365 giorni, Libroarbitrio

Cronache dalla Montagna: MUSEI A CIELO APERTO – di Renata Covi

In montagna si va per camminare, per i panorami, per l’aria sottile, e in quest’estate che assomiglia ad un altro-forno, anche per respirare l’aria fresca.
Le Dolomiti sono sempre bellissime, anche se le chiazze di neve che le punteggiavano non ci sono più. Camminando e salendo con la funivia capita di fare degli incontri imprevisti: dei musei.

Già, i musei d’alta montagna, modernissimi oppure vecchie cose che abbiamo sempre visto adesso si chiamano “Musei a cielo aperto”.
Comincio dal più antico e malinconico il Monte Piana, lo dice la parola è un altopiano, davanti alle maestose Tre cime di Lavaredo, panorama sublime. La strada è chiusa al traffico e si sale con la navetta. Monte Piana è un luogo di trincee della Grande Guerra 15/18, dove si vedono ancora le trincee italiane e quelle austriache.  Si fronteggiano, ed è facile immaginare che ogni tanto quei poveri ragazzi costretti lassù fraternizzassero, almeno a Natale.

Nelle trincee sono rimaste delle brandine arrugginite a ogni tanto si trova una stufa. Quei ragazzi hanno passato anni lassù a 2300m s/l, sepolti dalla neve, gelati dal freddo, bruciati dal sole. Tra i due fronti, su quel piccolo pezzo di terra sono moti 14.000 giovani:

“Tutti giovani sui vent’anni
La sua vita non torna più.”

Questo lo cantavano mentre qualcuno suonava l’armonica.  

Un posto totalmente diverso è il museo a Passo Rombo. Una strada stretta con mille curve ti porta su, salendo da Merano. Strada stretta e curve vuol dire paradiso dei motociclisti. Poi arrivi al passo e trovi davanti a te il ghiaccio dove hanno trovato Ötzi, la famosa mummia, ma quello che non ti aspetti è che in quel posto isolato ci sia il museo dedicato alla moto.

Vorrei descrivere quello che ho visto, ma non posso. Perché quello che ho visto io e stato raso al suolo da un incendio. Però lo hanno ricostruito a tempo di record e da tutto il mondo hanno inviato moto per riaprire il museo, che funziona da novembre 2021.

Il terzo luogo è sopra Brunico dominato dalla campana dell’amicizia: Plan de Corones.
Si sale in funivia ed è legato alla leggenda della bellissima principessa Dolasilla del regno di Fanes. Dolasilla era coraggiosa e i nani le avevano donato delle frecce d’argento infallibili, la principessa aveva combattuto e vinto per il suo popolo, e a Plan de Corones fu incoronata “Eroina” dal Re suo padre.

Ovunque vai in alto vedi sempre le Dolomiti in tutta la loro bellezza, sempre uguale e sempre diversa a seconda dell’angolazione e della luce. Lassù sui monti, talvolta in mezzo alle nuvole, c’è il museo della montagna voluto da Messner, il grande scalatore. Il museo non si vede perché è scavato nel terreno, ma guarda fuori attraverso delle grandi finestre. Dentro si vede la storia della fatica della salita in roccia. Non si celebrano gli alpinisti ma la montagna e i mezzi per salire. Nelle vetrine si vedono scarponi, corde, chiodi, ramponi, picozze e tanto altro.

C’è anche una sezione dedicata ai quadri con le montagne di tutto il mondo dall’800 in avanti, interessanti e suggestivi.

Articolo di Renata Covi

365 giorni, Libroarbitrio

“Fra Noi e gli Altri .la vita comunque.” Recensione di Angelo Andriuolo

in copertina Lié Larousse .la vita comunque.

Quella di Lié non è solo Poesia: esonda, attraverso espressi concetti di cogito e coscienza, con cruda delicatezza e sfrontato garbo, in una “filosofia” che ha al suo centro il concetto di vita. La vita è teatro, ma non sono ammesse le prove, diceva Anton Čechov. L’ Autrice “questo teatro” lo percorre come si fa con una strada, a volte, poche in verità, dritta e perfetta, altre volte sconnessa e in salita come un sentiero di montagna su cui faticosamente inerpicarsi; sempre, però, con la ben presente consapevolezza della necessità e inevitabilità del cammino e dei suoi infiniti possibili bivi e della impossibilità di percorrerlo a ritroso. I versi sono il suo carburante: quello che le serve per non fermarsi mai. La méta diventa quasi irrilevante, vacua, incerta, fumosa. E’ il passo (il muoversi, l’avanzare) a fare da metronomo alla musica dell’esistenza e a dare tempi e ritmo al momento. Lié riesce ad annullare le distanze fra passato e futuro contestualizzandole in un presente che ogni cosa avvolge, e che poi è l’unica cosa che, in fondo, esiste per davvero. Esattamente “ in questo preciso punto/ qui nella testa/ qui nel ricordo” . E questa condizione diventa la sua “sofferenza” : .se questa tua vita/ in una vita si aprisse/ una dentro un’altra/ e dentro questa/ un’altra ancora/ vita su vita.; ma anche la sua forza perché sa trasformare ogni negatività, che sia sua o altrui non importa, in energizzante poesia che per lei, e per chi legge, è rinvigorente come la Madre Terra per il gigante Anteo. Chi leggerà questo libro scoprirà che è un aiuto alla riflessione sulle relazioni intercorrenti fra Noi egli Altri, e sul come dovremmo allenare, con l’immedesimazione, la percezione empatica del mondo che ci circonda. Imparando a fare un po’ più nostri i sentimenti e le sensazioni delle persone che, magari per un attimo, gravitano nelle nostre vite o anche solo nei nostri pensieri. La poesia di Lié non risponde (non vuole, non deve); la poesia di Lié solo dipinge, magari con iperrealistica crudezza, e a volte domanda. Con un approccio soggettivo, istintivo ed istantaneo. Che, come una rasoiata, ferisce a fondo ma senza immediato dolore: “ho lasciato che il vento/ di questo pomeriggio disgraziato/ prendesse a sé/ tutte le promesse di film al cinema mai visti/ l’intonaco e gli stracci di pelle/ che a fine giornata/ ancora m’erano rimasti appiccicati/ al culo però/ più che al cuore”. Una ferita che non ti uccide e da cui puoi guarire: per continuare a vivere, a vivere .la vita comunque.

Articolo di Angelo Andriuolo

365 giorni, Pubblicazioni

buona vita sempre gente

Vettriano

.quanto fa freddo oggi
calpestati di silenzio,
arrugginiti dall’ossigeno,
storta la luna sembra stanca,
e noi
abbiamo imbastito
scorciatoie ad ostacoli
e alla fine ci siamo dati
tante di quelle parole
dette per non dire
che dietro lenti scure
gli occhi lividi
baciati dal sole
pizzicano
ma non piangono
anche se hanno visto
che si può davvero perdere tutto
pur non avendo mai avuto
nulla.

.scorciatoie ad ostacoli. Lié Larousse

Auguro a tutte le persone che non hanno nulla o più nulla da festeggiare giorni sereni sempre, e che questi natalizi passino in fretta, e soprattutto indolore, così da poter tornare con un bel respiro alla vita di sempre.

