365 giorni, Libroarbitrio

RID DEMENTIA, thriller psicologico di Lié Larousse, da oggi in tutte le librerie.

Per capire il silenzio di un uomo dovrai fargli inventare una favola,
di quelle con gli insetti che volano strisciando,
di quelle dove principesse indossano volti da mostri e i principi,
bè, loro, quelli restano tali.

Esce oggi in tutte le librerie l’attesissimo romanzo d’esordio della scrittrice e poetessa Lié Larousse, conosciuta nell’ambiente letterario per le sue poesie e per i racconti vincitori di numerosi premi letterari, con questo romanzo di stampo psicologico, Larousse affronta i temi delle ossessioni e del furto di identità in un’ambientazione gotica di metà ottocento rendendo la narrazione, con il suo originale stile, così attuale ai tempi odierni da ritrovarsi completamente coinvolti e travolti dalla storia.

Buona Lettura

Lié Larousse

#romanzo#riddementia#thrillerpsicologico

365 giorni, Libroarbitrio

Carmen Yáñez: poesie “per sistemare i conti con l’orrore con tutta la tenerezza della quale sono capace” per Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Qualche giorno fa sono riuscita finalmente a fare una passeggiata al mare: nulla di che, un caffè alla salsedine e l’azzurro a riempirmi gli occhi ed il cuore ingrigiti dall’asfalto. Il mare, come sempre, riesce a suscitare in me sensazioni e pensieri profondi, lampi di chiarezza assoluta, scene che passano veloci nella mente e le onde a fare da colonna sonora ad un film che non rivedrò più. Certi pensieri che nascono di fronte al mare sono leggeri come granelli di sabbia, e come questi fuggono via, trasportati dal vento, impercettibili, mentre con le mani proviamo, illusi, a trattenerli. Sono piccole epifanie, piccole illuminazioni che riescono a levigarci col tempo, come scogliere irlandesi, ma ce ne rendiamo davvero conto solo col passare dei giorni, o degli anni se serve. Nel frattempo, tutti questi granelli, trovano casa nel mondo e sul fondo del mare che, paziente, ce li restituisce dopo averli accuditi con dolcezza. 

Il mio “pensiero-granello” si era perso fra le pieghe frenetiche della settimana, solo adesso lo vedo poggiarsi dolcemente sulla scrivania, vicino alla penna e al romanzo di Luis Sepúlveda. Lo sfioro appena con la punta dell’indice, per paura che spaventato possa scapparsene di nuovo: non oppone resistenza, si lascia carezzare e così, ormai sicura, lo avvicino al mio orecchio per decifrarne la lingua. Ma certo! Carmen Yáñez!

Un filo rosso d’amore infinito collega l’articolo precedente a quello di oggi, nel quale non posso non parlare della poetessa e attivista Carmen Yáñez (1952), moglie di Luis Sepúlveda. La giovane Carmen, figlia di operai, finisce nel 1975 nelle luride mani della polizia politica di Pinochet, ingrandendo le fila desaparecidos. Riuscita a sfuggire all’inferno di Villa Grimaldi, è costretta a vivere in clandestinità abbandonando l’amato Cile, proprio come Lucho il quale, già esule, si era sposato nuovamente in Germania.  La loro storia, come dice in un’intervista la stessa poetessa, è stata costellata da tanti re-incontri, fino ad arrivare a quello finale che sancirà la loro rinnovata unione con la decisione di risposarsi e di vivere insieme nella resistenza e nel rifiuto di qualsiasi forma di rabbia o di odio, veleni potenti i cui segni si sono impressi sulla loro pelle.

Le prime poesie della Yáñez vengono pubblicate in Svezia, dove vive grazie alla protezione dell’ONU negli anni ’80, prima di trasferirsi nelle Asturie. Come afferma lei stessa “Niente di ciò che scrivo è senza il motore dei miei sentimenti” e dunque nei suoi versi troviamo la sua vita e tutto ciò che la riguarda: i paesaggi, le malinconie, i dolori, la condizione di migrante, la memoria, le battaglie civili, l’urgenza del verso e dell’essere ma anche quella fonte vivifica che è l’amore.

