365 giorni, Libroarbitrio

.come ora. – Lié Larousse

Lié - Horlogerie ancienne

.sola come ora
ricordo una pioggia nera
e d’essermi perduta
mentre la notte
ancora vigilava
sul sonno dolce
dell’alba.

Lié horlogerie ancienne 3

Ringrazio tutto lo staff dell’ultimo set: il fotografo Gabriele Ferramola, l’Atelier Horlogerie Ancienne di Lucca, Omai haute couture, Rafael D’Andrè & Waterman, il mio editore Miraggi Edizioni, lo scrittore e poeta Gianluca Pavia.

 

Vi invito tutti cari lettori
alla presentazione di BLACKOUT
romanzo di Gianluca Pavia, edito da NED Edizioni,
che si terrà martedì 7 agosto alle ore 21:30
per Letture d’Estate
presso i giardini di Castel Sant’Angelo a Roma.

 

 

365 giorni, Libroarbitrio

VERSILIA LIBRI – POKER D’INCUBI – intervista a Lié Larousse e Gianluca Pavia – DuediRipicca

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VERSILIA LIBRI – Sabato 18 marzo alle ore 12 su Radio Versilia fm 103.5 va in onda la rubrica “Versilia Libri” a cura di Demetrio Brandi. Ospiti DuediRipicca con “Poker d’incubi” (Alter Ego Edizioni). In replica mercoledì alle 12. Il programma si può ascoltare in diretta streaming suwww.tgregione.it .

Tempo da lupi, si direbbe, e da mostri − tutti troppo umani. Fremiti, brividi, respiri che si spezzano. I personaggi di questa raccolta − un inconsueto prosimetro contemporaneo − hanno paura o fanno paura. Qualcuno potrebbe tirare fuori la parola noir, ma forse a sproposito − perché se c’è qualcosa di nero in questi (guarda caso) 17 poesie più 17 testi perturbanti, è il nero che è già nelle cose. Gli autori lo fanno risaltare giocando con l’idea di incubo, ma si tratta in molti casi di incubi fatti da svegli. Dalla prefazione di Paolo Di Paolo

DuediRipicca sono Gianluca Pavia e Lié Larousse, autori di racconti, romanzi e poesie, a due e a quattro mani. Vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” e di altri importanti titoli singolarmente, creano la prima mostra itinerante di poesia su tela; collaborano con riviste letterarie, pittori, musicisti, e registi. A livello nazionale promuovono e organizzano eventi artistici culturali.
Attualmente in tour per la promozione di POKER D’INCUBI

Per richiedere il reading INCUBI LIVE nella vostra città scrivete a: duediripicca@yahoo.com

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lo trovate anche sugli scaffali nelle migliori librerie, e al bancone, dei peggiori bar.

DuediRipicca
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I Lunedì di LuccAutori – La Terza classe – Daniele Miglietti

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Dacché erano partiti dal porto di Napoli, la prora, rivolta ad Ovest, s’era più volte imbattuta nell’appassionato e tragico dramma del sole che naufraga, siderale, nello specchio dell’acqua.
C’era chi sosteneva che s’era già sull’oceano, chi invece affermava che ad affacciarsi dalla poppa e ad avere occhi abbastanza buoni si sarebbe potuta scorgere ancora la costa Italiana.
Alle domande il personale di bordo scuoteva seccatamente il capo, lasciando intendere che, in mare aperto, un passeggero di terza classe godeva degli stessi diritti che vantava sulla terraferma, se non di non meno. Forse se avessero avuto del denaro avrebbero potuto comprare quell’informazione. Ma, in fondo, a cosa sarebbe servito? Non era forse questo il motivo per cui si erano imbarcati? Si diceva che lì, dov’erano diretti, anche quelli come loro si sarebbero lasciati alle spalle la miseria, l’ignoranza e la malattia: quei fantasmi che a casa li stavano divorando.
L’unica cosa di cui s’era certi era quello sciamare incessante d’anime tra le centinaia di sporche cuccette del piroscafo Ermanno, stipati così com’erano l’uno contro l’altro appena sul filo dell’acqua. E in mezzo a quella distesa di disperati che ficcanasavano qua e là, tossivano, o che, semplicemente, iniziavano a impazzire, le teste contro le paratie, c’erano quell’uomo e quel bambino. Loro due, che, appena un mese prima, se gli aveste chiesto di portarvi al mare, vi avrebbero accompagnato al torrente dietro la loro spelonca, allo stesso rivolo dal quale attingeva loro madre per dissetare i propri figli, le sue due vacche cieche, e quella vecchia gallina che avrebbero presto mangiato perché troppo vecchia per covare. Ma la mamma era stata trovata in fondo ad un burrone, un cestino di strame intrecciato colmo di vavusi ancora stretto in pungo, e le vacche erano state vendute sulla piazza per pagare la traversata.