Con amore Lié 

365 giorni, Libroarbitrio

CANTO DI NATALE – Racconto di Gianluca Pavia

heartbreakhotel

L’autobus si fermò con un lamento, e Nino prese l’uscita senza troppi convenevoli.
– Buon Natale anche a lei.- Fece ironico l’autista mentre le antine si richiudevano.
Non sapeva cosa stonasse di più: che gli avessero dato del lei, o che il Natale fosse spuntato dal nulla un’altra volta, subdolo come sempre. Eppure avrebbe dovuto intuirlo, nel mezzo pomeriggio speso per tornare a casa dal cantiere all’altra parte della città. Seduto su scomodi seggiolini pubblici, a guardare fuori la vita che scorreva sotto una pioggerellina sottile: il traffico frenetico nella sua stasi, i volti trasfigurati dei pedoni in entrata ed uscita dalle torri illuminate dei centri commerciali. Il fatto è che Nino stagnava in quel limbo tra i trenta e i quaranta in cui si è troppo giovani per certe cose, troppo vecchi per altre, e una spessa foschia avvolge tutto il resto. L’ascensore si fermò al piano. L’illuminazione andava e veniva mentre Nino cercava le chiavi nei pantaloni da lavoro. Quando le infilò nella toppa si rese conto del pacchetto fissato alla porta con dello scotch. Sul retro c’era una bigliettino. Aprì la porta e cercò l’interruttore al buio. Click, e ancora buio.
Click, click, click, sempre buio.
– Fantastico, hanno staccato la corrente.- Sibilò sull’uscio, e lesse il biglietto sotto la luce intermittente del pianerottolo.- Il tempo passa, le tradizioni rimangono. In qualche modo.
Non ebbe bisogno di leggere la firma, cacciò il pacchetto in una tasca ed entrò nell’oscurità dell’appartamento con un mezzo sorriso. Evitò a memoria i resti di posaceneri e bollette accartocciate, sedie pericolanti e spigoli infami. Aprì il frigo e ne pescò fuori mezza bottiglia di rosso, l’unico superstite in quel sarcofago abbandonato.
Si attaccò direttamente alla bottiglia entrando in bagno con la mano libera a sistemare le mutande sotto i pantaloni. Pisciò, tirò l’acqua e si sciacquò la faccia.
Fuori, in strada, qualche demente sparava i primi botti. Nel bagno, nello specchio semi oscurato, le sue rughe non erano così marcate, la vita bluffava sugli anni trascorsi.
Trascorsi da quando?” Rifletté abbandonandosi sul letto con ancora le scarpe antinfortunistica ai piedi.
Dalle tavolate immerse nel fumo di sigarette nazionali? Dal baccano di brindisi e auguri posticci? Dal Game Boy e quel cazzo di Tetris con la sua musichetta ipnotica?”
Si girò su un fianco e la carta del pacchetto nella tasca crepitò minacciosa.
O dai 24, 25 e 26 rinchiusi in una stanza, a bere vino e fare l’amore? Guardare i cartoni alla tele e sperare che un altro Natale si tolga dal cazzo. Leccarsi, mordersi, e spartirsi carni e liquidi come cenone.”
– Non era male come tradizione, per essere una tradizione.
Si girò ancora nel letto. Ora fissava il soffitto, o almeno quello che riusciva ad intravedere nel buio. Dalla finestra arrivavano sputi di luce, di addobbi e fari in strada. Qualche petardo e auguri tra sconosciuti dall’appartamento affianco. Natale non era mai stato piacevole, ma Nino aveva sempre trovato qualche modo per fotterlo, anche scordandosi della sua esistenza. Specialmente così. Questo giro non era quello buono. Lo sfondo nero del soffitto era la superficie ideale dove proiettare fantasmi che non gli appartenevano più, non appartenevano più a nessuno. Provò a dormire il sonno dei giusti, di chi si spacca la schiena per due spicci, e poi il fegato bevendosi via gli stessi spicci. Nisba, la sua mente aveva la stessa consistenza del soffitto, lo stesso peso specifico fatto di sorrisi, saliva e un rifugio sicuro. Pranzi, tombolate e scuse accampate pur di scappare via. La pelle di lei, i suoi gemiti, tutto era meglio di niente, e adesso gli rimaneva solo quello. Il niente.
Il telefono trillò in una tasca, il mondo non si era scordato di lui.
Forse era lei, o magari qualche parente lontano. Magari uno zio. Americano, ricco e in punto di morte.
No. Era solo il suo operatore telefonico che gli augurava un felice Natale, ricordandogli che per soli cinque euro in più avrebbe avuto tutti i giga che voleva per navigare durante le feste.
– Vaffanculo, meglio affogare.- Digrignò cercando la bottiglia di rosso.
Mezzo sorso e anche quella era andata. Prese il telecomando e accese la tv.
Una, due, tre volte. Si ricordò che non c’era corrente, l’avevano staccata. Cercò di provare un moto di disgusto per lo stronzo che gli aveva tagliato i fili proprio alla vigilia. Poi rimpianse che il giorno dopo sarebbe stato il venticinque e non poteva neanche lavorare, gli sarebbe toccato rimanersene a casa e bere vino, da solo. Sarebbe potuta andare peggio, tipo brindare con qualcuno.
Sbuffò, si alzò dal letto e in un attimo fu in strada.
L’aria era fredda, tagliava il volto come lamette arrugginite, e portava con sé l’aroma di agrumi sbucciati e il rovisto di qualche cane tra i secchioni dell’immondizia. Si accese una sigaretta stringendosi nel cappotto. L’asfalto era silenzioso eppure dai palazzi intorno a lui veniva il sommesso brusio di chiacchiere e tappi che saltano. Espirò l’ultima boccata di fumo che si aggrovigliò su se stessa salendo nella notte appena fuori l’unico bar aperto.
Entrò a testa bassa e filò al primo tavolino libero.
– ‘Sera Architetto, il solito?- Gli chiese il barista di cui non ricordava il nome, o magari non l’aveva mai saputo.
– Sì, grazie.
Si guardò intorno mentre aspettava il drink. Facce vecchie, stanche, allargavano le labbra e schioccavano lingue mandando giù stravecchi ed amari. Mani stringevano mani, labbra rispondevano auguri ad auguri, sguardi evitavano sguardi.
– Ecco qua, Architetto, il tuo Campari e vodka.- Sorrise la cameriera posando il bicchiere difronte a lui.- Buon Natale.
– Grazie…cara.- Non riusciva proprio a ricordarsi se si chiamasse Oana, Diana o con uno qualsiasi di quei nomi tanto in voga oltre la cortina.- E comunque non sono un architetto.
– Certo che lo sei.- Sorrise ancora la cameriera e se ne andò.
Ebbe il sentore che quel soprannome fosse una presa in giro. Perché lavorava in cantiere, o magari perché in più di un’occasione aveva ricordato a tutti quegli ubriaconi falliti lì seduti che almeno lui una laurea ce l’aveva. Solo che gli altri sbottavano a ridere, dandogli pacche sulle spalle e offrendogli da bere. Alla fine iniziò anche lui a dubitare d’averlo mai preso quel pezzo di carta, e chiedersi di cosa se ne fosse fatto, poi. Forse ci si era pulito il culo.
– Alla salute.- Brindò al vuoto e mandò giù il drink cercando di liberarsi da quei pensieri cancerogeni.
Le slot alle sue spalle suonavano come campane a festa. I disperati che le assediavano sbarravano gli occhi ed imprecavano come in qualsiasi altro giorno.
Dal primo all’ultimo dell’anno, stessa scena un giorno dopo l’altro. Per fortuna sullo schermo sopra il bancone passava il solito film natalizio a ricordare a tutti che quello era uno giorno speciale. Nino se lo ricordava a memoria, lo vedeva tutti gli anni da quando era piccolo. Non gli era mai piaciuto più di tanto, e poi la risata isterica di quell’attore di colore, falso invalido all’inizio del film, gli dava ai nervi, più o meno come l’idea di fondo che in un giorno speciale succede sempre qualcosa di speciale. Ordinò un altro giro e si guardò ancora intorno senza trovare nulla di speciale. Le stesse facce, gli stessi discorsi, le stesse sfighe di qualsiasi altro giorno. Eppure lui si trovava lì, in mezzo a loro.
Era forse quella la sua famiglia ora? Era come loro? Doveva brindare con loro?
Con vecchi, pazzi e beoni? Disperati gioco dipendenti ed alcolisti a tempo perso?
Erano brutti e senza scintilla negli occhi, nelle parole, eppure eccolo lì a salutarsi e scambiare quattro chiacchiere, a condividere tempo, spazio e solitudine. Tipo parenti serpenti che ti tocca sopportare.
Per quanto schifi quello che hai attorno, ce l’hai sempre attorno.
Corpi venivano ed andavano, come trascinati da una corrente invisibile.
Il film finì e c’era chi passava per un caffè dopo il cenone, chi per un amaro prima della pokerata, e chi, come lui e qualche altro, si limitava a mandar giù un bicchiere dopo l’altro.
La mente iniziò a rallentare, la palpebra a pesare, quando, d’un tratto, uno scoppio lo destò dalla sua programmata trance.
– Auguri, auguri a tutti!- Si sgolava il barista.- Questo giro l’offriamo noi.