Il suo poetare crea atmosfere fiabesche imbevute di quotidiano, le immagini sono profonde e leggere al tempo stesso come leggiamo in questi potenti versi: “Ciascuno/ porta il proprio tempo/ tra le ciglia,/ un dolore accumulato/ tra le cornici dell’esistenza.”

I versi della poetessa cilena sono “impegnati” politicamente e umanamente, due parole che ai giorni nostri sembrano farsi la guerra ma che dovremmo, invece, cominciare ad usare insieme, armoniosamente, senza escludersi a vicenda. Tra i suoi versi, quelli d’amore si nutrono di immagini semplici, vere, di “silenzi” e di “parole che riempiono”, “del mondo” perché è in esso che dimora l’altro. Nella poesia “Amare”, leggiamo: “Amare la sera condivisa/ la pioggia sul tetto/ quando il cielo cade a pezzi/ di tristezza.”

Le parole sono scelte con cura e pesate con precisione, con esattezza, non cadono mai a caso sul foglio ma trovano il loro posto in una trama fitta di metafore e immagini che alludono contemporaneamente ad una dimensione più profonda, non sempre deducibile, ma che sono ostentatamente attaccate alla vita di tutti i giorni ed è per questo che possiamo riconoscerci in ogni verso, perché i temi, comunque, restano sempre universali anche se calati in contesti o riferimenti specifici.

Tra le tematiche che per forza di cose tornano più spesso nelle raccolte della Yáñez c’è quella del dramma della migrazione, dell’essere migrante con la speranza sempiterna di poter un giorno tornare a casa, di riconoscersi ancora, di ritrovare le strade note di un tempo, come nella poesia “Civico”: Cerco quella stessa strada/ quel civico. /L’insegna spenta, /la porta chiusa e dentro/ la polvere copre la mia perplessità. /Le ragnatele ordiscono il nostro sogno infranto/su un piano disprezzato.” La poetessa sente fin dentro alle ossa il dolore delle donne, degli uomini e dei bambini che ogni giorno rischiano la propria vita in barca o su strade tormentate per trovare un angolo di pace, per rivendicare il proprio diritto di esistere e realizzarsi, ed è con la scrittura che riesce a dargli voce, ma anche ad opporsi in modo sano alla violenza insensata dei nostri tempi.

L’ultimissima raccolta della poetessa cilena, “Senza ritorno”, riprende i temi di sempre, come la “cocciuta nostalgia” ma ad essi si aggiunge dolorosa e meravigliosa al tempo stesso, l’ultima poesia scritta per Lucho mentre era in vita. La voce della Yáñez è una voce universale, che sa raccontare e raccontarsi con una forza tale che quasi ferisce il lettore che alla fine, però, non può non sentirsi trasformato dopo un viaggio così profondo che lo porta, in definitiva, a coltivare la certezza luminosa che l’estate arriva sempre e che un mondo migliore è possibile.

Vi lascio con una sua poesia tratta dalla raccolta “La latitudine dei sogni”:

Ci sei;

i gerani, le azalee,

la raccolta dei frutti

dell’estate del tuo amore

mi dicono dolcemente il tuo nome.

Ci sei;

i tuoi passi,

la scala che scricchiola deliziosa,

il tuo silenzio rumoroso

lassù in soffitta.

I fantasmi che ti spiano

le parole che incontrano le tue parole,

il tuo desiderio,

storie che entrano nella tua luce.

La tua rabbia,

una tempesta che scema con la sera calma.

Così scrivi per i giusti, degli stolti;

così la tua voce corre sui cornicioni.

mi sei, mi esisti

ed è ora che devo

proteggerti lo sguardo.

È il tempo plurale

nostro,

il pretesto per parlare ancora d’amore.

È la sera sulla pelle

dorata di sole e anni.