– Raccontami ancora di mamma, di quando non ero nato,ripeteva Giacomino.

–Riposa ora, – rispondeva risoluto Riccardo

Dalla cuccetta sottostante si udiva la lotta sfrenata dei bastoni e delle spade, e il grande tintinnare di coppe colme d’oro. Erano i lucani che giocavano a carte.
Riccardo si sporse dalla cuccetta: – Per favore, u criaturu dorme. Tena ‘a freve.

– Biat a ta figlj. E chi dorm’ cu stu mar’ aggitat’? – gli fecero coro loro.

Riccardo, per l’ennesima volta, dacché erano partiti, ripeté: – Non è mio figlio, è fratima.
Giacomino e Riccardo erano rispettivamente l’ultimo e il primo dei fratelli, in quella giovane Italia del 1899 nel quale la mortalità media stava a sei anni e mezzo.
Giacomino si trovava alla sua ottava primavera e, seppur già da tempo la vita lo avesse edotto alla crudeltà della sopravvivenza, erano ancora visibili nei suoi piccoli occhi neri quel moto di vitalità che contraddistingueva i suoi coetanei; scintillio destinato a scemare col tempo e a scomparire lungo le guance, come lacrime tamponate. A dividere Riccardo e Giacomino vi era una lunga serie di fratelli, nati lungo l’arco di diciassette anni, tutti morti al nascere o comunque ancora bambini. Ma la morte di un bambino, nella Calabria rurale del tempo, era cosa assai meno grave della morte di una capra. Una capra dava latte, un bambino grattacapi.

– E Gesù Bambino… C’è anche all’America ‘u bumminiellu? – domandò Giacomino.

– C’è anche all’America – fece il fratello.

– Sai, gli ho regalato ‘u strummolo…

– A chi hai regalato ‘u strummolo, Giacomi’?

– Al bambin Gesù, quando eravamo al porto… – Giacomino delirava.

– Ma che dici, Giacomi’? ‘U strummolo è qua – Riccardo si cavò dalla tasca della giacca la trottola e la mostrò al fratello – Lo vedi? L’ho io!

Giacomino non rispose, aveva gli occhi chiusi. S’era addormentato.

Riccardo toccò la fronte del fratello. Era umida e calda come il coperchio della cassarola di loro madre, quando con uno straccio lo sollevava e con una forchetta infilzava una patata per controllare se era cotta.

– Piove fuori?

– E che ne sappiamo noi? – risposero i lucani. – Guarda dall’oblò.