Nino guardò l’orologio, mezzanotte ora locale.
– Ehi,- si sgolò verso il bancone – sei un po’ in ritardo.
– Che vuoi dire?- Chiese il barista intento a versare a spumante da discount in bicchieri sbeccati.- E’ mezzanotte, è nato Nostro Signore.
– Sì, ma vostro signore è nato ad un paio di fusi orari da qui. Avresti dovuto brindare due o tre ore fa.
Molti occhi si puntarono su di lui, stanchi, lucidi. Per lo più scivolarono via.
– Sei il solito stronzo.- Replicò il barista.- Per te niente champagne.
– Se quello è champagne,- fece Nino – ieri mi sono fatto Belen.
Applausi e schiamazzi soverchiarono il trambusto delle slot machine. Qualche simpaticone offrì addirittura un giro, o due. Nino ne aveva perso il conto, ne aveva perse di cose, ma la notte se ne sbatte e scivola via comunque, impassibile, immutabile.
– Allora come ti va, architetto?- Gli chiese il tizio che aveva offerto l’ultimo giro sedendosi al suo tavolo senza invito.
– Più che come toccherebbe capire dove.- Replicò lui studiando quel volto liscio.
– E comunque non sono architetto.
– Certo che lo sei!- Sghignazzò l’altro mollandogli una pacca sulla spalla.
Nino sbuffò dalle narici.
– Se mi tocchi ancora ti spacco la faccia.
Non era grosso, né eccessivamente cattivo, ma a volte bastano gli occhi ad allontanare gli scocciatori, specialmente se hanno una traccia di pazzia.
Il tizio se la filò ed il tempo riprese a scorrere liscio.
Doveva essere abbastanza tardi quando qualcosa catturò la sua attenzione.
Un paio di chiappe da urlo, strette in una minigonna jeans, si agitavano di fuori strusciando sulla vetrata del bar. Una ragazza discuteva animatamente con uno dei tanti disperati che frequentavano il bar.
– Ti ho detto di no, e mollami.- Urlò la ragazza.
Nino scolò l’ultimo goccio ed uscì fuori. Si appostò accanto ai due litiganti e si accese una sigaretta.
– E dai, Serena, che ti va. Lo so che ti va, non lo vuoi fare un po’ di zum zum con il vecchio Alfredo.
Serena aveva indosso solo quella minigonna ed un piumino da bancarella, e anche l’aria di chi attraversa la vita degli altri come un fantasma, lasciando un terrificante ricordo e nulla più.
– Appunto perché sei vecchio, lasciami stare.
I capelli erano lunghi e neri. Neri come può essere qualsiasi cattivo presagio, ma gli occhi brillavano. In quelle iridi c’era un nuovo giorno, l’orgoglio nonostante la sconfitta, il sangue che ribolle nelle vene. Qualcosa che Nino avrebbe solo potuto proiettare sul soffitto della sua camera.
– E non fare la stronza,- sibilò il vecchio, Alfredo, afferrandole un braccio – sei una puttana, no? Fammi questo bel regalo di Natale.
– Mollami, che mi fai male. Ti ho detto di no, è no.
Il vecchio alzò la mano libera per mollare un bel mal rovescio, Nino gettò la sigaretta a terra.
– Lasciala stare, ti ha detto di no.
I due si voltarono sorpresi, neanche dovessero scartare un regalo.
– Fatti gli affari tuoi.- Sibilò Serena.
– Hai sentito la zoccola?- Chiese il vecchio.- Sparisci Architetto.
La mano rugosa era pronta a calare, ma Nino fu più rapido. L’afferrò, liberò la ragazza dalla morsa sul braccio e spinse via il vecchio.
– Guarda che so difendermi da me.- Fece Serena.
– Ne sono sicuro.
Già, quegli occhi avrebbero fatto venire voglia a chiunque di perdercisi dentro. Non ne aveva il tempo però, Alfredo era un stronzo coriaceo, vecchia scuola.
– Ti sei fatto i cazzi tuoi, Architetto.
Il vecchio infilò una mano nella giacca e ne cacciò fuori una lama ben affilata. I clienti del bar guardavano tutti altrove, in fondo neanche quella era una scena tanto speciale da quelle parti. La lama scattò incontro a Nino che, pregando un dio che sarebbe dovuto già nascere da qualche ora, parecchi millenni prima, fu più rapido. Si mosse di lato e con un gancio ben assestato spedì il vecchio in un mondo in cui certe fregole si sublimano da sole.
– Porca puttana,- sbottò Serena stringendogli un braccio- l’hai sistemato per le feste, nel vero senso della parola.
Nino la guardò di traverso.
– Non usare quelle parole, non ti stanno bene.
– Che vuoi dire?
– Che sei una donna, devi mantenere una certa classe, uno stile.
Serena sorrise piantandogli lo sguardo dentro.
– Ehi, cocco, sono pur sempre una puttana.
– Anche le puttane hanno uno stile.
– Quelle che ce l’hanno fanno le veline, o il ministro.
Nino trattenne un sorriso.
– Ok, ci puoi stare, dammi una mano a sistemare il vecchio accanto ai secchioni e ti offro da bere.
Smaltito il rifiuto geriatrico si sedettero ad un tavolo e presero a bere. La ragazza era giovane ma teneva il ritmo senza problemi. Nino beveva, si sparava gli ultimi soldi e chiacchierava con lei come si conoscessero da una vita.
Musica, cinema, poesia, cazzate una dopo l’altra.
Non la vedevano allo stesso modo, anzi, diametralmente opposta, ma era piacevole parlare con un altro essere umano. Cazzo, sì, esistevano ancora.
– Vuoi dirmi che Fante non era ossessionato dal padre?- Chiese lei svuotando l’ennesimo amaro quando ormai il cielo annunciava un altro giorno di merda.
– Certo che n’era ossessionato, ma tutti abbiamo un’ossessione, e spesso la usiamo come scusa per rendere meglio in quello che facciamo.
Lei sembrò oscillare sull’incertezza di quelle parole.
– Non pensi mai a qualcuno con cui ti piaceva sul serio farlo, quando lo fai?
La domanda di Nino rimase sospesa in aria finché lei non si alzò in piedi.
– Te lo dico dopo, mi aspetti un attimo, vado in bagno e torno subito.
Fece cenno di sì e andò a pagare il conto mentre lei cercava la toilette.
I soldi non bastarono e dovette chiedere credito per gli ultimi due giri.
– Sei il solito stronzo.- Ripeté il barista.
– Probabile.- Replicò Nino uscendo fuori a fumare un’altra sigaretta.
Il nuovo giorno iniziava nel migliore dei modi: silenzio e poca gente in giro.
La vita non era poi così male, se non ci si badava troppo.
Il calore di un corpo contro il suo lo fece trasalire.
– Che vuoi fare? Andiamo da me?- Chiese Serena.
A momenti la sigaretta non gli cascò dalle labbra, mentre passava in rassegna quel corpo progettato da qualche sadico genio.
– Credevo che non volessi compagnia.
– Poche chiacchiere e più camminare.- Disse lei trascinandolo verso le case popolari vicino al mercato di quartiere.
Non parlarono lungo il tragitto. Nino si sentiva leggero, quasi inebriato. In parte per l’alcool, in parte per la prospettiva di un po’ di sesso. Quel corpo caldo incollato al suo smuoveva braci non del tutto assopite. La voglia di carne, di studiarsi a fondo, di darci dentro finché non si crolla esausti, sudati, e cazzo sì, in paradiso, lo faceva fremere come non succedeva da tempo.
Quanto tempo? Quanti Natali? Quanti risvegli in letti sconosciuti ed imbarazzanti compassioni lette in occhi estranei.
– Siamo arrivati, ti avverto, casa mia è una casino ma se non ti scandalizzi…
La voce di Serena era trillante, piena d’energia nonostante l’ora e l’alcool ingerito.
Nino fissò il portone, il vetro incastonato tra le assi di ferro, il suo riflesso.
Vide i suoi capelli allungarsi e farsi bianchi e unti. Il ventre da bevitore gonfiarsi. La barba farsi ispida e gli abiti rimanere gli stessi, solo conciati peggio, se possibile. Guardò il riflesso di lei, il loro, o un altro che non fosse il loro. Immagini che potevano essere ricordi o premonizioni. Solitudini collimate in una compensazione inutile, se non ad inacidire il bicchiere da cui a tutti tocca bere, e con cui non c’è un cazzo a cui brindare.
– Non salgo.- Disse il suo riflesso con le labbra rovinate.
– Che vuoi dire?- Stizzì lei dal vetro.
– Che non c’è niente di speciale neanche in una notte “speciale”.
– Sei uno stronzo.
– Lo dicono in tanti.
Il portone si aprì e Serena era quasi sparita dentro quando lui l’afferrò per un braccio, delicatamente.
– Buon Natale.- Disse pescando il pacchetto dalla tasca, quello che gli aveva recapitato qualcuno che non voleva avere niente a che fare con lui, non più.
– Vaffanculo.
Il portone si richiuse e Nino rimase qualche istante a fissare il suo riflesso invecchiato. Poi si aprì ancora, una mano gli strappò il pacchetto e scomparii. Era ormai giorno e quei pochi a cui toccava lavorare pure quella mattina scendevano in strada. I passi di Nino si diressero incerti verso casa. Era stanco, senza forze o idee su cosa lo aspettasse. Nulla di speciale, comunque.
– Almeno un altro Natale ce lo siamo tolto dal cazzo.