È dolcezza che scorre ancora e non so

fino a quando nelle vene

di questo nostro piccolo mondo.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Oggi e domani gli autori Lié Larousse e Gianluca Pavia alla libreria FELTRINELLI LIBRI & MUSICA MARCONI – Roma

PROMO FIRMA COPIE FELTRINELLI MARCONI

Oggi pomeriggio dalle ore 16:00 alle ore 20:00 e domani pomeriggio (stesso orario) gli autori romani Lié Larousse e Gianluca Pavia saranno alla Feltrinelli Libri & Musica per firmare le copie dei loro libri: BLACKOUT (romanzo), SPIETATE SPERANZE (poesia), .Lié. (poesia).

Cogliete prima di tutto l’occasione per farvi un giro in libreria ed aggiornarvi sulle ultime uscite, e le novità che i due autori hanno in serbo.

#IOLEGGO

365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – La maledizione di famiglia – Luigi Giampetraglia

i_samma_ogonblick_var_hon_forvandlad_till_en_underskon_liten_alva

Nonna Titina diceva sempre che la nostra famiglia teneva la calamita per le disgrazie.
Era una cosa che ti metteva l’ansia addosso e ti toglieva la voglia di fare le cose, pure le più semplici.
E non potevi nemmeno darle torto!
Nonna Titina aveva seppellito già tre figli (fino a mò, come diceva sempre lei. E quando lo diceva, con quegli occhi velati dalla cataratta, faceva più paura di un film di Dario Argento).
In effetti i miei zii sono tutti morti in circostanze un po’ strambe.
Il primo a fare una brutta fine fu zio Nino, che si spezzò l’osso del collo mentre dava la caccia ai granchi fellone sugli scogli.
Poi toccò a zio Luca, lo sciupafemmine della famiglia, morto strozzato da uno gnocco.
Ultima, venne zia Rosa, che fece la morte più scema di tutti: finì sotto a un treruote nel tentativo di scansare un gatto nero che le stava attraversando la strada.
Ciro e Carmela sono gli unici sopravvissuti.
Carmela è mia madre e io penso che si sia salvata solo perché lei, a certe cose, semplicemente non ci credeva.
Zio Ciro, che viveva con noi perché era ancora giovane, era tutto il contrario di Mamma ed era sicurissimo che sarebbe stato il prossimo.
Zio Ciro si faceva gli esami tutti i mesi e ammosciava tutti quanti con questa storia della maledizione di famiglia. Mamma diceva sempre che si era preso una brutta fissazione e che se non si decideva a sentire uno psicologo c’era il rischio che lo dovessimo far chiudere.

A San Giovanni ci conoscono tutti. Anche se la nostra è una fama di riflesso.
Siamo l’emanazione naturale dell’unica celebrità di famiglia: la nonna.
Nonna Titina tiene una tabaccheria alla Croce al Lagno che è la più antica del quartiere.
E guai a chi gliela tocca! Dice sempre che la sua Tabaccheria ha resistito a tutto, al contrabbando, alle scommesse clandestine, alle tasse, al pizzo e pure al terremoto!
Per quelli di San Giovanni lei è semplicemente: ‘A Tabaccara.
Per associazione zio Ciro e la mamma sono ‘e figli d’ ‘a Tabaccara e io, mia sorella Katia e i nostri sei cugini siamo tutti, indistintamente, ‘e nepute d’ ‘a Tabaccara. Mamma dice che non ci sta niente da fare, che pure se mi laureo in ingegneria astronautica e vado sulla Luna, per la gente del quartiere rimarrò sempre ‘o nepote d’ ‘a Tabaccara.
Quando sono morti zio Nino e zio Luca l’hanno scritto pure sui manifesti funebri:
E’ mancato all’affetto dei suoi cari Nino Rea, di anni 19, detto ‘o figlio d’ ‘a Tabaccara.
Stessa sorte toccò, due anni dopo, a zio Luca.
Zia Rosa, per evitare di essere identificata per l’eternità con l’attività di famiglia, pare avesse dato esplicitate indicazioni a Tonino ‘O Stuorto, titolare dell’unica agenzia funebre del quartiere.
Con la spiacevole conseguenza che, quando fu il suo turno, davanti al suo manifesto funebre c’era sempre una crocchia di gente che si domandava chi cavolo fosse questa Rosa Rea.
E c’era sempre qualcun altro che rispondeva: “Comme? ‘A figlia d’ ‘a Tabaccara!”