Riccardo pigiò il suo naso abbronzato contro il vetro, ma sebbene la luna fosse piena, era impossibile capirlo. Di lampi non ce n’erano. Tese l’orecchio, ma in mezzo al baccano dei passeggeri, al ronzare dei motori, e allo sciabordio delle acque era impossibile sentire se fuori ci fossero tuoni, la sua più grande paura. Ogni tanto il fragore di un’onda che si scagliava contro lo scafo lo faceva sobbalzare.
Riccardo cavò dalla tasca dei calzoni il sigaro e il suo pensiero ritornò al Porto di Napoli, dove li avevano fatti aspettare per cinque giorni prima dell’imbarco. Li avevano lasciati lì, affamati, a dormire all’addiaccio ghiacciato e ad ustionarsi al sole. La pietà dei Napoletani li aveva sorretti. Uomini che, vedendo quella distesa fatta di scheletri umani e valigie di cartone, di tanto in tanto giungevano con pezzi di pane, incitandoli a dividerseli da buoni cristiani. Ma quel pane finiva sempre nelle mani dei più forti, e poco rimaneva alle donne, ai giovani e ai bambini come Riccardo e Giacomino. Poi, finalmente, giunse il giorno in cui era stata issata la passerella di terza classe, tra il molo e il piroscafo. I due fratelli si erano pazientemente messi in fila, ad attendere il fatidico passo. Allora Riccardo si era sentito strattonato per la collottola, ed era pronto a ricevere qualche legnata, come già era successo le poche volte che aveva osato farsi valere per un pezzo di quel fatidico cibo. – Non ho niente! – s’era subito difeso. Ma giratosi, stagliato contro di lui, aveva trovato un uomo dai baffi folti e ben curati, finemente arricciati come zampe d’insetto. In mano stringeva un bastone di canna, e le sue scarpe erano protette da un paio di ghette candide. Sul capo sfoggiava un lucido cappello al cui confronto la coppola di Riccardo pareva un cencio gettato lì per caso. I due si erano brevemente guardati negli occhi; lo sguardo di Riccardo era basso e stanco. – Tieni, – aveva detto l’uomo a Riccardo mettendogli qualcosa in mano. – Per il viaggio. Ne troverai degli altri uguali in America. Viene da Cuba, – Riccardo aveva osservato il grosso sigaro nel palmo della sua mano con aria interrogativa. – Già. Tieni anche questi, – aveva allora fatto il signorotto, mettendogli in mano una scatola di fiammiferi – Be’, buon viaggio allora. E buona fortuna, amico mio! – Riccardo non gli aveva risposto.

Ora quel sigaro, donatogli da quel gentiluomo, appariva al suo naso e al suo tatto così accattivante e profumato che un bisogno irresistibile lo aveva assalito. Era il desiderio del benessere, il bisogno universale, umano e brutale della normalità; era la voglia di sottrarsi a quel budello angusto di dialetti che lo circondava, al mormorio incessante dei motori che lo spazientiva, alla congerie di aliti afflitti e pesanti di attese appena sussurrate che impregnava quel dormitorio galleggiante.

Riccardo decise così di salire sopraccoperta, poiché, se avesse acceso il sigaro lì, il suo odore avrebbe certamente destato l’attenzione di qualche manigoldo pronto a sottrarglielo. Fu così che abbandonò la cuccetta e il piccolo Giacomino, ormai profondamente addormentato.

Né vento né onde aggredivano ora la carena dell’Ermanno, e il ponte principale era livido, imbevuto com’era della luce della luna. I banchi di denso vapore che esalava il fumaiolo, in alto, appena a tergo del ponte di comando, si mescolavano come spiaggia alle nubi. L’odore del mare impregnava piacevolmente i legni, i metalli, e le carni.
Subito immersi i capelli caprini nel gelo della notte, Riccardo udì provenire da babordo un urlo belluino: – Fije mi! Fije mi’! –. Due marinai circondavano una donna in lacrime, inginocchiata di fronte a quello che a Riccardo sembrò un piccolo fardello avvolto in una stuoia grezza.
Riccardo avvicinatosi a quelle persone, vide che quella avvolta nella stoffa era una piccola figura umana: un bambino. All’altezza del collo gli era stato legato un grosso peso di piombo.

– Oddio, il figlio mio! Oddij je fije mi! – la giovane donna marsicana piangeva.