365 giorni, Libroarbitrio

.come piace a te. – Lié Larousse

Ombretta Tavano

.ti auguro
una vita lunga
folkloristica, divertente, scritta 
e colorata da momenti d’estasi di felicità
di quelli che restano per sempre
nella memoria del cuore
che sorridi a ripensarli e ti fanno fermare
una bocca d’aria e stai già meglio
che li cerchi al bisogno per ritrovarti
quando credevi di averti dimenticato
nei giorni quelli no
che lo sappiamo bene quanti ce ne sono stati
e che certo, ogni tanto, torneranno
perché tutti i giorni di felicità
mica te li posso augurare per davvero
non prendiamoci in giro
da che mondo è mondo
tutti i giorni la felicità non può essere
sarebbe da infartare
come quando finalmente t’innamorerai di nuovo
e ora non smaniare
fidati di me, succederà
e ti sentirai preso e perso
nel bagliore catastrofico dei suoi occhi
in petto un pugno
e le ore voleranno raccontate
di chiacchiere e storie di baci
e il giorno andrà sposo alla notte
a fare l’amore col sole
al buio senza tremare
e di nuovo al tramonto
che si farà leggere
e lei sarà sincera e leggera
come piace a te
ecco sì, questo ti auguro
una vita lunga folkloristica divertente scritta e colorata
come piace a te.

di Lié Larousse

project DuediRipicca #GianlucaPavia
dalla raccolta .la vita comunque. Miraggi Edizioni

www.libroarbitrio.com
#poetry #poesia #sketch

365 giorni, BLACKOUT, Lié Larousse, Libroarbitrio

A NATALE NON PASSARE IL TEMPO A TOGLIERE I CANDITI DAL PANETTONE, REGALATI UN LIBRO!

Quale migliore occasione se non quella dei doni natalizi per regalare e regalarti un libro!

 

 

 

NON LITIGATE!

 

