sicuro! Appena arriva…
Questo salone è gigantesco, pieno di cose strane: in centro c’è una tavola lunghissima con una tovaglia tutta buchi come la groviera, di quelle che mamma dice che si mettono ogni morte di Papa perchè costano un sacco.
Oggi di Papi mi sa che devono esserne morti almeno due!
Dal tetto poi, pende una specie di ancora, forse un lampadario, con cui verrebbero benissimo gli arrembaggi sulla nave nemica. Insomma se qui ci venissi con tutta la banda saprei bene cosa farci .E la vecchia… la leghiamo al lampadario e ci giochiamo a freccette! Forte!
Siamo i primi ad essere arrivati e della prozia neanche l’ombra, magari è già in fin di vita e fra poco scenderà uno di quei medici col naso a becco, gli occhiali tondi e i vetri spessi come le biglie che ci darà la notizia con voce da gufo , guardandoci con lo sguardo inquisitore e sperando che magari qualcun altro si senta male.
Mamma lo dice sempre che sono come i vampiri, che è meglio starne alla larga!
Papà, tenendomi sempre stretto il collo, mi spinge verso un divano “sprofondoso” di una stoffa rossa a fiori neri un po’ vecchia, con le molle rotte .
C’è n’è una specialmente che mi preme proprio sul culo e sento la punta che mi buca i pantaloni. Cerco di spostarmi ma papà, pensando che voglio alzarmi, mi spinge verso il basso con la sua mano forte. Sono fregato, non mi posso muovere da qui e l’unica cosa che posso fare è guardarmi i piedi, stretti nelle scarpe nuove, che si muovono dondolando avanti e indietro, tutti ci annoiamo a morte! Con la mano però seguo i disegni della tappezzeria che sono più in rilievo e che mi portano ad una scucitura dove infilo facilmente il mignolo. La scucitura è ruvida,come se ci fossero fili metallici ma, dentro, il dito sprofonda nel vuoto e finalmente trovo la molla fastidiosa. Cerco di allargare il buco per poterci infilare almeno due dita e ci sto lavorando bene quando un pizzicotto caldo e doloroso mi fa venire la scossa. Mamma se n’è accorta. Non posso fare manco questo.
La cameriera-panda si avvicina , portandosi dietro l’odore di fritto dalla cucina, e offrendoci un vassoio d’oro con degli orribili pasticcini a forma di cuore tutti zuccherosi – fatti da una cuoca femmina, sicuro!- che si appiccicano uno sull’altro. Sicuramente ne avrà mangiato qualcuno perché le sue dita grasse, con le unghia tutte mangiate come quelle della mia compagna Geppa, hanno tracce di zucchero sulle punte dei polpastrelli. Secondo me se li è anche sleccazzatitutti e poi li ha rimessi sul vassoio –come faccio io, ma solo con quelli di cioccolato però!- perché vicino alla bocca c’è traccia di unto misto a zucchero in polvere . Quando passa da me la fulmino:“Non ne voglio!” e mamma mi comincia una predica -di quelle che sono come quando catturi un ragno, che più lo allontani e più lungo è il filo di bava- sull’importanza dell’educazione, che si dice sempre grazie, che bisogna stare al proprio posto bla bla bla… e mentre parla aziono il dispositivo che ho nel timpano per disinnescare l’udito e la guardo mentre apre e chiude la bocca come un luccio fuori dall’acqua – tutta brillante con il vestito nuovo argentato- e le sopracciglia che si arcuano o arrotondano a seconda che mi implori di fare il bravo o che mi minacci.
Un suono improvviso mi stappa automaticamente le orecchie e interrompe mia madre dalla predica , lasciando il ragno dondolante appeso al labbro, incerto se tornare indietro. E’ il campanello, una specie di clacson gracchiante a volume altissimo – la prozia deve essere assai sorda- che preannuncia l’entrata di una comitiva di “Decrepiti in visita al Museo dei Fossili”, gli amici della prozia, come mi spiega la mamma.
Entrando consegnano i loro regali al solito panda che se ne va traballando come un equilibrista. Il più giovane avrà circa 200 anni.
Tutti insieme sembrano una ragnatela gigante. Il primo gruppo di rughe inizia sulla prima vecchia, una signora con una gobbetta che muove il collo in avanti e indietro come le tartarughe e, attraversando pance sballonzolanti, vene varicose che sembrano i fiumi di una carta geografica, doppiomenti cascanti come lenzuola stese al sole sbattute dal vento, passi zoppicanti, dentiere traballanti, chiome sparute ed elettrizzate come una foresta dopo un incendio e piedi deformati con le dita tutte litigate fra di loro, finiscono sulla nuca di un vecchio tanto magro che la giacca sembra vuota,come appesa a una gruccia.
Ma poi -dico io- in mezzo a tutti questi nonni, neanche un bambino con cui giocare ! Fortunatamente , dalla porta della cucina, entrano una fila di vassoi odorosi di forno con un sacchissimo di cose da mangiare, il tavolo si riempie in un baleno ma, per prima, avvisto una montagna di patatine fritte croccanti su cui mi piombo. Il panda le avrà sleccazzate? Ma dai! ci vorrebbe un mese a sleccazzarsele una per una…me ne frego e , infatti, sono buonissime.
Vedo il passeggino di Nuccio in movimento, si sarà svegliato e avrà fame e Mamma non se n’è accorta – è impegnata con un fossile che deve aver preso la scossa perché trema tutto- forse è arrivato il momento di fargli assaggiare qualcosa di buono. Preparo una merenda super con patatine, maionese , marmellata, olive, caponata- tutto ben mescolato- fette di limone e una spruzzata di aranciata sopra e la porto a mio fratello che mi aspetta con la bocca già aperta, infilo un boccone del miscuglio e mi diverto a vedere la sua faccia che pare un fumetto: si contorce tutta quando becca il limone aspro o si bea a succhiare la maionese dal pane. In mancanza d’altro anche mio fratello può essere divertente e gli faccio leccare anche una patatina dal mio piatto, altro che pappine, per questo le vomita! .
Ce ne stiamo tranquilli a mangiare in un angolo e faccio in tempo a togliere tutto e pulirgli la bocca prima che torna mamma.
“Due piatti ? Ti sei abboffato Nonò, non è che poi ti senti male?”
Con la bocca fatta di sale , pregusto le altre cose che mangerò: panelle, pizzette e una montagna di dolci al cioccolato, il resto lo lascerò alla comitiva che intanto si è trasformata in uno sciame di cavallette affamate.
Evidentemente lo stomaco funziona a tutti.
Mi parlano di sopra , tutti un po’ gridando e molti non sentendo e, da una parte all’altra del tavolo, sfrecciano tanti “come-cosa- che hai detto?” che , anche se non raggiungono il bersaglio giusto, vanno bene un po’ per tutti , e comunque non si fermano e continuano a riempirsi il piatto e poi… ridono, ridono tutti.
Che c’hanno poi da ridere? Forse quando uno sa che sta per morire è contento perché è ancora vivo…
Mio nonno , l’anno scorso, quando mi ha chiamato che voleva vedermi subito era a letto da diversi giorni ma mi disse di correre, che aveva urgenza di raccontarmi una barzelletta -che lo sapeva che io ci faccio la collezione- e me la raccontò facendo le facce buffe, come sapeva fare lui, e non riusciva a finire perché ridevamo tutti e due come scemi. E poi è morto. Si chiamava Antonio, come me.
“Nonò, non mi senti? ma che fai, dormi? Guarda , c’è una cosa per te!”
Alzo gli occhi e lo riconosco subito: uno skate con le ruote pluridirezionali, le testine di acciaio cromo e gli ammortizzatori con le doppie molle che ci puoi saltare pure gli scalini della Madrice! Il disegno poi è…bellissimo! Una lancia di fuoco inizia dalla punta su uno sfondo nero e poi, salendo, si trasforma in frecce colorate che bucano uno scudo! Noooo è pure firmato da Niki , il campione americano di skate!
Ma… è impossibile da trovare in Italia, come hanno fatto?
Non vedo più niente, ho gli occhi annebbiati dalle lacrime e mi vergogno di piangere ma oramai sono un fiume di muco dolciastro che mi riempie il naso e non riesco a fermarmi, è il regalo più bello che potevano farmi Mamma e Papà.