– Che accadde? – domandò Riccardo a uno dei due marinai presenti.

– Una malattia?

– Sì. Un ceppo a bordo, probabilmente. – spiegò l’uomo.

– E si muore?

– Per la maggiore i bambini.

Riccardo tremò al pensiero del fratello febbricitante in quella cuccetta sporca. La donna continuava a disperarsi.

– E ora?

– Lo buttiamo in mare.

– In mare? – rabbrividì Riccardo.

– È la procedura. È il terzo da quando siamo partiti.

Riccardo capì che quel mare non conosceva riguardi per le normali cerimonie funebri. Vide le labbra della marsicana baciare attraverso la canapa la leggera testa infagottata del bambino. Vide i marinai issare il piccolo cadavere, e sporgersi dalla balaustra. Vide il corpo cadere violentemente, trascinato brutalmente da quel peso di piombo, in mare, in un tonfo. L’udì. L’ultimo urlo di una madre che aveva perso un figlio durante quel viaggio intrapreso con cieca fiducia.

I quattro restarono ritti a babordo, con gli occhi verso il basso, in attesa che quel corpicino impacchettato s’inabissasse, per sempre.

Ciò non accadde.

– Non affonda! – esclamò il marinaio.

La giovane madre si aggrappò alla ringhiera con una forza improbabile e cercò di sbalzarsi: – Fije mi! –. I due marinai la presero di peso: – Si calmi! – la donna si lasciò andare tra le loro braccia. Era svenuta.
La salma del bambino prese a fluttuare tra le onde, avvolta in quel telo bianco, reso brillante dalla luna.

– Dev’essersi slegata la fune, – fece uno dei due marinai – e il piombo dev’essere andato giù.

– Dev’essere senz’altro questo, – fu d’accordo il collega – Altrimenti è inspiegabile.

Le onde nere e quel bambino dal volto che Riccardo non avrebbe mai conosciuto, una delle tante mummie del mare che, mentre uomini e donne cercavano di raggiungere la terra sconosciuta, la terra del lavoro, delle opportunità, del riscatto sociale, l’oceano catturò quei decenni. Un abisso che conobbe vicende di speranza; di fede abbandonata. Di tragedie lasciate alle spalle da coloro che a quei viaggi sopravvissero, ma che poi, col sangue e col sudore, avrebbero scoperto che quell’America da cartolina non esisteva. Frotte di migranti che si sarebbero improvvisati arrotini lungo le strade di Manhattan, che si sarebbero rovinati gli occhi cucendo guanti a Down Neck, o che si sarebbero spezzati la schiena gettando binari e fissando traversine per le ferrovie transcontinentali americane, insieme a negri e cinesi. Questo era il sogno americano per chi di americano non aveva nulla.

–Riportiamola sottocoperta, – disse un marinaio all’altro, accennando alla marsicana. – Lei rimane qui? Ma Riccardo fece: – Scendo anch’io, – e del sigaro non fu più interessato.

Il corpo del bambino, intanto, andava alla deriva, lentamente, bianco e sempre più piccolo, come una barchetta di carta sospinta dal vento, nel buio della notte.

*****

Racconto “La Terza classe” scritto da Daniele Miglietti
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:

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I Lunedì di LuccAutori – Bevomangiofumo – Michela Tognotti