Manca meno di una settimana al pigiama party più famoso di tutto il mondo, eppure sembra ieri agosto, il mare, le fanciulle in bikini, l’abbronzatura total body, la birra all’una di notte a rinfrescarci mentre facciamo l’amore con una sconosciuta svedese in spiaggia, e invece no, è dicembre e il freddo gela, una sconosciuta giù all’angolo vuole venderti fiammiferi, un uomo arrabbiato con la faccia pelosa e verde bofonchia che rovinerà il pigiama party a tutta la popolazione, e dalla televisione, seppur spenta, con un richiamo ipnotico, arriva l’eco dell’inconfondibile risata di un americano negro e con la pelata, e allora sì, a conti fatti Natale è proprio alle porte.
Ma non tutti i natali vengono per nuocere!
Stanno finalmente per arrivare giorni di relax da dedicare a noi, alla famiglia,  agli amici, e soprattutto sta arrivando il giorno in cui ci è permesso farci un regalo senza sentirci in colpa! E l’aria prende tutto un’altro profumo, calore, folklore: e sentiamo tirare una o due bestemmie qua e là  per una partitella a tresette e a briscola, assistiamo a sminuzzamenti di buccia di mandarino per le caselle della tombola sbiadita di nonna, affettiamo di nascosto una fetta di Pandoro e salame masticando Torrone togliendo i canditi al Panettone, togliendo l’uvetta al Panettone, togliendo di mezzo il Panettone, apriamo la porta a zii e cugini ritardatari che nemmeno riconosciamo, e poi tutti assieme uniti in una sola voce diamo il via al pigiama party con il canto che lo ha reso celebre, e di cui tutti sappiamo assolutissimamente le parole SCARTA LA CARTA SCARTA LA CARTA.
E tu lo scarti il regalo di zia la sconosciuta, pure con un mezzo sorriso preso dall’enfasi, ma giusto mezzo, perché sì, sarebbe stato davvero solo meglio il pensiero, ma alla fine, davvero alla fine, tu e il tuo maglione di lana puncicoso con su il muso felice di una renna ubriaca cucita a punto a croce, finalmente, aggiri il totem, da sotto l’albero di Natale afferri il tuo pacchetto, quello contenente il tuo regalo che ti sei andato a scegliere, e che ti sei fatto impacchettare dalle mani sottili di una giovane e bellissima commessa, più precaria di zio Augusto alla terza boccia di rosso. Lo scarti in un santissimo silenzio, gioisci muto all’apparire dell’intonsa copertina, e con lo stesso silenzio sotto braccio e l’animo davvero felice t’accasci inerme, nella prima poltrona libera che trovi, e sempre finalmente, dico finalmente, puoi goderti il tuo nuovo libro in tutto relax.

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Se ti servono consigli per la scelta del romanzo giusto, eccoti una lista dei nostri libri, i link dove poterlo acquistare online ma anche i negozi dove trovarli, inoltre tante novità, tra gialli, thriller, storie d’amore e racconti storici di amici scrittori.
Insomma  tanti libri su cui puntare per farti felice, e fare felice qualcuno con un regalo speciale.

 

BLACK OUT di Gianluca Pavia Romanzo Noir Tragicomico
https://www.amazon.it/Black-out-Gianluca-Pavia/dp/8894120473

SPIETATE SPERANZE di Gianluca Pavia Raccolta di Poesie
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POKER D’INCUBI di DuediRipicca raccolta di Racconti e Poesie
https://www.amazon.it/Poker-dincubi-DuediRipicca/dp/8893330644

.Lié. di Lié Larousse raccolta di Poesie
https://www.amazon.it/Li%C3%A9-Larousse/dp/8899815429

I nostri punti vendita a Roma:
La Feltrinelli LIBRI E MUSICA Viale Guglielmo Marconi 190  zona Marconi
T.P.H. GALLERY & BOOK Via delle Tre Cannelle 8                      zona Corso-p.Venezia
I TRAPEZISTI Via Laura Mantegazza 37                                       zona Monteverde
LIBRERIA TEATRO TLON Via Federico Nansen 14                     zona Ostiense
BOOK FELIZ Corso duca di Genova 68                                         Ostia
LIBRERIA INCIPIT  Via Giuseppe Marcotti 51/53                        zona Tiburtina
EDICOLA CALZETTA Via Portuense    713                                    zona Trullo/Portuense

 

 

 

Gianluca Pavia & Lié Larousse/ DiediRipicca
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contact: duediripicca@yahoo.com

Photo Credit: Gabriele Ferramola
Location Eternal city brewing – ECB

#christmasbook #regalodinatale

365 giorni, BLACKOUT, Libroarbitrio

SABATO 15 DICEMBRE BRINDISI DI NATALE con BLACKOUT – BIBLIOTECA LONGHENA

Locandina biblioteca presentazione blackout

Vi aspettiamo sabato 15 dicembre alle ore 11:00 ospiti di CULTURA VIVA per brindare assieme e vedere l’effetto che fa #blackout in biblioteca!

INGRESSO LIBERO / Info e link dell’evento:
Presentazione del libro “Black-out” de Gianluca Pavia
🍾🎁🥳

Biblioteca Longhena

365 giorni, Libroarbitrio

CRISTOPHERE DE NAZONACCIA – GIANLUCA PAVIA

Christophere de NAZONACCIA

Correva l’anno…
Non lo so, correva troppo veloce e non presi la targa.
Comunque, era una notte buia e tempestosa…
Ad essere sincero, non sono troppo sicuro neanche di questo, già allora il meteo era più variabile dell’umore di una donna in certi giorni particolari.
Per farla breve, due immigrati clandestini avanzavano nell’oscurità.

– Giuse’, io non ce la faccio più. Perché non ci siamo fermati in quella stalla?

– Mari’, venti denari per quella catapecchia erano veramente troppi, non c’era neanche il wi-fi.

– Magari se non ti trastullassi tutto il giorno con le seghe…

– Mari’, sono un falegname, ci lavoro con le seghe, Cristo! E poi parla quella che si è fatta ingravidare dallo Spirito Santo. Pffh, vergine ‘sto prepuzio circonciso.

– Eri ubriaco, cretino. E continua pure a fare lo stronzo, così non la rivedi neanche in cartolina.

– Cos’è una cartolina?

– Non lo so, ma suonava bene. Comunque, non mi dispiace Cristo, come nome per il piccolo, intendo.

Giuseppe non lo tollerava quel nome, suonava antico, polveroso, faceva pensare ad un mignolo contro lo spigolo. Lui preferiva qualcosa di più moderno, all’avanguardia, tipo Goffredo o Arcimboldo o Kevin.
Ne avrebbero discusso in seguito, ora era troppo stremato dal viaggio.
Viaggio iniziato parecchie lune prima, qualche giorno dopo quella fatidica notte in cui Maria, stringendo la mano dell’amica Gabrielle, aveva confessato di essere incinta.
Di cinque mesi. Di. Cinque. Mesi.
Poco importa se erano sposati da appena una settimana e che il povero Giuseppe, tra un mal di testa e una nausea e un’infernale sbornia post nozze, fosse certo d’essere l’unico a doversi accontentare del vecchio, sano, lavoro manuale. E lì ce ne metteva di spirito, più o meno santo.
Era stato un miracolo, la gravidanza, cos’altro? E loro erano fritti, ormai. Giuseppe, mani callose per il quotidiano impegno con le seghe, cosa poteva fare? Privo di qualsiasi istinto paterno, era pur sempre innamorato di Maria: una gnocca stellare, tanto che quando passava la gente si voltava ad esclamare: – E la madonna!
Optò per il buon viso a cattiva sorte, o come si diceva a quei tempi, porse l’altra guancia. Guancia centrata all’istante da vari ceffoni. La gravidanza della vergine aveva già aizzato malelingue e dicerie. I più imputavano il concepimento ad un’intercessione della sua amica, l’arcangelo Gabrielle: nordafricano d’origine, francese d’adozione, brasiliana d’operazione. Per inciso, nessuno è a conoscenza dell’origine dell’appellativo “arcangelo”. Alcuni studiosi lo imputano alla “spada infuocata” celata sotto l’ampia tunica, ma non ci sono testimonianze di nessuno che abbia avuto il coraggio di toccare con mano, tranne un certo Tommaso, detto Lapo, che nonostante scottatosi le dita più e più volte non è mai riuscito a togliersi il vizietto.
Giuseppe mandò giù le insinuazioni d’adulterio e porse ancora l’altra guancia. Guancia bersaglio ideale per un altro ceffone, e al pover uomo iniziarono a finire le guance e girare le palle. La fecondazione di una giovane pura si era estesa a macchia d’acqua benedetta per tutto l’Impero, giungendo all’orecchio di Erode, noto produttore di format con una forte inclinazione alla pedofilia. Il buon Erode li cercò per ogni pertugio dell’impero, era stato infatti abbagliato da un’illuminazione sulla via di Damasco, poi rivelatosi un tir in contromano, ma la decisione era ormai stata presa: madre e nascituro andavano scritturati per il suo nuovo reality “Non sapevo di essere incinta”. E magari solo la madre per un talk incentrato su di lei, qualcosa del tipo “Amici di Maria”, che tanto a Giuseppe non se l’era mai cagato nessuno, neanche per il concepimento la prima notte di nozze, figuriamoci per un cameo in prima serata. E non c’era da sottovalutare la fine filosofia esistenziale del buon Erode: scoparsi un bambino is for boys, il figlio di una vergine is for Erode.