Sento un fazzoletto profumato che mi struscia e mi graffia un poco la faccia ma mi asciuga il muco e gli occhi che si snebbiano.
Forse che sono svenuto per tanto tempo?
La faccia che vedo è quella di mamma ma …più vecchia!
Mamma mia, non è che le rughe sono contagiose? Cerco subito Papà e lo vedo uguale, menomale, e dietro di lui mamma, è lei, pure uguale e allora, di chi è questa faccia?
“Sono tua hold zia. Non ti puoi arricordare perché vivo in America ma sapevo di te, di un nipotino bello assai e ca ti piace troppo lo skate. Io nu ne capiscio niente ma il negoziante mio amico told me che è un modello very beautifull. Ho indovinato, Nonò?”
Mi passarono davanti tutte le torture che avevo immaginato per lei e dallo stomaco qualcuno mi diede come un cazzotto.
La prozia è vecchissima e assomiglia ad un ghiacciolo un po’ squagliato, ma ha una voce dolce e un sorriso buono e allegro come quello del Nonno…
Ah già, giusto, è sua sorella… e anche la dentiera deve essere americana -è bianchissima !- e poi… è venuta in aereo dall’America, forte!
Magari fa quelle cure americane ed è indistruttibile, come Batman .
Forte questa zia! Già me la immagino, col vestito giallo di “Dragon ball terza evoluzione”, quando la presenterò a quegliscimuniti coi loro skate che sembrano carriole, altro che skate!
E poi come dice “skate” con la “ kappa” e la “a” che fanno tutto un rimbombo: skate, skate…
La guardo e le faccio l’occhiolino.
“Zia posso provarlo sulle scale?”,
“Oh yes. Ma you attento ok?” mi schiaccia l’occhio e guarda i Fossili
“ Non cadiri su questi “vecchi birilli”, si rumpinu subito, comu grissini, ok ?”
E ride, con una risata squillante e rido pure io, e mi dà una pacca sulla spalla e io la spingo , ma piano, e ci diamo il “cinque” e ridiamo ancora, come scemi…
Non è che adesso mi muore pure lei?
Racconto “Cent’anni di troppo” scritto da Dora Argento
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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I Lunedì di LuccAutori – Lo strano caso della signora Jay – Roberto Perina
Avrei voluto dare la mia versione di quello che accadde quella mattina. Non ne potevo più di vedere poliziotti, medici e infermieri girare per casa.
Rientrato in casa dopo avere effettuato una telefonata in giardino, il detective D’Altri chiamò il suo collega.
<< Francis, Francis, dove diavolo sei finito?>>
<<Eccomi capo, ero in cucina ad aiutare il medico e gli inservienti a portare via il cadavere della signora Jay>>
<<Povera donna, ci vorrà ancora tempo per la versione ufficiale. Sai che idea si è fatto il medico?>>
<<Certamente>> rispose fiero Francis, <<la lama del coltello è penetrata nell’addome provocando una grave emorragia. E’ morta dissanguata capo!>>
<Cazzo!>> disse il detective.
Odiavo le parolacce.
E ancor meno mi piaceva vedere il Signor Hop seduto sul divano, immobile, con gli occhi lucidi a fissare un vaso, enorme, appoggiato su un tavolino incredibilmente piccolo.
E’ sempre stato gentile con me il Signor Hop. Mi ha sempre cambiato l’acqua più volte al giorno e quando c’era il sole, ma non troppo caldo, mi metteva all’aria aperta con un bell’osso di seppia nella gabbia. Il loro figlio Jeremy invece non mi ha mai degnata di uno sguardo.
<<Tra quanto arriva il Sergente Moses con quel dannato corriere espresso?>> esclamò il detective.
<<Mi ha chiamato dieci minuti fa dicendo che stava per arrivare. Vedrà, a momenti sarà qui.>>
Il corriere era venuto quella mattina per portare un pacco indirizzato al signor Hop. Mentre la Signora Jay prendeva il portafoglio e lo posava sul mobile vicino alla porta, squillò il telefono. Non doveva essere nessuno di importante perché dopo pochi secondi riattaccò. Poi ho sentito la signora urlare, dicendo che era sicura di avere i soldi nel portafoglio e che qualcuno doveva averglieli rubati. Il corriere si spazientì molto, dicendo che non aveva tempo da perdere.
<<Lei mi ha derubato>> urlò rivolta al corriere, che intanto faceva retromarcia e uscì di casa.
<<Io non ho fatto niente, ma tornerò più tardi a prendere i soldi che mi deve. E veda di non inventare scuse!>>. Chiuse la porta violentemente e tornò in cucina. Non provò nemmeno a rincorrerlo.
Francis si accese una sigaretta. Odiavo quell’odore. Anche Jeremy ogni tanto ne fumava qualcuna, solo che le sue sanno un odore diverso, più forte.
<<Se vuole fumare, le chiedo di andare in giardino. Non sopporto l’odore del fumo.>> Erano le prime parole che sentivo pronunciare dal Signor Hop da un paio d’ore. Era stato lui a trovare sua moglie in quelle condizioni. Deve essere stato terribile. Tornava sempre a casa a mangiare a pranzo. I poliziotti hanno escluso subito fosse lui il colpevole. Io non avevo dubbi. Era rimasto tutta la mattina in ufficio, come hanno confermato i suoi colleghi a i poliziotti.
Il signor Hop si alzò, prese i miei semini da uno dei mobili del soggiorno e mi riempì la mangiatoia.
<<Sei rimasta senza semi Melina>> mentre li versava lo guardai. Mi sorrise. Era tutta mattina che facevo notare, a modo mio, alla signora Jay che avevo finito i semi. Ma lei non mi degnava di uno sguardo.
<<Sei riuscita di nuovo ad aprirti la gabbietta, devi stare attenta ad uscire!>>. Già, aveva ragione. Sono un canarino giallo in un mondo dove il resto dei volatili è grigio, marrone o nero.
Il detective D’Altri chiamò con un gesto Francis. Si misero a parlare sotto lo stipite della porta della cucina. <<Ascoltami Francis>> sussurrò <<vai a chiamare il ragazzo. Dobbiamo farci raccontare la sua versione, ora che la madre è stata portata via. Era in casa a quell’ora e può aver sentito qualcosa.>>
Passarono alcuni minuti e si sentì un trambusto provenire dalle scale. Francis lo stava, letteralmente, trascinando.
<<Come si permette! Lo lasci andare subito! E’ mio figlio! Lo lasci!>> urlò il signor Hop.
<<Detective, l’ho beccato mentre stava fumando dell’erba in camera sua>> ecco cos’era quell’odore che sentivo dalle sue sigarette.
<<Jeremy quante volte ti ho detto che non devi fumare quella roba!>> esclamò stizzito suo padre.
<< E non è tutto Detective, guardi quanti soldi stava contando!>> Francis diede al suo superiore un mucchietto di banconote colorate.
D’Altri iniziò a contarle <<Sono più di cinquecento euro! Vendi Marijuana Jeremy?>>
Il ragazzo impallidì. Forse era colpa dell’erba. <<No…. Non sono stato…. Non faccio quelle cose….>> Balbettò altre due o tre parole poi fu interrotto dal suono del campanello. Francis aprì la finestra per vedere chi aveva suonato. Forse non lo avevano avvisato che era stato inventato il citofono. Meglio così comunque, un cambio d’aria era quello che ci voleva.
<<E’ il sergente Moses, detective. Assieme al corriere espresso>>
<<Falli entrare cosa aspetti>> tuonò D’Altri.
Mentre i due nuovi arrivati percorrevano il vialetto per entrare in casa, Jeremy si accomodò vicino a suo padre.
<<Ben arrivato Sergente>> esordì il detective, <<lei è il signor?>> disse rivolgendosi al corriere.
<<Sono Osvald Pachino e faccio il corriere espresso da 12 anni presso la WPS>> tremava come una foglia.