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Questa ve la devo proprio raccontare. A voi, sì, a voi che state leggendo.
Mi presento, sono George. Nessun cognome, un George come tanti.
Bene, dicevo… Ah, scusate, mi accendo una sigaretta, in questo bar ci sono solo amici, chiudono un occhio.
Ahhhh! Che meraviglia! Era da un po’ che non ne fumavo una. Esattamente da un’ora, da prima che arrivasse qui mia madre. Sì, avete capito bene: quella santa donna di mia madre.
Non l’avete vista? Ma come? Era qui, fino a dieci minuti fa, se n’è appena andata…
E allora vi siete persi uno spettacolo di donna. E’ già vecchiotta, sui cinquantacinque, ma si tiene bene.
Ve l’avevo detto che ho trent’anni? No, mi sa che non ve l’avevo detto.
Comunque, mia madre, dicevo, non approva che beva e che fumi, quindi mi sono dovuto trattenere fino a che è stata qui. Mica che abbia paura di lei, no, però mi dispiace se pensa male di me. E’ una salutista, è sempre stata fissata con l’igiene. Per lei sono astemio e non fumo.
E’ chiaro che fa finta di non sapere.
Pensavo che non mi avrebbe mai trovato in questo bar un po’ nascosto, da pokerino, ecco, non da happy hour come quelli che è abituata a frequentare lei con le sue amiche. Sono rimasto a bocca spalancata quando me la sono vista arrivare qui dentro. Una come lei qui, in questo, diciamocelo, letamaio! Non dovrebbe neanche passarci davanti.
Lì per lì ho pensato che ci fosse arrivata tramite una delle sue associazioni benefiche. E’ fissata, quella santa donna, fissata! Ha la mania di voler salvare tutti, soprattutto quelli che non conosce. Però la gente non sempre vuol essere salvata. C’è chi vuole sprofondare nella melma per scelta, non per sfortuna. E lei, no, si sente tanto angelo custode.
Ma così mi sto allontanando dalla storia che vi volevo raccontare.
Ho bisogno però di bere qualcosa: vi dispiace se ordino un bicchiere di vino rosso?
Insomma, dicevo, mia madre piomba qui, a colpo sicuro. Sapeva di trovarmi qui. E sapeva che mi avrebbe trovato in compagnia.
Come dite? Non l’avete vista la persona che era con me? E’ andata via cinque minuti prima che se ne andasse mia madre. Possibile? Oh, ma non avete visto niente, allora! Ok, finisco il racconto, manca poco, ormai. Prima sarà meglio che mi faccia portare due stuzzichini e l’intera bottiglia di questo miele rosso.
Vedete, io sono un attore. Sissignori, un attore di teatro. Off. Molto off. Però me la cavo, ho di che vivere, ho di che mangiare, ho di che bere. E mi diverto. Anzi, me la godo proprio. Ho un buco al Greenwich, un buco che più buco non si può, ma chissenefrega! Non ci sto mai. Mangio fuori, e spesso dormo fuori. Serve solo per cambiarmi la biancheria intima, quando salto tra un letto e l’altro.
Dicevo, dunque: mia madre. E’ venuta qui per dirmi che disapprovava. Oh, beh, detto da lei, non è una novità: disapprova tutto, a prescindere. Voleva che facessi l’avvocato. Ma ci pensate? L’avvocato io, come il mio imbalsamato padre! Da scompisciarsi dalle risate… No, non fa per me. Comunque sia, quella santa donna, senza neanche salutarmi ha cominciato tutta una sequela di rimproveri: e il tuo lavoro, e il tuo appartamento, e le tue relazioni sentimentali, bla bla bla…
Ha battuto soprattutto su quel punto. E naturalmente ne ha avute da dire anche per la persona al tavolo con me. Ora, l’amico in mia compagnia, di cui mi sfugge il nome, Michael? Gabriel? Raphael?, un Arcangelo, insomma, è un amico, ma con moderazione. No di certo fino al punto di sorbirsi le fisime di mia madre. Abbiamo passato la notte insieme, e basta. Di sicuro non lo rivedrò domani.
Insomma, lei pensava che fosse una specie di fidanzato, e intendeva fargli capire che non sarebbe mai stata la remissiva suocera di un gay, come si vedono nelle fiction in tv. Così se n’è andato velocemente.
In realtà di Michael o come si chiama non me ne frega niente. E’ carino, abbiamo fatto sesso.
Chiuso.
Ho dunque cercato di farlo capire a mia madre, che non ho un fidanzato fisso, e che li cambio tutte le sere, o quasi.
Pensavo svenisse, stecchita, qui, su questo pavimento. Il suo Chanel si sarebbe sciolto, al contatto del suolo lercio.
Se n’è andata senza salutarmi, come era venuta.
Starà già pensando a quale Associazione rivolgersi per salvarmi.
Beh, che volete che vi dica, lei è fatta così.
Io sono fatto così. E non voglio essere salvato.
Dovrà farsene una ragione.
E meno male che non avevo ancora ordinato il vino.