Fatto sta, che tra le malelingue dei vicini, la presenza ingombrante, ingombrante ed infuocata, di Gabrielle e la caccia di Erode intenzionato ad abusare a piacimento della sua famiglia, Giuseppe raccolse le loro poche cose ed emigrò con Maria. Purtroppo non c’erano ancora gli scafisti, o perlomeno non erano così organizzati. Fu una fuga massacrante attraverso il deserto, senza l’ombra di un autogrill. Senza un’ombra e basta.
Patirono la fame, la sete, la stanchezza, le incessanti chiamate di diversi call center che promuovevano la Terra Promessa a prezzi stracciati; tutto per arrivare in quel buco di culo alla periferia dell’impero: Nazonaccia, dove non fecero in tempo a trovarsi una sistemazione che eccoli vittime del razzismo dei locali, terrorizzati all’idea che quegli immigrati potessero rubargli il lavoro che non avevano. Alla fine riuscirono a strappare un prezzo scontatissimo per una baracca in lamiera all’idroscalo, concedendosi finalmente cinque minuti di relax.

– Giuse’.

-…..

– Giuseppe!

– Mari’, lasciami in pace che sto leggendo una mail di Ammazzaoh. Dice che è partito un certo corriere Magi Exp. con i per tuo…ehm, nostro figlio. Ma se neanche è nato, è poi mica ce l’ha indirizzo, tua madre quella rompico

– E certo, lui ha sempre da fare.- Sbuffò Maria guardandosi l’enorme pancia.- E a me chi ci pensa? E al piccolo? E

– E mi si sono hai rotto le palle!- Sbottò Giuseppe.

Maria strabuzzò gli occhi: – A me le acque.

– Cosa?

– Mi si sono rotte le acque.

– Che Natale di merda.- Chiosò Giuseppe.

– Cos’è il Natale?

– Non lo so, ma suonava bene.

E così venne alla luce il piccolo, che dopo una diatriba infernale tra i genitori, tra chi lo voleva chiamare Cristo e chi con un più attuale Manuel, chi rivendicava un tradizionale David e chi un innovativo Natan Falco, prese il nome di Cristophere, una sorta di compromesso tra antico e nuovo, in perfetta sintonia con l’aristocratica atmosfera di Nazonaccia.
La prima decina di mesi passarono in fretta, il bambino era in buona salute, a parte un perenne cerchio alla testa, per di più dorato, ma quello lo vedevano tutti e invece di crucciarsene divenne fonte d’interesse, se non di superstizione.

– E’ il figlio di Dio.- Urlava il pastore.

E ti pareva, bofonchiava Giuseppe sempre più convinto che la creatura non gli somigliasse per niente.

– E’ il re dei re.- Urlava il fabbro.

– Ha il fattore x, sì, è lui il prescelto.- Urlavano gli ubriaconi della locanda.

– Prescelto per cosa?- Chiedeva il padre putativo sperando di sbolognare il piccolo.

– E che ne sappiamo noi, siamo solo ubriaconi.

Insomma, filava tutto liscio e in un attimo giunse il primo anniversario del miracolo, proprio la sera in cui tre ombre misteriose incombevano sull’uscio della dimora in lamiera.

– Oh, mio dio!- Esclamò Giuseppe spaventato da quei tre sconosciuti.

– Sì, dimmi.- Rispose Cristophere che già camminava, parlava e whatsuppava come un adulto.

– No tu, pezzo di scemo. Invocavo Dio.

– Sì, sono io.

Giuseppe ormai fuori dalla grazia di Dio, o del suo presunto figlio, provò a battere il figlio come vuole la Legge, senza riuscirci. Una delle tre ombre aveva interceduto placando la sua ira.

– Non picchiarlo, lui è il figlio di Dio.

– Mari’, te lo dicevo che non era figlio mio.

– Non dire stronzate.- Rispose lei, emergendo dal salotto angolo cottura spigolo da letto vista cloaca bella come non mai, candidandosi di prepotenza a prima milf della storia e della religione. E di educazione fisica, ma ad honorem.

– E voi chi sareste? Se vi manda EquiIsraele abbiamo già pagato le cartelle in sospeso.

– No, Santa Vergine, siamo i re magi, del Magi Exp.- Fece l’uomo indicando gli altri due che non erano più ombre ma gioielli e turbanti e sneaker in diamanti.- Melchiorre, Gasparre e Zuzzurro.

– Siamo venuti ad omaggiare la nascita del figlio di Dio.

– Allora siete in ritardo di un anno.- Replicò Giuseppe.

I tre magi si fissarono le punte delle scarpe, tossicchiando come smarriti.
Poi spiegarono che erano addirittura partiti in anticipo, per non trovare ingorghi al casello di Betlemme, ma solo una volta giunti a Biella, già in ampio ritardo, si erano resi conto che quella che avevano seguito non era la scia della stella cometa, bensì una scia chimica.

– Bando alle ciance.- Fece Giuseppe sfregandosi le mani.- Fuori i doni.

Il primo magio offrì oro, riscuotendo urla di giubilo da parte di Giuseppe; il secondo incenso, riuscendo a strappare appena uno smorfia a Maria.
Il terzo offrì mirra.

– Birra?- Squillarono all’unisono Giuseppe e Cristophere.

– No, no: mirra!

– E che è?

Il terzo magio arrossì in volto e bofonchiò qualcosa a bassa voce.
Sonanti invece furono le pedate, lì dove non batte la luce della cometa, con cui il falegname lo buttò fuori. In breve arrivò un nuovo magio interinale con contratto a progetto, ma almeno portò un paio di casse di birra e tutti poterono sbronzarsi felici e contenti.
Nazonaccia, scolo nevralgico del pattume imperiale, non era certo il Paradiso Terrestre dove far crescere un pargolo, tra tossici, puttane, ladri e i cani dell’Impero sempre più corrotti. Eppure Cristophere veniva su sano e forte.
Nonostante fosse figlio di immigrati s’integrò benissimo con gli altri bambini, drogandosi, rubando e molestando le lucciole con i suoi nuovi amichetti. Una dozzina che lo seguiva dappertutto, un po’ scalmanati ma tutti bravi ragazzi. Solo Giuda, con i suoi lineamenti delicati e quell’ambigua passione per i trucchi della mamma, metteva un po’ in difficoltà Cristophere, specialmente quando lo carezzava sussurrandogli: – Guarda che pettorali e che addome, hai proprio un corpo di cristo. Dammi un bacino, su, un bacino.
I problemi iniziarono con la scuola, specialmente quando Cristopehere prese a rispondere ai maestri, consapevole che non avrebbero potuto insegnare nulla al figlio di Dio.