<<Immagino sappia perché l’abbiamo portata qua>> non attese la risposta <<Francis porta un bicchiere d’acqua al nostro corriere.>>
<<Questa mattina sono venuto a fare una consegna per il signor Hop, intorno alle 10 massimo 10.30, in casa c’era sua moglie che….>> il detective lo interruppe << non può essere più preciso con l’orario? Avrà stampato la ricevuta del pagamento, spero!>>
<<E’ proprio questo il punto. La signora non aveva soldi per pagare, era convinta di averne nel portafoglio, ma era vuoto. Mi ha accusato di averli rubati mentre lei rispondeva al telefono. Ciò che ho detto mentre stavo uscendo non volevo suonasse come una minaccia.>>
<<Sia più preciso>> esclamò il sergente Moses. D’Altri lo fulminò con lo sguardo. Voleva essere lui a condurre l’interrogatorio.
<<Le ho detto che sarei tornato più tardi e di trovare i soldi. Ero arrabbiato, è vero, ma voi non sapete quanto tempo perdo in casi come questi. Se mi fate parlare con la signora Jay le chiederò scusa, a patto che paghi per la consegna.>>
<< La signora Jay è morta>> esclamò D’Altri.
Rimasero tutti zitti e immobili per qualche secondo.
<< Ieri sera, mentre cenavamo, avevo avvisato mia moglie che oggi sarebbe arrivato quel pacco e dopo cena le diedi i soldi per pagare il contrassegno al corriere>> intervenne il signor Hop.
<<Quanti soldi le aveva consegnato? E cosa c’è nel pacco?>> chiese D’Altri.
<<C’è un tablet della Onion, costa 500 euro.>>
D’Altri si spostò in mezzo al soggiorno, voleva essere al centro dell’attenzione.
<<Allora cerchiamo di fare il punto della situazione>> esordì il detective, <<la signora Jay aveva certamente nel portafoglio 500 euro che le erano stati consegnati ieri sera dal signor Hop. Avete cenato tutti tre assieme ieri sera?>> Il signor Hop annuì.
<<Vi dirò cosa penso: non credo che Jeremy sia in grado di spacciare; credo sia rimbambito da tutte le canne che fuma, ma non così tanto da non fare caso che nel portafoglio di sua madre è entrata una bella somma; dico bene Jeremy?>>
Il ragazzo rimase impassibile.
<<Bene, chi tace acconsente. Chissà quante cose avresti potuto fare con tutti quei soldi, vero Jeremy? Erano così tanti che avresti potuto far del male a qualcuno per averli.>>
<<Adesso basta! Lei sta accusando mio figlio ingiustamente!>> esclamò, alzandosi, il signor Hop.
<<Io non accuso nessuno, sto solo vagliando delle ipotesi! Certo che tutti quei soldi che suo figlio stava contando in camera sua……. D’altro canto è assolutamente possibile che il nostro corriere, il signor Pomodorino>>, <<si chiama Pachino>> lo corresse Moses, << mi scusi, il Signor Pachino, nell’istante in cui la signora Jay si è allontanata per rispondere al telefono, notando quelle banconote che uscivano dal portafoglio si sia preso la briga e il gusto di “prelevare” una bella somma a spese altrui, e poi quando la signora se ne è accorta…….>>
Era il secondo discorso che lasciava in sospeso. Chissà, magari era il suo metodo per incentivare i delinquenti a finire la frase e dichiararsi colpevoli. Di certo quella volta non funzionò.
<<Ho solo una colpa, quella di essere stato poco cortese con la signora, ma non ho rubato e soprattutto non ho ucciso nessuno!>> cercò di scandire bene quelle ultime parole.
<<Di una cosa sono certo>> riprese a parlare D’Altri, <<in questa stanza c’è chi ha ucciso la signora Jay>>.
L’atmosfera era molto tesa. Iniziai a colpire col becco la mia gabbietta.
<<Proprio adesso deve farsi il becco quel canarino?>> esclamò infastidito il detective.
Squillò il cellulare del detective che lo estrasse dalla tasca della giacca e rispose <<Salve dottor Scalpel, come dice? Beh, si, se non sbaglio la signora stava preparando il pranzo. Attenda un attimo che la metto in viva voce. Ha ragione, mi rendo conto che non dovrei, aspetti mi faccia spiegare, abbiamo i sospettati in soggiorno… bene sono felice che abbia capito, attenda un attimo… ecco ora la sentono tutti>> mise il telefono sul tavolino, vicino al divano e annunciò chi stava per parlare.
<<Buongiorno a tutti, in qualità di medico legale vi comunico che la signora Jay è morta per dissanguamento dovuto alla penetrazione di un coltello da cucina nella parete addominale fino allo stomaco, provocando una emorragia molto estesa. Questo evento ha provocato in primis la perdita di coscienza e conseguentemente la morte.>> Il dottore prese fiato.
<<Ci sono due particolari che mi hanno incuriosito, ma prima ditemi, cos’è questo rumore che sento, simile ad un ticchettio?>>.
<<E’ il canarino che sbatte il becco sulla gabbia>> spiegò Moses.
<< Interessante. Il primo è della cipolla sotto le unghie. Se la stava tagliando poco prima di essere colpita è probabile che abbia avuto la vista annebbiata e non si sia accorta dell’arrivo del suo assassino. Il secondo particolare curioso sono dei segni simili a dei graffi appena sopra la fronte, vicino all’attaccatura dei capelli. Ah quasi dimenticavo, c’era una piuma gialla infilata tra i capelli>>.
Ho avuto la percezione che si siano tutti girati contemporaneamente a guardare la mia gabbietta. Rimasta vuota. Ero volata sulla finestra aperta. Il detective D’Altri quasi riuscì a prendermi, ma io uscii e iniziai a volare. Che bella sensazione. L’ultima cosa che sentii fu il mio nome pronunciato dal signor Hop. Mi spiace tanto per lui. Avevo ucciso sua moglie, ma non volevo farlo. Almeno credo. Non avevo più semi nella mangiatoia e continuavo a farle notare questa mancanza fischiando e sbattendo il becco sulla gabbia. Ma lei non mi degnava di uno sguardo. Poco dopo che se ne andò il corriere, ho aperto la gabbia e le sono volata in testa. Non mi ha vista arrivare, si è dimenata e muoveva le braccia per cacciarmi, tenendo in mano quel coltello così grande. Poi è scivolata cadendo in avanti, colpendo il forno con la testa mentre la mano che teneva il coltello rimase sotto il suo corpo, finendo col ferirsi da sola. Mi spiace signor Hop, mi spiace davvero. Le vorrò bene per sempre. Anche se, per un canarino giallo in un mondo di volatili poco colorati, sempre, durerà poco!
Racconto “Lo strano caso della signora Jay” scritto da Roberto Perina
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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I Lunedì di LuccAutori – La lezione di Yoga – Maria Giulia Benini
Arrivò in anticipo di un quarto d’ora. La palestra era al piano terra di un palazzo di periferia. Sulle quattro vetrate si ripeteva una decalcomania inquietante: un essere umano attorcigliato in una contorsione innaturale.
“Sono ancora in tempo” pensò, “adesso vado via”.
Aveva appena ripreso in mano le chiavi dell’auto quando arrivò una tipa dall’aria sognante e con un pallino in fronte che le sorrise.
“Sei nuova, vero? Io mi chiamo Cecilia e sono l’insegnante di yoga. Vieni dentro che apriamo la palestra e ti mostro lo spogliatoio”.
Sospirò e si rassegnò, consolandosi al pensiero che in fondo era solo una lezione di prova.
La colpa era tutta di quella sua amica fanatica di discipline orientali: le aveva fatto una gran ramanzina ricordandole che a trentacinque anni una donna inizia ad invecchiare, che tutto il grasso accumulato non si elimina più e che l’equilibrio della mente e del corpo vanno di pari passo, blandendola infine con la promessa che un po’ di yoga le avrebbe fatto perdere i chili di troppo senza sudare.
Nel frattempo arrivavano gli altri allievi, perlopiù signore cinquantenni, un uomo dall’età indefinibile coi capelli bianchi ma l’aria giovanile, una ragazzina anoressica e poi, un tipo incredibilmente bello, con la faccia di Paul Newman e il fisico di Rudolph Nurejev, inguainato dentro una pantacalza-body aderentissima. Le parve dal modo in cui parlava che non fosse italiano.
L’insegnante le indicò lo spogliatoio femminile, dove le signore avevano iniziato a ciarlare mentre si svestivano.
Inorridì quando vide che tutte rimanevano a piedi nudi, ma fece finta di nulla e si tenne i calzini: dopo una giornata di lavoro i suoi piedi non erano certo fragranti.