Era già da un po’ di tempo che sospettavo ci fosse qualcosa di vero nelle farneticazioni di zio.
Una sera, mentre eravamo in camera mia, mi fissò attraverso quei suoi occhialoni spessi come vetrocemento e mi chiese:
“Ma tu cu ‘na fattura ‘nguollo, che faresti?”
Io allargai le braccia.
“Non lo so, andrei da un prete o… da un mago!”
“Come quelli della tivù?”
“Quelli sono degli imbroglioni”
“E da chi?”
Andai alla finestra e indicai il palazzo della banca dall’altra parte del Corso.
“Là abita una vecchia che toglie i malocchi, forse ti può aiutare!”
“E tu come ‘e saje ‘sti cose?”
“’O sanno tutti quanti zio Ci’!”

La signora Pace era una vecchietta artritica, con un grugno da pirata stitico e rughe tanto profonde da sembrare tracciate con una forchetta.
“Che ve serve?”
Zio Ciro mi diede un colpetto col gomito.
“Mio zio è convinto di avere una fattura addosso” spiegai.
La vecchia annuì facendo ciondolare i grandi orecchini da zingara aggrappati ai lobi come scimmiette, quindi versò dell’acqua in una ciotolina butterata di ruggine e la piazzò sulla testa di zio.
“State fermo!”
Zio Ciro assunse una posa da visita militare, petto in fuori, pancia in dentro, collo dritto.
“Vedete qualcosa?”
La vecchia fece ondeggiare l’acqua nella ciotola, poi la posò sul tavolo davanti a noi e indicò le bolle semitrasparenti che galleggiavano in superficie.
“Figlio mio, tu stai ‘nguaiato: guarda quante uocchje!”
Zio Ciro si passò una mano sulla fronte.
“Io ‘o ssapevo!” piagnucolò. “Ve prego: aiutateme!”
La signora Pace guardò zio Ciro come se lo vedesse per la prima volta.
“Ma voi nun site ‘o figlio ‘d ‘a Tabaccara?”
“E allora?”
“Allora ce sta poco ‘a fà”
Mi alzai e picchiai un pugno sul tavolo.
“Voi non ci state dicendo tutto!”
La vecchia sollevò un sopracciglio spoglio e si rigirò la dentiera in bocca.
“Ma comme: nun cunuscite ‘a storia?”

“Fu Alina a fare la fattura!”
“Chi?”
“’Na figlia d’ ‘a Madonna!”
Scossi la testa elemosinando chiarimenti.
“Un’orfana,” tradusse la signora Pace “che fu adottata dalla famiglia di tuo Nonno Peppe per tener fede a un voto. Alina e tuo Nonno crebbero insieme, come frato e sora. Solo che non erano fratello e sorella e succedette quello che non doveva succedere!”
“Cioè?”
“Se ‘nnamurarono! Donna Maria, che era la tua bisnonna, se ne accurgette, ma facette finta ‘e niente perché nun vuleva fa parla’ ‘a ggente. Poi, furbescamente, prese una ragazza a servizio, ‘na bella guagliona, della stessa età di Peppe, che si chiamava Titina”
“Nonna Titina?”
La signora Pace annuì ancora.
“Titina era ‘na figlia ‘e ‘ntrocchia e nun se puteva permettere ‘e perdere ‘o treno. Alla fine, con l’aiuto della futura suocera, riuscì a far perdere la testa a Peppe. Alina si sentì tradita da tutti, era giovane e fragile e, alla fine, si buttò dal terzo piano, con la foto del suo amore stretta in petto!”
Zio Ciro si fece il segno della croce.
“Da questo punto ’a storia se complica: qualcuno dice che Alina aveva scritto una maledizione dietro la foto, ‘na fattura contro Titina e i figli che avrebbe avuto da Peppe, altri invece che la fattura la disse a voce, poco prima di morire”
“E questa foto che fine ha fatto?”
“Fa parte d’ ‘o mistero: nisciuno ‘o sape!”
“Ma ‘sta fattura non si può togliere?”
La vecchia sospirò liberando un olezzo di cipolla fritta.
“Le fatture fatte in punto di morte songo ‘e cchiù ‘mpicciose, però…”
Io e zio Ciro allungammo il collo come tacchini curiosi.
“… Se Titina chiedesse scusa ad Alina…”