– Qui le raccomandazioni non contano.- Era solito ripetere il maestro, scordandosi di un certo zio Tonino col posto fisso al ministero.

Il concetto stesso di istruzione obbligatoria lo soffocava, con l’intrinseca assenza di qualsiasi libero arbitrio. La scuola iniziò ad andargli sempre più stretta, anche perché nonostante le rassicurazioni della Protezione Civile, l’edificio crollava ogni morta di papa, ma essendo l’aspettativa di vita molto breve, era un bel casino ritrovarsi sempre in mezzo alle macerie. Così, nonostante le proteste dei suoi, decise di mollare gli studi.

– Allora te ne vieni in bottega con me.- Gli ordinò il padre.

Sfortunatamente, al perdere tempo con seghe e affini, Cristophere preferiva correre dietro alle maddalene, e anche come pescatore non ebbe grande successo. Tirava su e riportava a riva solo uomini, fregandosene delle acque territoriali e di qualsiasi confine deciso dall’uomo, e vedendo che era cosa buona e giusta creò le ong. Inutile dire che la sua attività non era ben vista né dagli abitanti di Nazonaccia, istruiti a dovere dalla propaganda di Erode su cosa pensare di tutti quegli sbarchi, né dai cani dell’Impero che un bel giorno silurarono la sua nave. Per fortuna schizzò sulle acque riuscendo a raggiungere la riva e quindi a salvarsi. Gli altri poveretti imbarcati con lui affogarono tutti, guadagnandosi dieci minuti d’indignazione e post solidali e gessetti colorati e poi il dimenticatoio.
Il tempo passava irrigidendo il clima intorno a lui. Essendo Nazonaccia un territorio che professava l’omertà come credo, in cui ognuno volgeva la testa dall’altra parte pur di non vedere certi intrallazzi, un giovane come Cristophere era indigesto ai più. Nessuno volevo ascoltare le sue invettive contro le piaghe da decubito sui culoni flaccidi degli spettatori di Erode, né farsi assillare con i vari “non desiderare la donna altrui” o “raccogli la cacca del cane”, tantomeno farsi convincere ad andare fuori a vivere la vita piuttosto che rintanarsi nel Tempio, il nuovo centro commerciale che andava per la maggiore. Anche i cani dell’Impero iniziarono ad essere stanchi, ogni volta che c’era una lapidazione arrivava quel giovanotto strambo urlando: – Scagli la prima pietra chi è senza peccato. E figuriamoci, quello era onnisciente, e in una periferia piccola come Nazonaccia i segreti avevano vita breve, così ognuno preferiva filarsela piuttosto che essere sputtanato in piazza, rovinando la festa a tutti.
La rottura vera e propria con la sua gente fu sancita dall’incidente alla discoteca Heaven. Pietro, il buttafuori alla porta, ritrovandosi davanti quella marmaglia mal vestita sbarrò l’ingresso del locale. Cristophere, che era già su di giri per via di certi funghetti rimediati dai suoi amici Esseni, sbottò afferrandogli la testa:

– Tu sei Pietro, e prima che il vocalist canti perla terza volta, con questa pietra spaccherò la console del dj.

L’energica comitiva forzò allora l’entrata riversandosi nel locale, scatenando l’effetto domino dei problemi a seguire. Erano tutti ragazzi di periferia, con le mani bucate e quindi senza un soldo, non potevano di certo permettersi alcuna consumazione alcolica. Come al solito, ci pensò Cristophere a risolvere il problema.
– Ecco la consumazione di Dio, che toglie la sete del mondo.- Urlò al bancone trasformando l’acqua in vino, la coca cola in cuba libre, i quattro bianchi annacquati in tre negroni belli carichi, per la gioia di Giuda e la disperazione di Ponzio Pelato, il manager della discoteca, e dei vari spacciatori di incenso e polvere d’angelo. Ne uscì fuori una festa come dio comanda, e a Cristophere gli ci vollero tre giorni e tre notti per risorgere dalla sbronza. Non fu un bel risveglio: gran parte dei pusher del quartiere ce l’aveva su con lui per avergli rovinato il mercato, i cani dell’Impero lo cercavano per non aver emesso fattura e Maria preoccupata lo mise sul primo lowcost che lo portasse via da Nazonaccia.
Gli anni passati a vagabondare si confondono con il mito. Alcuni studiosi assicurano abbia aperto un chiringuito sulle spiagge spagnole, altri che fosse il lavapiatti di un ristorante londinese, ma essendo già allora un peccato capitale preparare una carbonara con panna e bacon l’alternativa più credibile sembra essere un viaggio in India per ritrovare se stesso. Il problema per il figlio di Dio era che in quel paese ce n’erano un fottio, di divinità. E di reincarnazioni di Dio, E di concubine di Dio, e ne erano tutti felici. Un po’ meno i concubini, di Dio. Fu così che venne investito in pieno, prima da un tuctuc, poi dall’illuminazione.

– Siamo tutti figlio di Dio. Ognuno di noi è Dio, e può crearsi tutti i paradisi ed inferni che vuole.

Il suo misticismo di amore, libertà, rispetto, musica, poesia, dipingere corpi nudi in spiaggia all’alba, sorrisi a sconosciuti incrociati per caso, lo convinse a tornare a casa. Non per mandare avanti gli affari di famiglia, come sperava Giuseppe, né per tirarsene su una propria, di famiglia, sogno di Maria. La sua missione sarebbe stata il risveglio di tutti i suoi fratelli e sorelle. Avrebbe predicato l’amore e la consapevolezza, per risvegliare gli animi corrotti dalle leggi e dalle convenzioni degli uomini. Prese a girovagare insieme ai soliti amici arringando le folle con il suo credo.
– Beati i poveri, perché loro è i regno dei cieli.- Urlava, ma i più sognavano una multiproprietà ai Caribi e non molti gli diedero spago. Primo fra tutti Giuda, imprenditore in rampa di lancio che non gradiva le malsane idee del suo amico, nonostante continuasse ad ammirare quel corpo di cristo patendo le pene dell’inferno. Quindi il buon Giuda decise di non perderlo di vista, sabotando la sua campagna d’illuminazione.
– E’ più facile che un cammello passi per la cruna di una ago, che un ricco entri nel regno di Dio.- Proclamava Cristophere, e Giuda con un rapido giro di chiamate ai suoi amici palazzinari fece costruire aghi di cinquanta metri, ecomostri di ferro e cemento per la cui cruna sfilavano lisci lisci non solo i cammelli, ma anche il suo mega yacht e quelli dei suoi compari.

– Se ci amiamo gli uni con gli altri,- esortava il messia – Dio rimane in noi.