Notò che le altre avevano body e tute aderenti. Lei invece aveva rispolverato una vecchia tuta a colori fluorescenti, con banda laterale sulle gambe e sulle braccia, comperata senza neanche provarla a una svendita di articoli sportivi; infatti era come minimo una taglia in più.
Intanto la palestra aveva preso vita.
Una musichetta di sottofondo sembrava prenderla in giro, con tamburelli e strumenti pizzicati, che evocavano leggerezza e agilità, cose che lei non possedeva nemmeno a sette anni.
Nurejev e gli altri erano già seduti a gambe incrociate sopra tappetini dall’aspetto gommoso e fissavano il vuoto davanti a loro.
Starnutì quattro volte di seguito a causa di un odore pungente che le ricordò le canne che si facevano i suoi compagni del liceo, quando vide che la maestra stava accendendo dei bastoncini di incenso negli angoli della stanza.
Qualcuno le disse di sedersi come gli altri.
“Togliti i calzini” le sibilò la sua vicina di posto, ma fece finta di non sentire. Aveva già difficoltà a incrociare le gambe senza sentire un dolore maledetto alle ginocchia.
“Ora, nella posizione del loto, come ringraziamento per quello che stiamo per fare, canteremo l’Om”, fece l’insegnante.
“Inspirate, poi espirate, e…. Oooooooooommmmmmmmm”.
Un coro di voci gravi, acute e stonate riempì la stanza.
Improvvisamente sentì un prurito pungerle la gola. Le capitava sempre così nelle situazioni che trovava ridicole: diventava paonazza finchè non scoppiava a ridere sguaiatamente.
L’insegnante prese il suo rossore per imbarazzo.
“Non devi vergognarti di cantare con noi, vedrai che dopo le prime volte ti verrà naturale. Senti l’energia che si sprigiona dalle nostre voci? La puoi percepire intorno a te!”
Tenendo gli occhi chiusi, mentre quel suono continuava, cercava di pensare a qualcosa di serio o di triste: le tasse, il giorno del funerale della nonna, la bocciatura in quarta ginnasio, i pantaloni taglia quarantotto che non si chiudevano più…
Poi tirò un gran sospiro e l’attacco di ridarella passò.
I primi venti minuti scivolarono via veloci, con una serie di respirazioni e movimenti rilassanti, e stava già esultando, convinta che lo yoga fosse proprio la disciplina che faceva per lei, quando i nodi vennero al pettine.
L’insegnante pronunciò un nome irripetibile, e tutti si capovolsero a testa in giù, con la fronte appoggiata sul pavimento e le gambe per aria. Alcuni lo facevano in mezzo alla stanza, altri appoggiati alla parete o appesi alle spalliere con delle cinghie, come grossi pipistrelli.
Lei rimase immobile, pensando a un modo per fuggire.
Sentì un tocco leggero sulle spalle.
“Adesso anche tu provi. Io aiuto te”.
Era Newman-Nurejiev, scultoreo nella sua pantacalza, che le sorrideva cameratesco. I suoi muscoli erano tonici, vedeva nitidamente i bicipiti che erano proprio all’altezza dei suoi occhi, e aveva un buon odore, forte e selvatico, che le ricordò il muschio.
“No grazie, è la prima volta per me e del resto io ho il terrore di stare a testa in giù, e questa poi è solo una lezione di prova….”
“Tu no avere paura, io tengo stretta, Cecilia fa sempre aiutare principianti perchè io più forza per tenere strette persone pesanti”.
“Non fa una piega” pensò “Mi ha appena dato dell’obesa”.
“Ora metti gomiti appoggiati a terra e fronte in mezzo a mani intrecciate. Io sollevo”.
Fece come le diceva e non ebbe il tempo di pensare che si sentì agguantare per le natiche e dopo un capogiro folle si rese conto di essere a testa in giù, con il nerboruto che la teneva per le gambe.
Le guance le bruciavano e sentiva chiaramente l’odore dei piedi di Nurejev, che le ricordarono immediatamente il provolone piccante; una fila di facce, quelle di tutti gli altri capovolti come lei, la fissava sorridendo.
Respirò, cercando punti di riferimento nello spazio sottosopra.
Poi, improvvisamente, la tragedia.
Il suo intestino, da trentasette anni abituato ad una sistemazione comoda e stabile all’interno di quella pancetta, ebbe forse paura di perdere il posto.
E infatti si ribellò, ribollì, cercò di lottare con la gravità, ma non ci fu nulla da fare, perchè quando lei si accorse di cosa stava per accadere era già troppo tardi.
Fu come un barrito, anzi un coro di barriti, il rumore dell’enorme peto che scaturì da quelle povere viscere capovolte.
Inutile dire che tutti ne furono attoniti, e più che imbarazzati stupiti, ma quello che accusò lo sgomento maggiore fu proprio Nurejiev, che dallo spavento fece un balzo indietro, dimenticando che la poveretta si reggeva dritta solo grazie al suo sostegno.
Un’altro capogiro e piombò sul pavimento battendo forte le ginocchia.
Pensò prima che avrebbe voluto morire, poi, dato che questa non era una possibilità concreta, decise di svenire. E non ci fu verso di farle aprire gli occhi.
Rimase impassibile agli schiaffetti, agli schiaffoni, alle spruzzatine e alle bicchierate d’acqua.
Alla fine chiamarono un’ambulanza.
La caricarono in barella che non dava segno di vita, e si guardava bene dal farlo.
Sentì le voci preoccupate di Nurejiev e della maestra che chiedevano ai barellieri le indicazioni per raggiungere l’ospedale, poi le portiere si chiusero e la sirena iniziò ad urlare.
***
Accese un bastoncino di incenso, tirò le tende per schermare il rosso violento del tramonto che invadeva la stanza da letto e si sistemò sulla stuoia nella posizione del loto.
C’era una calma perfetta. Bussarono piano.
“Non disturbo te se faccio yoga anch’io?”
Era vergognosamente bello anche in pantaloncini e canottiera, sensuale e selvaggio come quel primo giorno che l’aveva visto.
“Ma no Rudy, entra”.
Dopo un anno le era ancora difficile pensare senza imbarazzo a quell’incidente che aveva portato importanti novità nella sua vita.
Lo guardò mentre silenzioso come un felino, con pochi gesti aggraziati appoggiava la fronte sul pavimento e si capovolgeva nella posizione sulla testa. Ci sarebbe rimasto come minimo venti minuti.
Giunse le mani davanti al petto, chiuse gli occhi e assaporò il profumo della felicità, fatto di muschio selvatico, incenso e provolone piccante.
Racconto “La lezione di Yoga” scritto da Maria Giulia Benini
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Opera pittorica – Lasciati andare, ridi – Davide Cocozza
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
http://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/racconti-nella-rete-2016
I Lunedì di LuccAutori – Turning point – Filippo Cartosio
Gli appuntamenti di lavoro schedulati in giornata dal Fiz erano tre, alle 10 un centro media, alle 12 un cliente toiletries da 300k e alle 15 lo staff meeting settimanale per ribaltare i suoi sales pericolosamente in ritardo sugli obiettivi del terzo quarter. Poi alle 18 una sessione di 70 minuti alla BodyVip col nuovo personal Herculano da Silva e infine alle 20 un momento business/leisure allo Spazio Hangar Design, dove lo aspettava l’evento di WoboGodoDigiMedia, l’editrice all digital del Bigetti, suo vecchio amico a cui fra l’altro aveva in animo di proporre una partnership veramente dirompente. Per quell’incontro serale si era preparato un’irresistibile selling proposition, ma ora, al volante del Road Killer nero di 5 metri e 60 con cui stava scannando in Melchiorre Gioia diretto al primo appuntamento, non c’era verso di metterla a fuoco: lo distraevano le continue notifiche di matching che gli piovevano sullo smartphone, con gentili suoni orientali, da Pantegana.com, la app di dating per fare ons con donne brutte, di cui per motivi commerciali era stato early adopter, hard user e top ambassador, causa ed alibi di una vergognosa schiavitù.