Se avesse dovuto, che ne so, bere un infuso di sangue di drago o rubare un uovo d’oro a un gigante, sono quasi certo che zio Ciro non si sarebbe dato per vinto… ma quello era troppo!
A memoria d’uomo nessuno ricordava di aver visto la nonna scusarsi con qualcuno.
Nonna Titina era una di quelle persone a cui non importava se l’altro avesse o meno ragione… era l’altro e, quindi, aveva torto!
Non so come mi venne in mente.
Fatto sta che, prima che potessi pentirmene, cedetti all’entusiasmo incosciente dell’età e proclamai:
“Zio Ci’ non ti preoccupare: ci parlo io con la nonna!”

Nonna Titina era un mezzo busto di cartapesta ammuffito, incastrato tra l’espositore di caramelle e il minibar della Pepsi.
Quando entrai nella Tabaccheria mi scrutò con sdegno, come se la infastidissi già a sufficienza con la mia presenza.
“Che ce fai ccà?”
“Nonna dobbiamo parlare!”
“Veramente?” fece lei appoggiando gli avambracci flaccidi sul bancone. “E di che cosa?”
“Di Alina”
Calò un silenzio teso.
Ebbi la fugace visione di un bambino identico a me che scappava dalla Tabaccheria come un piccolo ladro.
“Siamo stati dalla signora Pace,” dissi tutto d’un fiato “e lei ci ha raccontato tutta la storia”
La nonna sospirò. Quando era agitata trasudava una nota acuta di sigari all’anice che quasi azzerava i bassi persistenti di ascelle sudate.
“Parla, parla” disse sparendo sotto al bancone.
“La signora Pace dice che per togliere la fattura dovresti scusarti con Alina. Mamma dice che è dei nostri peccati che ci dovremmo vergognare e non di chiedere scusa per essi…”
Rise. Una risata da strega delle fiabe, strafottente e maligna.
“Non c’è nessuna fattura!” disse riemergendo e allungandomi una scatola di sigari impolverata.
Un istante dopo nell’aria vibrò la voce di mia madre che mi chiamava sulla frequenza a ultrasuoni del rione.
“Gigginooo…”

Dopo cena mi chiusi in camera e aprii la scatola. Dentro c’era un foto di Nonno Peppe.
Lo riconobbi perché nel salone Mamma ne teneva una identica.
Solo che questa aveva una costellazione di goccioline brune che emergevano dalla superficie.
Sangue, pensai.
Quella era la foto, quella di cui ci aveva parlato la signora Pace e che Alina stringeva a sé quando si era uccisa.
Mi spostai vicino alla finestra, la voltai e cominciai a leggere.

Alina sei il mio unico amore, Titina è solo la donna che sono costretto a sposare, per mettere a tacere le chiacchiere della gente. Non provo niente per lei. Il mio amore è solo per te e sarà per sempre così. Ti amo
Peppe

Dunque è così che stavano le cose. Ma perché la Nonna aveva voluto che leggessi quella lettera?

“Non servirà a niente. La signora Pace ha detto che deve essere mamma a chiedere scusa ad Alina!”
Probabilmente zio Ciro aveva ragione, ma non mi andava di alimentare il suo pessimismo.
“Mamma dice che una buona azione non è mai sprecata!”
“Mammeta dice nu sacco ‘e cose” si lagnò Zio Ciro varcando per primo la soglia del cimitero.