Giuda passando tra le file più lontane dal maestro, ripeteva: – Sbattitene degli altri e fatti i cazzi tuoi. Così l’ampio messaggio di Cristophere prese ad essere travisato.

Diceva: – Ama il tuo prossimo come te stesso.

– Gli immigrati nel cesso.- Correggeva Giuda mischiato tra la folla.

– Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

– Beati programmi di Erode che cancellano la noia.

– Sfamate gli affamati e dissetate gli assetati.

– Con le offerte di McDonald è anche più facile.

– Non giudicate e non sarete giudicati.

Beh, questo fu il messaggio che arrivò più chiaro, viste tutte le grane giuridiche che avevano Giuda e i suoi amici.
Il seguito di Cristophere cresceva sempre più, pari passo al malumore delle istituzioni e delle grandi aziende, che registravano dissensi in ascesa e profitti in picchiata. Eppure questo non bastava al rivoluzionario di Nazonaccia, che decise di abbinare le sue prediche a esibizioni da like and share, rispolverando quei miracoli che tanto gli erano costati in gioventù.
Si recò allora fuori l’ospedale più vicino e guarì tutti i lebbrosi, ma Giuda, sempre sulle sue tracce, insinuò l’utilizzo di metalli pesanti aizzando il malumore perfino nei miracolati. Fu così che la folla si ribellò contro Cristophere, compresi gli stessi ex-lebbrosi, e al grido di “ No vax!” lo riempirono di mazzate. Il messia non era tipo da abbattersi, così continuò il suo peregrinare, e trovandosi dinanzi al funerale di un ricco mercante, urlò alla sua tomba: – Lazzaro, alzati e cammina.
La tomba si spalancò, e ne saltò fuori un vecchietto arzillo e raggiante.

– Sono tornato, merde!

E le merde, i vari parenti non più eredi della sua fortuna multimiliardaria, non la presero bene, e riempirono Cristophere di mazzate, a cui si aggiunsero quelle dei finanzieri indispettiti dal suo favoreggiamento al falso invalido. Le cose non andavano per il meglio, per il messia era l’ora di giocarsi l’asso nella manica, e decise di giocarselo in casa. Organizzò una mega festa per promuovere la sua predicazione, con tanto di musica, balli, sballo e buffet. Per sua sfortuna, ad occuparsi del catering fu Giuda e va bene estasi e trance mistica, ecstacy e trans moschisti, ma ritrovarsi al buffet con due tramezzini al tonno e nulla è una bestemmia. La gente era ubriaca, affamata e iniziava ad innervosirsi. Senza perdersi di spirito il maestro guardò la folla, impose le mani e moltiplicò i pani e i pesci. Neanche Giuda era un tizio arrendevole, e sempre mimetizzato nella folla, prese a baccagliare: – Non è giusto, io non mangio pesce, sono vegano. E un mormorio contrariato si levò dalla folla.

– Io sono celiaco, non mangio pane.

Il mormorio divenne protesta e poi baccano indemoniato.

– Io sono respiriano, tutta questa gente mi leva il cibo di bocca.

Cristophere rimpianse il posto come lavapiatti.

– E la tracciabilità degli ingredienti?

– Io mangio solo bio a chilometri zero?

– E che vuol dire?

– Non lo so, ma suonava bene.

– E’ vero, suoniamogliele per bene.

E niente, in un attimo centinaia e centinaia di persone, innervosite dalla fame e sballate dall’ecstacy e sobillate da Giuda caricarono il maestro e lo gonfiarono di botte.
La degenza per riprendersi dalle varie fratture fu lunga e dolorosa. Cristophere era stanco e sconsolato, ignorava perché il suo messaggio venisse costantemente frainteso. I suoi amici più stretti vedendolo ridotto come un povero diavolo, decisero di organizzare una cena in suo onore.

– Per quanti prenoto?- Chiese Matteo.
– Per dodici, Giuda non ce lo voglio.- Intervenne Luca.- Ogni volta che c’è lui in giro succede qualche casino.
– Già, sta sulle palle anche a me.- S’accodò Giovanni.- Niente Giuda, fosse l’ultima cena che organizziamo.

E così si ritrovarono intorno ad una lunga tavolata, a bere e mangiare e ridere e scherzare. Tutti tranne Giuda, di cui nessuno aveva messo in conto un passeggiata serale che lo conducesse lì per caso, ad imbattersi in loro rimanendoci di sale. Giudo vacillò, si resse alle mura in fango e guano della locanda. Tutti i suoi presunti amici intorno a quel bonazzo di Cristophere, che, già brillo a metà cena, sollevando una bruschetta al lardo di colonnata e un quartino di rosso si lanciò in uno dei suoi soliti sketch.

– Questa è la mia carne e questo è il mio sangue, prendete e mangiatene tutti, e fanculo i vegani.

La locanda venne scossa dalle risa degli avventori, tutti abbastanza ubriachi da trovare esilarante quella misera gag. Unanimità che escludeva Giuda, lesto a riprendere la scena con lo smartphone e correre a tradire il suo vecchio amore. I Nas fecero irruzione nella locanda e fermarono Cristophere con l’accusa di cannibalismo. Lo misero in croce tre giorni per farlo confessare, ma lui non spiccicò parola, certo che il continuo predicare amore e perdono avrebbe spinto i suoi seguaci a ribellarsi contro quella ennesima assurda ingiustizia.

Invece niente.
Nessuno protestò. Nessuno alzò la voce.
Nell’indifferenza più totale, i suoi amici e tutti i suoi seguaci ne approfittarono.
Chi concesse diverse interviste urlando alla telecamera che era sempre sembrato una brava persona.
Chi confessò di aver sempre nutrito dubbi su di lui, come fece Giuseppe.
Chi denunciò tocchi in fuorigioco sotto la doccia dopo il calcetto.
Chi addirittura raccontò di festini privati a base di carne umana e sangue di vergine.
Giuda intraprese perfino un commercio di souvenir dal dubbio gusto: corone di spine in plastica con led a 200w, statuette di Maria che piangeva sangue con un Cristophere neonato che le leccava via, medagliette con su inciso “sono sopravvissuto al cannibale di Nazonaccia”.
Un minimo di sollievo lo provò vedendo quei fiumi di persone in processione verso di lui, magari per confortarlo, per gridare all’ingiustizia. Quando si rese conto che si trattava dei soliti turisti della tragedia, accorsi a flagellarlo con i flash dei loro selfie, a pagare per strizzargli l’aceto in gola, alzò gli occhi al cielo e sospirò la celebre frase:
– Perdonami padre, era meglio se che mi facevo i cazzi miei.
Il cielo lampeggiò d’elettricità condensata, le nuvole si diradarono e una voce tuonò:
– E che vuol dire?
– Non lo so, ma ci stava bene.

365 giorni, Libroarbitrio

Ponyo sulla scogliera 崖の上のポニョ Hayao Miyazaki

Su questa nostra magica terra vive Bambino
che sente in un libro l’odore più buono del mondo
che ama stare con i suoi mostri
che cresce dalle difficoltà
senza importarsi di quale strade prenderà
né il fine che sceglierà
per arrivare a raggiungere la sua libertà
perché ha quella sua forza stravagante
che lo rende capace di mescolarsi
alle musiche e alle genti del mondo
e divenire Eroe
PUNTO E BASTA!

L.L.