“Questo” pensò Orto quasi sciogliendosi. E guardando con fastidio oltre la finestra dell’ufficio il grigiore nefasto dei tetti di Semolinia, mandò in stampa la pagina Linkedin. Lo sfolgorante job title della vacancy era ‘head of digital happyness’ e a lanciare una call così disruptive, così challenging, infrangendo ogni vetusta convenzione di senso, era WebRocket, una go-to-web agency la cui elettrizzante mission era, se aveva ben tradotto il company profile, cambiare i paradigmi, contaminare le culture professionali, smaterializzare i processi, trasformare aziende in ‘lovebrands’. Fra i requirements – 27 voci una più demanding dell’altra, una specie di SuperIo persecutorio in forma di elenco puntato che lo minacciava dall’alto di un trono con occhi divampanti e mento virile, ma vellicava il suo amore per le sfide impossibili – lo avevano colpito la disponibilità a lavorare ‘around the clock’, la capacità di seguire un progetto ‘womb to tomb’ e l’attitudine ad essere naturalmente ‘eye-to-eye’ con la brand equity del cliente. Ma più del job title parossistico ai limiti del dadaismo, più del fervore evangelizzatore del company profile, più dell’estremismo sfidante dei requirements, a mandarlo in visibilio, spingendolo a precipitarsi a fare l’application, era stata la fantasmagorica location della dot.com: WebRocket infatti era in 47SkySpace, 900 metri di co-working disseminato di startup digitali al 47° piano dell’Isozaki Building in CityLife, lassù, nel cloud, dove lo spirito rovente della creatività si slancia nel cielo cristallino dell’innovazione, e si muovono freneticamente su decine di progetti eserciti di jeans skinny, frangette, occhiali grossi, ciuffi spettinati e camice optical abbottonate fino al mento. L’eden.
Erano le 20.45, il planning della giornata era stato quasi rispettato e il Fiz, che aveva scaricato tensione facendosi massacrare per oltre un’ora sulla panca da Herculano, diede un’occhiata distratta all’invito su cartoncino glossy, sul quale era pinzato un braccialetto di gomma bianca con chip, imprescindibile vip-area pass.
WoboGodoDigiMedia Experience
Upfront e Party
25 maggio 2016
Spazio Hangar Design 71
Fulvio Testi 71, Milano
8 p.m. Registrazione ospiti
8.30 p.m. Fusion finger food by Germando Chef
9.30 p.m. Upfront
10.30 p.m. till late Djset by Romiro De La Vigne
*Vip area: Open bar by Milano Lounge (white bangles only)
Dress code: young urban creative
La ghiaietta del park dell’Hangar scricchiolava con suono allegro sotto gli pneumatici oversize del suo 6 metri, mentre lui si guardava attorno alla ricerca di un posto. Ma l’enorme piazzale dell’ex fabbrica di aerei era overbooked: non ci entrava più uno spillo. “Dov’è che la appendo?” ripeteva fra sé sempre più spazientito. Alla fine trovò un cumulo di terra alto un metro in fondo all’immensa spianata polverosa e diede potenza alle 4 ruote motrici. Solo un Road Killer poteva garantirgli certe prestazioni, pensò sorridendo mentre scendeva calandosi dal finestrino. Rassettandosi il vestito, guardò con attenzione le ordinate file di auto parcheggiate sulla ghiaia dell’Hangar. “Ueilà.. niente niente male…”. Erano migliaia. E continuavano ad arrivarne. Quella sera, dentro, doveva esserci l’intera business community mar/com e adv, tutto il digital, i centri media, la case di produzione, i top spender, e una miriade di millenials e di giovani graziose fanciulle alla ricerca della propria chance: fashion blogger, creative free lance, video maker a partita Iva, web designer, video reporter, conduttrici wannabe. E vippame di vario calibro, as usual.
Immaginando se stesso seduto a gambe incrociate su un tatami al 47° piano dell’Isozaki intento a sprigionare mentorship e good vibes su un staff di giovani creativi alle prese con la campagna di digital pr worldwide di un lovebrand, Orto si diresse trasognato verso la stampante piazzata all’estremità opposta del lungo e angusto corridoio degli Uffici Centrali Unificati. Mentre avanzava, non vedeva le piastrelline color crema sul pavimento, la sequenza di neon giallini, la teoria di grosse e pesanti porte di legno verniciate di bianco nel 1953, né, incastonate su ogni porta, le solenni targhe di metallo con lunghe iscrizioni in corsivo voluttuoso: ‘Direzione Erariale, Servizio Annona ed Economato, Ufficio Protocollo Contratti”. Vedeva solo l’immensa lieve luminosità degli open space dell’Isozaki. A riscuoterlo bruscamente dalle sue fantasie di evasione fu il clangore di ferriera della stampante, dal cui ventre rovente eruttava convulsamente un torrente in piena di fogli A4, che straripavano sul pavimento accatastandosi in immensi cumuli. Impossibile per Orto ritrovare la sua pagina Linkedin stampata. Ed era tutta colpa di Ignazio Sella, il suo attempato collega di scrivania all’ufficio ‘Relazioni con le Amministrazioni Rurali e con gli Uffici Distaccati Sotto-circondariali di Terza Classe’, una mansione di latta che solo la smodata ambizione di Orto, unita a una creatività di sopravvivenza, gli consentiva di tramutare alchenicamente, senza esitazioni morali, nell’oro sfavillante del job title Linkedin ‘Head of Global Communication & Government Relations’. Audacia che non sfiorava invece Sella, uomo senza curiosità e senza ambizione, refrattario a qualsiasi possibile innovazione. Ancora una volta, aveva lanciato in stampa IL file. Trattavasi del file di word su cui lavorava ininterrottamente dal 1997, non avendo mai neanche sospettato l’esistenza del comando ‘Salva con nome’. IL file di Sella, 12.740 pagine, conteneva la qualunque: testi di comunicati ufficiali esecutivi da diramare agli Uffici Distaccati, lettere diplomatiche per i Direttori di Sotto Divisione, discorsi ufficiali dei Secondi Capi di Servizi e di qualche Primo Capo di Servizio, bozze di delibere di Giunta Esecutiva, determinazioni dirigenziali di primo, secondo e terzo grado, appunti sparsi, liste di proscrizione compilate con zelante acribia per il Partito, messaggi romantici per colleghe ormai defunte da anni. Una vertiginosa stratificazione archeologica della vita dell’Ente, per il cui possesso archivisti e filologi avrebbero potuto uccidere.
In cinque anni di lavoro disumano, in cui non aveva fatto distinzione fra il giorno e la notte, fra i lunedì e le domeniche, il Bigetti, un ex YouTuber di 34 anni che sembrava averne vissuti 48 ma ne dimostrava 23, aveva messo su un colosso da 180 videotestate online verticali che coprivano tutti i target immaginabili, con alcuni digital leader come EstinzioneUmana.it (pet lovers), Carestia.com (vegan friends), Sbiottate.net (teens esplorative) e Dentiera.tv (video divertenti nelle Rsa). Si era arricchito a dismisura anche grazie a un imbattibile business model: il contratto ‘JobForFame’ remunerava le prestazioni di redattori e contributors non in banale denaro, ma in ben più ambita ‘viewability’, ovvero in minuti di apparizioni in video di Wobo: per esempio un mese di segreteria di redazione o di editing digitale valeva 1 minuto di presenza su un video di Bullismo.com, testata con una reach del 91% sul target ‘tweens disadattati’, dove era normale raggiungere views a 6 zeri.
Ma al Bigetti il denaro non bastava più: voleva il successo. E quella sera avrebbe celebrato il suo trionfo. Non solo nella business community mar/com, digital e adv, dove ormai era blandito e temuto, ma oltre, sulla ribalta scintillante dell’economia e dello showbiz nazionale. L’obiettivo dell’upfront night di Wobo non era quindi soltanto impressionare definitivamente i clienti pubblicitari e seppellire le residue velleità dei competitor, ormai boccheggianti dopo essere stati implacabilmente vampirizzati di inserzioni, non era solo sancire il più brutale takeover dell’azienda sul mercato, promuovendone l’immagine da semplice leader ad over the top. No, il Bigetti voleva uscire dal suo mondo di nerd e marchettari digitali, che sentiva ormai angusto, e scalare il ranking dei grandi imprenditori nazionali e globali, voleva le prime pagine dei quotidiani, sì quelli di carta tanto vituperati, voleva entrare nei titoli dei tg della sera, sì quelli generalisti che negli anni della sua scalata aveva paragonato al Medioevo, al Male e alla Morte.