La tomba di Alina era spoglia e senza fiori. C’era solo un cero rosso, solitario e scolorito.
Zio Ciro si chinò sulla lapide e adagiò il crisantemo proprio sotto la cornice ottonata della foto.
Nel ritratto Alina aveva lineamenti regolari e occhi di un azzurro così intenso da sembrare dipinti.
“Da giovane doveva essere veramente bella!” dissi.
Zio Ciro mi diede un pizzicotto affettuoso su una guancia.
“Mò però lasciaci soli!”
Era giusto così, avevano tanto di cui parlare.
Mi allontanai e mi riparai all’ombra di un salice dai rami ritorti. Mi appoggiai contro il tronco, chiusi gli occhi e annusai l’aria.
C’era un piacevole odore di gelsomino, di erba bagnata e… di sigari all’anice e ascelle sudate.
“Nonna! Che ci fai qua?”
“Chhiù luntano fuje dai peccati e cchiù sarrai stanco quando te acchiapperanno. E io so’ stanca Gigì, stanca assai”
Non c’era bisogno di aggiungere altro, la abbracciai come non avevo mai fatto prima, lei mi diede qualche buffetto sulla testa e poi raggiunse zio Ciro sulla tomba di Alina.

Nonna ha lasciato la gestione della Tabaccheria a zio Ciro. Adesso, passiamo molto più tempo insieme. Tutte le domeniche andiamo a trovare Alina al cimitero. Prima però passiamo da zio Nino, zio Luca, zia Rosa e il Nonno.
Teniamo mezza famiglia in quel cimitero e Mamma dice che pe’ mò basta.
La storia della maledizione forse era vera e forse no… Ma ormai importa poco. Ci siamo liberati da un peso, questo conta.
E adesso possiamo finalmente provare ad essere una famiglia normale.

 

Racconto “La maledizione di famiglia”  scritto da Luigi Giampetraglia
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I lunedì di LuccAutori”

****
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi,
in tutte le librerie a distribuzione nazionale
oppure on line al link di seguito:
http://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/racconti-nella-rete-2016

autori-vari-nottetempo-duediripicca

 

365 giorni, Libroarbitrio

Jerome David Salinger “Il giovane Holden” (parte prima)

Roma 9 novembre 2013

J.D. Salinger

Nato a New York nel 1919, Salinger cominciò a scrivere i primi racconti  a quindici anni.

Studiò prima al Collegio militare della Pennsylvania, poi all’università di New York.

Durante la seconda guerra mondiale venne arruolato come sergente di fanteria e mandato in Europa.

Raggiunse il successo come scrittore nel 1951, con la pubblicazione del romanzo Il giovane Holden, storia di un ragazzo “ribelle” nei confronti della società.

Il romanzo si impose all’attenzione dei critici anche per le originali scelte linguistiche, modellate sul parlato, ricche di espressioni gergali, giovanili, discorsive.

La scelta di contestazione della società attraverso la narrazione, in prima persona, di adolescenti “non integrati”, venne ripresa con successo anche nei Nove racconti, pubblicati nel 1953.

Negli anni sessanta, l’accostamento dello scrittore alle filosofie orientali influenzò la sua produzione narrativa, maggiormente rivolta a contenuti meditativi e simbolici.

Appartengono a questo periodo i romanzi Franny e Zooey, Alzate l’architrave, carpentieri, Hapworth, 16.

Dal 1965 Salinger ha cessato l’attività di narratore, chiudendosi in un volontario silenzio.

 

A domani

Lié Larousse

 

365 giorni, Libroarbitrio

Luigi Malerba e il racconto sperimentale

Roma 1 novembre 2013

Luigi Malerba

Luigi Malerba è nato a Berceto, in provincia di Parma, nel 1927.

Scrittore sperimentale, ha fatto parte del “Gruppo 63”, un’associazione che negli anni sessanta  riunì gli scrittori accomunati dalla volontà di rinnovare la tradizione letteraria italiana, trasformandone radicalmente la poetica e il linguaggio.

E’ autore anche di testi teatrali, sceneggiature cinematografiche e televisive, e testi per bambini.

La poetica sperimentale, cui Malerba  si rifà, parte dal presupposto che le regole del narrare, le strutture del racconto, siano ormai diventate troppo strette e vincolanti, insufficienti per cogliere gli aspetti della realtà  contemporanea, multiforme e in frenetica trasformazione.