*****

Racconto “Bevomangiofumo” scritto da Michela Tognotti
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Opera pittorica  “Alcuni cerchi”- Wassily Kandisky -1926

Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:

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I Lunedì di LuccAutori – Simonetta – Ottavio Mirra

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“Sono la pecora sono la vacca, se agli animali si vuol giocare, sono la femmina camicia aperta, piccole tette da succhiare” (Fabrizio De André)

Mi chiamo Simonetta, fino a ieri per venirmi a trovare bastava allungarsi dallo zoo di Fuorigrotta fino al Viale dei Giochi del Mediterraneo. Adesso se ti devo raccontare come sia finita lì, la storia è lunga e non credo tu abbia tutto questo tempo. Vediamo se ci riesco in due parole.
Da piccola, come tutti quelli del quartiere, giocavo a pallone per strada. Allora non c’erano i campi di calcetto e ci si arrangiava. Io ci giocavo perché mi piacevano i contatti. Mi piacevano i tackle, con il pallone in mezzo a dieci piedi che scalciavano. Con i pantaloncini corti, si scontravano le ginocchia nude, si strusciavano le cosce. A questo pensavo quando andavo a giocare, a questo e agli abbracci dopo i gol. E io di gol ne facevo tanti. Giocavo, mi strusciavo, segnavo e abbracciavo. Il motivo per cui mi piacesse così tanto giocare a pallone con i ragazzi, me lo spiegò un giorno Don Quirino, senza bisogno di parole, mentre ero in sagrestia inginocchiata di fronte a lui per confessarmi. Io con Don Quirino non ce l’ho per niente. Con lui è successo solo quella volta, ma mi è bastata per capire, così mi sono messa in proprio e dopo un po’ avevo la fila davanti alla porta. Ho conosciuto un sacco di gente, e c’è stato anche chi mi ha voluta bene davvero.
Lo sai che ognuno di noi nasconde dentro di sé un maschio e una femmina? Ma certo che lo sai. Ecco, tra i due io ho preferito la femmina, e quella sono stata, per tutta la vita. Bella, alta, imponente, da guardare. Il tempo mi ha solo sfiorata, e su Viale dei Giochi del Mediterraneo contavo ancora qualcosa. Bastava un velo di trucco in più e i miei sessantatré anni sembravano quaranta.
Fino a ieri, come sai.
Poi è arrivato lui, si è accostato con la macchina e mi ha chiesto come mi chiamassi. Era bellino, simpatico. Gli ho sorriso. Simonetta, gli ho detto, mi chiamo Simonetta, e sono salita. Questa volta però è andata male. A lui non è piaciuto il lato maschile che ancora mi porto appresso. Come se contasse qualcosa. Mi sono sempre detta che se non conta per me, non dovrebbe contare per nessuno. Lui, invece, ne ha fatto una questione di vita o di morte e con il coltello mi ha tagliato la gola.
Ora mi prenderai per pazza se ti dico che mentre stavo morendo mi è venuto da ridere. Mi ha uccisa uno che ha il mio nome al maschile, si chiama Simone. Ma ti rendi conto? Mi ha uccisa la mia parte maschile.
Vedi Pietro, ora che sono arrivata davanti alla tua porta, sono io che ho una domanda per te: dimmi, conta anche qui?