Il progetto di cui il Fiz voleva parlare al Bigetti era una partnership fra WoboGodoDigiMedia, che ormai si stava mangiando tutto il mercato, e la WebbaWabbaAdvertising, di cui lui era Head of Sales e Vp Marketing: poiché Webba aveva un’expertise unica nella vendita di formati speciali a clienti premium, che Wobo non aveva mai saputo o voluto costruire nonostante la propria raggiunta egemonia, era naturale collaborare in una logica win win. Gli scocciava un po’ fare la prima mossa, che in affari è spesso segno di debolezza, ma dopo mesi di annusamenti reciproci col Bigetti, suo vecchio amico dai tempi dello Iumc, era arrivata l’ora dello showdown, come quando a scuola a un certo punto le occhiate languide con la compagna carina non bastano più e tutti e due si lasciano andare al primo selvaggio limone, desiderato e sognato sin dal primo giorno.
Col suo braccialetto bianco, quindi, entrò in Area Vip alla ricerca del padrone di casa, che trovò subito, appoggiato al bancone del bar: fra una corona di sgamati executive, trepidi assistenti e incantevoli junior pr, il Bigetti stringeva mani a tutti con larghi sorrisi e mimica partecipe, enfatizzata dal volume altissimo della musica. Vide l’amico e con una strizzata d’occhio complice gli fece intendere che l’avrebbe raggiunto non appena fosse riuscito a liberarsi da giornalisti, adulatori e wannabe. Il Fiz ordinò un drink all’open bar e si accomodò in attesa nell’ultimo angolo di divanetto rimasto libero, innaffiando l’invidia col black russian. “Carissimo!” escalmò il Bigetti materializzandosi dopo neanche dieci minuti. “E così hai fatto il botto, eh? Bravo”. “Così dicono, Fiz, ma lasciali parlare gli invidiosi, qui si lavora giorno e notte. I risultati arrivano col sacrificio, lavorando 24/7”, il che gli diede modo di picchiettare il quadrante di un Patek Philippe da 6k. Il successo lo aveva reso tracotante, ma business as usual, il Fiz illustrò la sua proposta, col dovuto entusiasmo. L’altro lo guardò sardonico e strafottente: “Arrivi un po’ tardi amico, ho il pacchetto di controllo di Webba, guarda qui, deal fatto proprio oggi”. Era un contratto di vendita. Firmato dal Grassani, founder e socio di maggioranza della società col 75%, a cui il Bigetti aveva riconosciuto un prezzo fuori misura. “Sai – spiegò il nuovo padrone toccandogli il braccio – il Grassani è vecchio, si era stancato. Ha figli, nipoti, i soldi li ha fatti, e da questa sera ne ha più di quanti ne abbia mai avuti prima. Ora tocca a noi. Abbiamo idee, forza. E ho già uno strepitoso direttore vendite. Ma parliamo del nostro futuro! Forse sai che qualche settimana fa ho lanciato un nuova start up, un’iniziativa ancora molto piccola, ma promettente, dove voglio sperimentare nuove figure professionali, uno spazio per chi cerca avventure sfidanti che proiettino la remunerazione nel futuro”. Il Fiz taceva, pallido, disorientato, cercando una way out. Ma non ne aveva. Game over. Ecco arrivato il primo grande turning point della sua vita. Nessuno gli aveva mai spiegato come ci si sente. E come se ne esce.
Mentre il tecnico riparava la stampante, che non aveva superato il forte stress del grande File, Orto, tornato alla sua scrivania, getto un’occhiata all’anziano Sella, che serio e compunto imbeveva il timbro nell’inchiostro per protocollare una minuta, e poi aprì il documento Excel con l’elenco delle application fatte nell’anno solare ormai terminato. Erano state 132, e la colonna ‘follow up’ era desolatamente bianca: zero chiamate, zero e-mail, nessun feedback, neanche una gelida risposta automatica. Fu preso da scoramento. Decise di sospendere la ricerca di un nuovo lavoro, del suo turning point che sbloccasse una vita incagliata. Anche l’entusiasmo più acceso non resiste all’accanirsi degli insuccessi. Fu in quel momento che ricevette una chiamata. Il Fiz! Incredibile! Erano 3 anni che non lo sentiva, da quando aveva lasciato Milano per Semolinia ed era sprofondato nello spleen della società semolinica, un popolo di età media spropositata composto esclusivamente da dipendenti pubblici di estrema sinistra sociopatici gravi, le cui attività preferite, sostitutive del lavoro, erano lamentarsi di tutto, sminuire chiunque, criticare le persone positive col fine di demotivarle, guardare tutto e tutti con sospetto e fastidio, odiare il successo degli altri, temere in modo fobico la socialità esplorativa non allontanandosi mai dalla cerchia di amicizie stabilita nei primi 11 anni di vita, evitare ogni forma di nightlife spegnendo le luci della città alle sette di sera, boicottare l’impresa privata con ogni arma di vessazione burocratica disponibile, vestirsi con agghiacciante trasandatezza come forma di protesta passiva-aggressiva, tenere il muso e usare espressioni il più possibile plebee per marcare con compiacimento la propria veracità popolare. Rispose quindi con gioia, certo di essere investito da una ventata di vitalità e di managerial-dinamismo padano un po’ spaccone, ma l’aspettativa andò imprevedibilmente delusa. Il vecchio amico era tutt’altro che spumeggiante, anche se non sembrava aver voglia di dilungarsi in confidenze personali. “Quando torni a Milano?”, gli chiese senza troppi preamboli nonostante il lungo intervallo trascorso dal loro ultimo contatto. “Ci provo da un anno, ma è impossibile”. “Non buttarti giù. C’è una nuova startup a Milano, si chiama WebRocket, è un piccolo spin off di WoboGodo, si dedicheranno a progetti speciali di digital adv. Cercano figure nuove, ad esempio un head of digital happyness e se non sai che mestiere è non farti troppe domande perché domani ti chiameranno per un colloquio. Questa è la tua giornata fortunata amico, il tuo grande turning point”.
Racconto “Turning point” scritto da Filippo Cartosio
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Opera pittorica di Antonio Nunziante – Viaggio Nel Tempo
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
http://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/racconti-nella-rete-2016
I Lunedì di LuccAutori – Il corredo – Giusi Scerri
Oltrepassavano i muri con i loro suoni, cadenzati e acuti, inseguendosi nell’aria fino ad arrivarle alle orecchie. Ascoltarli, era quello che più le piaceva sentire, quando la mattina tornava su questa dimensione. Ogni giorno era l’inizio di una avventura nuova, non si aspettava niente, ma era certa che tutto fosse là ad aspettarla. Un tintinnio di porcellana, due donne, le loro voci lontane quel che bastava per non sentire le parole. Profumi di timo, pomodoro a soffriggere, odori che arrivavano lenti e intensi fin dentro il sonno della domenica. Uno sbattere di sportello, frammenti di risate, rumori di passi, in cucina la vita era già iniziata, mentre, accovacciata tra le lenzuola, assaporava le impronte dei sogni appena lasciati.
La luce filtrava decisa dalle persiane verdi a indicare che ora di alzarsi, eppure, Caterina, preferiva indugiare, come se avesse paura di consumare troppo in fretta la giornata, o che essa, vivendola, deludesse le aspettative che in quel momento erano lì custodite e da ammirare.
Era un rito alzarsi, poggiare i piedi sulle mattonelle fresche, indugiare a sentire l’aria sulle gambe, il tempo fresco e dilatato dei giorni di festa.
L’armadio bianco a tre ante era posto davanti al letto, leggero e incombente allo stesso tempo.
Caterina apriva le finestre per lasciare entrare la luce naturale del giorno e il cinguettio degli uccelli sembrava invadere la camera insieme al caldo del sole dei primi giorni d’estate.
Ora avrebbe avuto tutto il tempo per “ammirare” quel piccolo tesoro, distribuito, sui due ripiani a sinistra dell’armadio.
Nel momento in cui si aprivano le ante il profumo di lavanda e di canfora anticipava, alla vista, quello spettacolo di colori.