L’autore deve essere libero di usare in modo nuovo gli strumenti tradizionali, deve “aprire” la propria opera permettendo al lettore di penetrarne i meccanismi, di interpretare automaticamente la realtà rappresentata.

E della realtà Malerba mette in luce soprattutto  gli aspetti più grotteschi, i lati assurdi, attraverso uno stile che utilizza in modo assolutamente libero gli schemi narrativi, creando effetti di sorpresa e di imprevedibilità.

Tra le maggiori opere Testa d’argento : uno scrittore racconta per sommi capi ai lettori una storia che vorrebbe raccontare. Ha già scritto l’inizio, ha progettato lo svolgimento, ha prefigurato i personaggi, addirittura ha già deciso chi la racconterà  e come, ma manca un elemento fondamentale, così fondamentale che darà un milione  a chi potrà fornirgli un’idea. Senza questa, l’editore e il produttore cinematografico  che gli hanno proposto la pubblicazione  del testo e la realizzazione  di un film sullo stesso soggetto non concluderanno l’accordo.
In questo racconto vengono svelati i meccanismi della narrazione, le difficoltà creative, gli intoppi. L’arte del narrare e l’artista  diventano oggetto di un discorso comune, svolto in un linguaggio sciolto e informale, che li spoglia delle loro tradizionali caratteristiche. Lo scrittore diventa una figura quotidiana e i suoi strumenti, finora coperti dal segreto, dal mistero  della creazione, vengono disposti ben visibili sul banco di lavoro.
Dal contrasto tra ciò che ci si aspetta da un racconto  e ciò che questo racconto  di fatto fornisce nasce l’ironia che l’autore esercita su se  stesso, sul proprio lavoro, e infine sui lettori stupefatti.

” In fondo a un prato, davanti un muro di mattoni, un uomo pallido è legato a una sedia da cucina. Ha gli occhi bendati e le mani dietro la schiena. Potrebbe essere un alba invernale, ma non è proprio necessario che sia inverno. Improvvisamente risuona nell’aria una scarica di fucili e l’uomo ha un sussulto, poi ripiega la testa sul petto, fulminato. Sei uomini vestiti di panni borghesi si allontanano con i loro fucili sul viale umido, raggiungono un furgoncino a motore che parte subito scomparendo nelle brume. Non fanno commenti, ma dentro di sé ognuno di loro spera che il fucile caricato a salve fosse il suo”.

 

A domani

Lié Larousse

365 giorni, Libroarbitrio

Honorè de Balzac capostipite del romanzo “sociale”

San Rocco 19 agosto 2013

Honorè de Balzac scrittore

Nato a Tours, in Francia, nel 1799, proveniente da una famiglia borghese, Honorè studiò giurisprudenza e iniziò a lavorare presso uno studio notarile.

A vent’anni cominciò la carriera di scrittore, ma le sue prime opere, una tragedia e un romanzo, ebbero scarso successo.

Dopo dieci anni di difficoltà economiche, durante i quali si assicurò la sopravvivenza lavorando come giornalista e tipografo, e pubblicando modeste opere narrative, nel 1829 il romanzo storico Gli Sciuani ebbe successo e gli permise di dedicarsi definitivamente all’attività di romanziere.

Fu scrittore molto prolifico.

Dal 1829 al 1834 scrisse numerosi romanzi, tra cui Il medico di campagna, Eugenia Grandet e Papà Goriot, testi nei quali è costante l’interesse per la condizione degli uomini nella società.

Fu così che ebbe l’idea di riunire i suoi romanzi in un’unica opera, la Commedia Umana, nella quale ogni storia aveva una sua autonomia e completezza ma alcuni personaggi erano ricorrenti.

L’unità era assicurata dal senso dell’opera: uno straordinario quadro della società contemporanea in bilico tra l’ “antico regime” e il capitalismo borghese; una acutissima rappresentazione del costume e delle contraddizioni della realtà, per la quale Balzac è considerato il capostipite del romanzo “sociale”.

