365 giorni, Libroarbitrio

La città sulla riva delle nuvole – Giancarlo Ascari

novembre Pisa-Lucca 2015

Nella grande e antica città di Smeralda viveva un astrologo di nome Alcabizio.
Tale era la sua fama della sua bravura che re, mercanti e mendicanti
facevano la coda fuori dalla sua casa per consultarlo. Ma
non tutti i re e i mercanti ricevevano la stessa attenzione
che l’astrologo destinava ai mendicanti.
Nel silenzio della notte Alcabizio
scrutava il cielo e le stelle
per scoprirne i segreti.
Intanto di là del mare una ragazza lavorava in un supermarket.
Un taxista aspettava i clienti pensando alla prossima rata del mutuo da pagare.
Ragazzi guardavano un film di paura mangiando popcorn.
Due innamorati si baciavano al parco, masticando lo stesso chewing gum rosa.
Poliziotti vigilavano sul mondo, dopo aver bevuto un caffè lungo.
Quando la notte si faceva fonda e buia,
una fredda coperta di smog si posava sulla città silenziosa,
attraversata solo da gatti neri come la pece.
Poco prima dell’alba Alcabizio consultava gli astri delle torri di Smeralda.
E intanto cercava di capire da dove arrivasse quell’odore aspro e forte.
Di supermarket,
di taxi,
di mutuo da pagare,
di popcorn,
di chewing gum rosa,
di caffè,
di smog,
di gatti,
di pece,
che il mare portava di notte.

365 giorni, Libroarbitrio

“Compagno di letture” Haruki Murakami a Raymond Carver

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Haruki Ray e Tess

Dissi a Ray: ” A volte percepisco i tuoi racconti  come fossero delle poesie e le tue poesie, a volte, come dei racconti”. Era così compiaciuto dell’osservazione che balzò in piedi e chiamò Tess: “Ehi, Tess, senti questa. Sai che ha detto?” E le ripeté le mie parole.
Ray scrisse una poesia intitolata “Il proiettile”, ispirata dalle impressioni del suo incontro con me. E questa poesia, per quanto mi sia difficile crederlo, è dedicata a me. Naturalmente è diventata una delle mie preferite. Ogni volta che la leggo, sono pervaso da un’ondata di affetto. Quando leggo i versi di Ray, certe volte sento l’ispirazione a cimentarmi anch’io nella poesia. Sebbene non abbia mai scritto una poesia, quando leggo le sue ho subito la sensazione che potrei scriverne anch’io.
Penso che sia meraviglioso.

“Il Proiettile”

Sorseggiavamo il tè. Scambiandoci educate
congetture su come mai i miei libri
avessero tanto successo nel tuo paese. Non so come,
ci mettemmo a parlare del dolore e delle umiliazioni
che, secondo te, ricorrono spesso
nei miei racconti. E quell’elemento
di pura casualità. E di come tutto ciò si traduce
in termini di vendite.
Ho fissato un angolo della stanza.
E per un attimo ho avuto di nuovo sedici anni,
quando in cinque o sei scemotti ce ne andavamo in giro
sbandando nella neve in una Dodge del ‘50.
Mandavamo a farsi fottere altri scemotti
che urlando bersagliavano la nostra macchina
con palle di neve, ghiaia, rami
secchi. Noi sgommavamo via, berciando.
E sarebbe finita lì.
Se non che il mio finestrino era abbassato di tre dita.
Solo tre dita. Ho scagliato il mio ultimo
insulto e ho visto uno di quei tizi
prendere lo slancio per tirare una cosa. Da dove mi trovo ora
immagino di vederla arrivare. La vedo
accelerare in aria mentre guardo,
come quei soldati che all’inizio
del secolo scorso vedevano volare
verso di loro le granate
mentre se ne stavano lì paralizzati
dal tremendo fascino del terrore.
In realtà mica l’ho vista avevo già girato
la testa per ridere insieme ai miei compagni.
Quando quella cosa mi ha colpito alla tempia
così forte che mi ha sfondato un timpano e poi
mi è caduta in grembo, intatta. Una palla di ghiaccio
e neve compressi. Il dolore fu stupefacente.
Per non parlare dell’umiliazione.
La cosa peggiore fu che mi misi a piangere
davanti a quei duri mentre gridavano:
Che botta di culo ! Che caso strano !
Una possibilità su un milione !

Il tizio che l’aveva tirata, anche lui deve essere rimasto sorpreso
e fiero di sé mentre si sentiva acclamato
con urla e pacche dai suoi compagni.
Deve essersi asciugato le mani sui pantaloni.
E poi avrà combinato qualche altro casino
prima di tornare a casa per cena. Poi sarà cresciuto,
avrà avuto la sua parte di difficoltà e si sarà perso
nella vita proprio come io mi sono perso nella mia.
A quel pomeriggio non avrà mai più
pensato. E perché mai avrebbe dovuto?
Ci sono sempre tante altre cose a cui pensare.
Perché ricordarsi di quella stupida macchina
che slittando in discesa girò l’angolo
e sparì per sempre ?
Educatamente alziamo le nostre tazze di tè nella stanza.
La stanza in cui per un attimo è entrata un’altra cosa.

Raymond Carver

365 giorni, Libroarbitrio

Moderno o Classico?

Roma 6 marzo 2013

Tassoni e la critica antipetrarchistica

In Italia a partire dal secolo XVI iniziano a svilupparsi movimenti letterari con la questione aperta sulla validità di un proseguimento letterario basato sulla modernità o sulla classicità. Dopo le esperienze letterarie di Bembo e Castiglione, nel 1542 Speroni pubblica il  Dialogo delle lingue, in cui esalta la forza della lingua volgare rispetto al latino, a seguire nel 1620  Alessandro Tassoni scrive il  Paragone degli ingegni antichi e moderni, una minuziosa opera di indagine comparativa in ogni campo dell’arte  e del sapere. Tuttavia il Tassoni si dedicherà alla revisione del culto rinascimentale del Petrarca.

Le tassoniane  Considerazioni del Petrarca sono non solo un commento al Canzoniere  e ai Trionfi ma un’opera anch’essa di a spiegare le novità del suo atteggiamento polemico verso il poeta trecentesco con la singolarità delle circostanze che il suo lavoro hanno accompagnato.

Le Considerazioni sono una netta presa di posizione per un ridimensionamento della poesia del passato, un esercizio critico ma insieme una polemica di gusto. Non è un’interpretazione a posteriori, nata dagli elogi degli innovatori, per primo il Marino, che utilizzano la critica tassoniana per la loro battaglia in favore della poesia nuova; è interpretazione presente nel Tassoni stesso, anzi subito esibita nella prefazione : egli nel condurre spregiudicatamente la sua critica ai difetti del Poeta di Laura, vuole combattere

una stitichezza, per così dire, d’una mano do 

zucche secche e che non voglion che sia lecito dir

cosa non detta da lui, né diversamente da quello

ch’egli disse, né che pur fra tante sue rime,

alcuna ve n’abbia che si possa dir meglio. Come

se gli umani ingegni, in cambio di andar

perfezionando e loro stessi e le cose trovate, ogni

di più si annebbiassero e fosse da seguitare la

sacciutezza di certi barbassori che, auggiando gli

usi moderni, vestono tuttavia colle berrette a taglia

e le falde del saio fino al ginocchio.

A domani

LL