Scatole fiorite, buste lucide, pile di asciugamani rilegate con fiocchi rosa e bianchi, lenzuola ricamate, “strofinacci” da cucina, con disegni naif, che portavano lontano la fantasia.
Quando le mani arrivavano a poggiarsi sulla prima pila di spugna, indugiavano ad accarezzare quella morbidezza, ogni colore pareva dare sulla pelle una sensazione diversa.
Poi con cura, Caterina, cominciava ad appoggiare le scatole ancora chiuse sul letto, alcune contenevano camicie da notte ricamate, forse da riservare ai viaggi o a quando sarebbe diventata mamma. Le camicie di seta, invece, scappavano dalle mani un po’ tremanti per la paura di sciuparle, cangiavano alla luce e la voglia di indossarne qualcuna e guardarsi allo specchio era troppo grande ogni volta. Ve ne era una in particolare, color amarena, che metteva in risalto la sua pelle bianca, sembrava un vestito da sera, era bello specchiarsi e riconoscersi.
Successivamente, con lentezza e soddisfazione, le riponeva nelle scatole raccogliendole nella velina, uno scricchiolio lieve nel ripiegare i suoi tesori.
A seguire tirava fuori i completi da cucina e le lenzuola, quando voleva essere più audace, le portava al viso per annusarne l’essenza fiorita della vita futura.
Quali tavole avrebbero apparecchiato quelle tovaglie? quali letti avrebbero abitato le lenzuola?
Il cuore sembrava scorrere dal petto alla gola e dalla gola al petto, quando sentiva un rumore arrivava inaspettato, indugiava qualche minuto e quando era certa di non essere sentita, con delicatezza, riponeva tutto al suo posto nell’armadio: “i loro incontri dovevano rimanere segreti”.
Quando la nonna portava a casa un nuovo pezzo del corredo, Caterina si sentiva orgogliosa, sapeva che ella aveva fiducia in lei, che la riteneva importante come donna e come portatrice di vita. La nonna sapeva che avrebbe mutato forma un giorno, che forse sul momento non l’avrebbe capito appieno quel gesto, ma sentiva che ne stava cogliendo l’importanza.
Aveva traslocato dalla casa della sua infanzia ormai da anni e fu così impegnata a vivere, che non si accorse del tempo che passava veloce, parte del corredo fu usato, altro andò materialmente perduto, eppure, si rese conto che il ricordo che restava di esso lo sorpassava, oltre le stagioni e i ricordi, il gesto, restava indelebile.
Caterina aveva sviluppato la consapevolezza che il “corredo” non sarebbe mai andato perduto, che la cura con la quale era stato messo da parte, anno dopo anno, fino ad arrivare a lei una volta diventata grande, le aveva dato la sicurezza e la fiducia, che le generazioni che l’avevano preceduto la stessero pensando e le dessero sostegno.
Spostandosi in uno spazio speciale ringraziò sua nonna e capì quando le diceva: “Ti verrò in mente tante volte e dirai, la mia nonna aveva ragione”. La nonna ne aveva già fatto esperienza e con amore lo comunicava a quella bambina che con gratitudine avrebbe tramandato il suo corredo.
Racconto “Il corredo” scritto da Giusi Scerri
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi,
in tutte le librerie a distribuzione nazionale
oppure on line al link di seguito:
http://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/racconti-nella-rete-2016
I Lunedì di LuccAutori – Centodieci – Valentina Grosso
Era un’estate di quelle che sembravano non finire mai. Pepè e Giacomo non ne volevano sapere di stare in casa e così sgattaiolarono fuori. Le strade del paese, a causa della calura opprimente, erano deserte. Anche la signora Nenè che era solita starsene sulla sua sediolina, ai bordi della strada, a sferruzzare, si era rifugiata in casa. Se non fosse stato per le loro risa e il rumore dei loro passi sul selciato, ad un forestiero arrivato per caso sarebbe sembrato un paese deserto. Un po’ era così infatti, in tanti erano andati via, chi per scelta propria e chi no, ma la cosa che avevano in comune era che nessuno vi aveva mai fatto ritorno. Un po’ come loro padre, oramai erano quattro anni che mancava da casa, ma la madre era convinta che prima o poi sarebbe tornato. Così ogni sera accendeva un lumino rosso sotto la sua foto, s’inginocchiava e con il rosario tra le mani, pregava sottovoce.
Correvano a perdifiato, giù per i ripidi vicoli che portavano verso valle, ridevano ed erano contenti. Passarono dietro il casolare un po’ fatiscente dello zio Natale e recuperarono il pallone di tela mezzo sgonfio. Lo nascondevano sempre li per non farlo vedere alla mamma. Era il loro segreto. La mamma li aveva messi in guardia, non dovevano accettare regali dagli sconosciuti, poteva essere pericoloso. Ma quel ragazzotto biondo e pieno di lentiggini a loro sembrava un tipo a posto, e nonostante non avessero capito una sola parola di quella sua lingua strana, avevano accettato il regalo senza preoccuparsene troppo. “Ok Guys?” e aveva alzato il pollice all’insù. Giacomo anche l’aveva imitato mettendo il pollice all’insù e lui intanto aveva preso il pallone.
Ricominciarono a correre dando calci alla palla che avanzava lungo la mulattiera insieme a loro. Ad ogni calcio si sentivano più leggeri e contenti. La spensieratezza che avevano a dodici anni dando un calcio ad un pallone non l’avrebbero mai più avuta, neanche tanti anni dopo quando continuarono a giocare nel campo dell’oratorio dietro la chiesa. Era diverso, uno sgangherato campo di pozzolana non poteva competere con l’odore degli ulivi, dell’erba tagliata da poco e perchè no, anche con l’odore del letame appena posato. Così correndo arrivarono fino all’uliveto di Padrone Milo, uno dei pochi uomini rimasti ancora in paese. Si diceva in giro che era rimasto al paese perchè aveva un difetto alla schiena e per questo non poteva correre. Se ne andava sempre in giro a cavalcioni sul suo mulo, con un fucile in mano. In paese si mormorava che fosse un po’ “tocco” perchè non parlava quasi mai con nessuno, e a qualsiasi domanda gli venisse fatta rispondeva sempre con dei numeri . “Non uno, non due, non tre ma centonove” e poi faceva ampi gesti con le mani. Nessuno capiva che cosa dicesse ma tutti sembravano trattarlo con grande rispetto.
Adesso che la radura con gli ulivi si stendeva a perdita d’occhio davanti a loro, potevano cominciare la partita. C’erano due alberi che avevano la distanza giusta tra di loro da sembrare proprio una porta da calcio a tutti gli effetti. Facevano a turno per chi stava in porta e per chi calciava. Adesso era il turno di Pepè di battere. Si sistemò il pallone davanti ai piedi con gesti da giocatore esperto che era sceso in campo migliaia di volte. Fece alcuni passi indietro e poi con tutta la forza che aveva sferrò il calcio, colpendo la palla con il collo del piede. Il pallone volò in alto, sopra la testa di Giacomo che sbracciandosi fece un salto sgraziato nel tentativo di parare la palla. Niente da fare, il pallone lo superò e … BOOOOOOM… “Goool” urlò con tutto il fiato che aveva in corpo Pepè. “Goool” e correva in tondo con le braccia aperte e gli occhi chiusi. Così da immaginarsi il boato delle urla dei tifosi allo stadio dopo che il capitano della squadra aveva segnato.
Recuperarono il pallone, e continuarono a giocare, dandosi il cambio in porta. Anche Giacomo segnò. Anche qui un boato accompagnò il suo gol e lui correva felice tra gli ulivi come se avesse vinto la coppa del mondo. Andarono avanti così fino al tardo pomeriggio, quando sentirono in lontananza un rumore di zoccoli. Era Padrone Milo, che avanzava in sella al suo mulo, completamente ricoperto di fango ed erbacce. Sembrava molto contrariato di vederli nel suo campo e brandiva in aria il fucile. Spaventati se la diedero a gambe risalendo a ritroso la mulattiera che li aveva portati lì. Arrivati in cima guardarono indietro e videro Padrone Milo, che adesso sembrava un puntino lontano, scendere dal mulo proprio nel punto dove loro qualche minuto prima stavano giocando a pallone. Si voltarono e si diressero verso casa. Era ora della merenda.