In questi stessi anni lo scrittore iniziò una relazione amorosa con la contessa polacca Eva Hanska, che sposò solo nel 1850, dopo anni difficili anche per alcuni dissesti economici che dissiparono il suo patrimonio di romanziere di successo.

Negli ultimi anni di vita, Balzac ridusse il ritmo della sua produzione letteraria e non riuscì più a raggiungere il livello qualitativo delle opere maggiori.

Morì a Parigi lo stesso anno delle nozze.

A domani

LL

365 giorni, Libroarbitrio

Giovanni Verga : la narrativa verista

Roma 13 agosto 2013

Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840.

Dopo aver frequentato  la scuola di don Antonio Abate, un fervente patriota, entrò nel corpo della Guardia Nazionale istituito dopo l’arrivo di Garibaldi in Sicilia  e fondò varie riviste politiche e letterarie.

A venticinque anni volle uscire dal chiuso ambiente della provincia catanese e si trasferì prima a Firenze e poi a Milano.

Qui entrò in contatto con intellettuali e nobildonne e rappresentò questo ambiente  in numerose opere narrative e teatrali.

Dal 1874 in poi Verga abbandonò le figure di artisti infelici e donne dell’alta società che popolavano i suoi primi romanzi per volgere la sua attenzione verso personaggi più umili.

La realtà della Sicilia contadina di fine Ottocento divenne quindi protagonista delle sue opere.

Vi rappresentò  l’umile gente del popolo, contadini, braccianti, minatori, carrettieri, pescatori, rivelando l’abbrutimento della lotta per la sopravvivenza che li chiude in un destino disperato e senza scampo.

Emerge da queste opere una visione profondamente pessimistica della vita, dominata dalla consapevolezza che la natura, la società e la storia sono governate da leggi  ingiuste  e immutabili che schiacciano impietosamente  i deboli e li relegano al ruolo di “vinti”.

Al cambiamento  dei temi  corrisponde  un cambiamento  del modello narrativo: la figura del narratore  scompare per lasciar spazio  a una rappresentazione assolutamente oggettiva.

I personaggi si raccontano da soli, parlano direttamente attraverso una prosa asciutta, ricca di espressioni  dialettali con frequente uso del discorso indiretto libero, cioè riportato senza virgolette e senza venire introdotto da verbi come “dire” e “pensare”.

Lo scopo  del Verga era quello di prestare il possibile aderente al reale, che doveva emergere  dalla pagina con forza autonoma.

La narrativa del Verga fu assunta a modello di tutto un movimento letterario al quale fu assegnato il nome di Verismo che diede un contributo fondamentale alla fondazione della tradizione narrativa realistica italiana.

Dal 1893  in poi l’autore  ritornò per periodi sempre  più lunghi  a Catania fino a soggiornarvi definitivamente.

Gran successo ebbero le opere: Storia di una capinera, Eros, I malavoglia, Mastro don Gesualdo, Novelle rusticane.

Morì nel 1922.

A domani

LL

 

365 giorni, Libroarbitrio

Il Lied

Roma 6 luglio 2013

Il Lied

Con questo termine si intende un’espressione poetico-musicale tedesca, di carattere lirico o narrativo, che corrisponde all’inglese “Song” , al francese “Chanson” e all’italiano “canzone” o “romanza”.

Durante il Romanticismo, la vasta produzione di lieder ( più di un migliaio ) da parte del musicista austriaco Franz Schubert diede inizio a una lunga sequenza di compositori, che per tutto l’Ottocento si espressero con questo genere musicale.

Caratterizzato da temi intimistici ed equilibrate scelte formali, il lied fu apprezzato da Beethoven, Schuman, Liszt, Brahms, Wagner e tanti altri.

Da tutti questi compositori furono usati come testi le liriche di grandi poeti tedeschi quali Goethe, Schiller, Heine e i canti popolari raccolti da Brentano  e Von Arnim.

In particolare Schumann trasse dal secondo ciclo del Libro dei canti di Heine uno dei suoi più mirabili cicli di lieder, intitolato Dichterliebe e pubblicato nel 1844.

A domani

LL