Milo, o Padrone Milo come lo chiamavano in paese, guardò con ansia il punto dove i due fratelli poco prima stavano giocando a pallone. Aveva tentato da lontano di avvertirli, si era sbracciato facendo ampi gesti con il fucile, per dirgli di smetterla, di andare via che era pericoloso. Aveva visto come i due erano scappati, avevano paura di lui e non di quello che gli stava intorno. Sapeva che in paese tutti pensavano che fosse matto. Ma lui lo sapeva che non era così. Non era matto. Sordo si, ma tocco no.
Lui al fronte non ci poteva andare, aveva qualcosa alla schiena che non andava, così gli avevano detto i medici. Ma i suoi fratelli si, loro erano sani e tutti e cinque erano andati al fronte. Solo Catello era tornato, e aveva visto nei suoi occhi, oramai svuotati da qualsiasi barlume di vita, lo sdegno che provava verso di lui. Era rimasto sei mesi e poi si era imbarcato per il nuovo mondo. Lui però quello sguardo non l’aveva dimenticato e da allora aveva deciso che avrebbe fatto qualcosa per rendere fiero suo fratello. Per fargli capire che anche lui valeva qualcosa.
Fu così che aveva deciso di disinnescare le bombe e le mine inesplose che pullulavano nei campi intorno al paese. L’ultimo regalo che la guerra aveva lasciato a tutti quanti. Come un’ amante capricciosa dopo la fine della sua relazione clandestina, la guerra non ne voleva sapere di andarsene, non ne voleva sapere di lasciarli in pace. Te la ritrovavi davanti ad ogni passo, ogni volta che giravi l’angolo e vedevi una casa oramai disabitata, lei era lì che ti aspettava. Lui cercava di fare del suo meglio per mandarla via. Girava le campagne lì intorno, a dorso del suo mulo, scrutando minuziosamente il terreno, cercando di identificare la possibile presenza di qualche mina, nascosta dalla terra e dal tempo. Era diventato piuttosto bravo. Una volta che la trovava scavava ad una decina di metri una buca profonda, per ripararsi, e accendeva la miccia per far brillare la bomba.
Il campo di ulivi dove poco prima stavano giocando quei due ragazzi era invaso di mine. Quegli incoscienti ne avevano fatte saltare un paio, di quelle piccoline, con il pallone ed ora toccava a lui farle saltare completamente. Cominciò a scavare la solita buca profonda qualche metro, proprio tra i due ulivi che erano serviti da porta a Pepè e Giacomo. Preparò la miccia con molta cura e allontanò il mulo. Solo allora si avvicinò e la vide. Nera, metallica, quasi lucente sotto i raggi del sole. Era facendo saltare mine che era diventato sordo. La numero trentasei era più grande del previsto e il boato lo travolse in pieno. Non sentì più nulla, solo ronzii sommessi. Per questo sembrava matto, non sentendo ciò che gli altri dicevano lui rispondeva solo con il numero di mine che aveva fatto esplodere. ‘Non uno, non due, non tre ma centonove’. Questo era il numero a cui era arrivato. Con cura attaccò la miccia, la tese bene al suolo e si nascose nella buca che aveva fatto poco prima. La numero centodieci squarciò il silenzio di quell’estate che sembrava non dover finire mai.
Racconto “Centodieci” scritto da Valentina Grosso
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I lunedì di LuccAutori”
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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi
in tutte le librerie a distribuzione nazionale
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I Lunedì di LuccAutori – Simonetta – Ottavio Mirra
“Sono la pecora sono la vacca, se agli animali si vuol giocare, sono la femmina camicia aperta, piccole tette da succhiare” (Fabrizio De André)
Mi chiamo Simonetta, fino a ieri per venirmi a trovare bastava allungarsi dallo zoo di Fuorigrotta fino al Viale dei Giochi del Mediterraneo. Adesso se ti devo raccontare come sia finita lì, la storia è lunga e non credo tu abbia tutto questo tempo. Vediamo se ci riesco in due parole.
Da piccola, come tutti quelli del quartiere, giocavo a pallone per strada. Allora non c’erano i campi di calcetto e ci si arrangiava. Io ci giocavo perché mi piacevano i contatti. Mi piacevano i tackle, con il pallone in mezzo a dieci piedi che scalciavano. Con i pantaloncini corti, si scontravano le ginocchia nude, si strusciavano le cosce. A questo pensavo quando andavo a giocare, a questo e agli abbracci dopo i gol. E io di gol ne facevo tanti. Giocavo, mi strusciavo, segnavo e abbracciavo. Il motivo per cui mi piacesse così tanto giocare a pallone con i ragazzi, me lo spiegò un giorno Don Quirino, senza bisogno di parole, mentre ero in sagrestia inginocchiata di fronte a lui per confessarmi. Io con Don Quirino non ce l’ho per niente. Con lui è successo solo quella volta, ma mi è bastata per capire, così mi sono messa in proprio e dopo un po’ avevo la fila davanti alla porta. Ho conosciuto un sacco di gente, e c’è stato anche chi mi ha voluta bene davvero.
Lo sai che ognuno di noi nasconde dentro di sé un maschio e una femmina? Ma certo che lo sai. Ecco, tra i due io ho preferito la femmina, e quella sono stata, per tutta la vita. Bella, alta, imponente, da guardare. Il tempo mi ha solo sfiorata, e su Viale dei Giochi del Mediterraneo contavo ancora qualcosa. Bastava un velo di trucco in più e i miei sessantatré anni sembravano quaranta.
Fino a ieri, come sai.
Poi è arrivato lui, si è accostato con la macchina e mi ha chiesto come mi chiamassi. Era bellino, simpatico. Gli ho sorriso. Simonetta, gli ho detto, mi chiamo Simonetta, e sono salita. Questa volta però è andata male. A lui non è piaciuto il lato maschile che ancora mi porto appresso. Come se contasse qualcosa. Mi sono sempre detta che se non conta per me, non dovrebbe contare per nessuno. Lui, invece, ne ha fatto una questione di vita o di morte e con il coltello mi ha tagliato la gola.
Ora mi prenderai per pazza se ti dico che mentre stavo morendo mi è venuto da ridere. Mi ha uccisa uno che ha il mio nome al maschile, si chiama Simone. Ma ti rendi conto? Mi ha uccisa la mia parte maschile.
Vedi Pietro, ora che sono arrivata davanti alla tua porta, sono io che ho una domanda per te: dimmi, conta anche qui?
Racconto “Simonetta” scritto da Ottavio Mirra
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I lunedì di LuccAutori”
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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
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edito da Nottetempo a cura di Demetrio Brandi
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“Non andartene docile in quella buona notte” Dylan Thomas
Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.
Though wise men at their end know dark is right,
Because their words had forked no lightning they
Do not go gentle into that good night.
Good men, the last wave by, crying how bright
Their frail deeds might have danced in a green bay,
Rage, rage against the dying of the light.
Wild men who caught and sang the sun in flight,
And learn, too late, they grieved it on its way,
Do not go gentle into that good night.
Grave men, near death, who see with blinding sight
Blind eyes could blaze like meteors and be gay,
Rage, rage against the dying of the light.
And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless me now with your fierce tears, I pray.
Do not go gentle into that good night.
Rage, rage against the dying of the light.
Non andare docile in quella buona notte,
I vecchi brucino infervorati quando è prossima l’alba;
Infuriati, infuriati contro il morente bagliore.
Benché i savi infine ammettano ch’era giusta la tenebra
Poiché le loro labbra nessun fulmine scagliarono
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli onesti, nell’onda ultima, urlando quanto fulgide
Le fragili opere potevano danzare in verdi anse
Infuriano, infuriano contro il morente bagliore.
I bruti che strinsero e cantarono il sole in volo,
E tardi appresero d’averne afflitto il corso,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, morenti, scorgendo con vista cieca
Che gli occhi infermi splendono e gioiscono come bolidi
Infuriano, infuriano contro il morente bagliore.
E tu, padre mio, là sulla triste altura, ti prego,
Condannami, o salvami, ora, con le tue fiere lacrime;
Non andare docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morente bagliore.
Grazie all’amico scrittore Lollo che lo scorso ieri al cinematografo con la sua Bella ha scovato questi versi e me ne ha fatto dono, ed oggi qui per tutti noi !
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