Racconto “Simonetta”  scritto da Ottavio Mirra
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo a cura di Demetrio Brandi
in tutte le librerie a distribuzione nazionale

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365 giorni, Libroarbitrio

Il lunedì di LuccAutori – Il mio dentista – Andrea Serra

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Il mio dentista si chiama “il mio dentista”.
Era il dentista di mia madre e poi è diventato il mio.
E quando telefono per prendere appuntamento, sono talmente incarognito e depresso che non mi viene proprio in mente di dire all’assistente: “buongiorno, mia madre non mi ha mai voluto rivelare il nome di battesimo del dentista. E’ una questione di vita o di morte, me lo dica!”
Il mio dentista mi fa accomodare.
Mi mette il tovagliolo al collo e la cannula aspirasaliva in bocca.
Chissà come mai al mio dentista viene sempre da farmi qualche domanda quando ho la cannula in bocca.
«Lavora sempre all’Università?» mi chiede.
Il mio dentista mi conosce da più di vent’anni e non ricorda mai che da una vita non lavoro più all’Università. Che poi non ci lavoravo neanche allora. Ero solo un grigio e inutile dottorando del corso di laurea in filosofia.
Ma il mio dentista è appassionato di filosofia. E quindi per lui io lavorerò all’Università per sempre.
«Vo, vov vovovù avevvivà, vo vivenvo uiivo.»
Chissà come mai il mio dentista capisce perfettamente quello che dico quando ho la cannula in bocca.
Forse capisce solo più se gli parli così. Sta anche tutto il giorno con gente nella mia stessa condizione, poveraccio.
E quasi sicuramente, per fare due parole a cena, metterà anche a sua moglie una cannula in bocca.
Il mio dentista si illumina.
I due cerchi dorati ed enormi dei suoi occhiali brillano sotto la lampada.
«Sta scrivendo un libro? Bene, benissimo, lo sa cosa deve fare? Non deve fare un finale, ma tre finali, anzi, cinque finali, meglio ancora! Perchè ogni lettore dovrà decidere in base al proprio libero arbitrio quale finale preferisce, anche se poi tutti i finali sono già scritti, perchè tutti i destini sono già scritti e quindi non c’è libero arbitrio!»
Il mio dentista ha le idee confuse.
Il mio dentista è un uomo sulla cinquantina, senza barba e senza peli, con gli occhi azzurri e la pelle pallida e tumefatta. È vegano e parla solo di cibi naturali e reincarnazioni.
L’odore di disinfettante mi invade le narici e la luce in faccia mi acceca.
Il mio dentista mi trapana il molare e mi consiglia caldamente di spedirmi il manoscritto a casa con ricevuta di ritorno. Qualcuno potrebbe rubarmi l’idea, dice. E’ pieno di brutta gente in giro e devo stare attento.
Il mio dentista non si placa.
Mentre mi fa l’anestesia per estrarre il dente che ha già curato mille volte e che adesso è ufficialmente in putrefazione, mi consiglia di leggere un po’ di libri che mi potrebbero servire.
«Legga sopratutto Aïvanhov, lei lo conoscerà sicuramente. E’ un maestro contemporaneo e non ha mai scritto nulla, come tutti i maestri d’altronde, perché teneva solo conferenze, che sono poi state trascritte dai suoi discepoli. Lo legga, mi raccomando, lui ha detto tutto, tutto quello che è presente nell’universo. Provi a partire da qualcosa di breve, non so, dall’Opera omnia ad esempio.»
Vorrei dire al mio dentista che leggerò tutto, ma proprio tutto quello che vuole. Ma ho la bocca completamente insensibile. E mi gira la testa.
La poltrona e lo studio tremano.
Dev’essere un terremoto o una tempesta di asteroidi. Mi sporgo e vedo dal finestrino che stiamo attraversando la nebulosa di Orione.
Il mio dentista deve avermi fatto una di quelle anestesie che si usano in Tibet per sedare gli yeti molesti.
Il mio dentista mi consiglia altri venti maestri che potrebbero aiutarmi, indipendentemente dal fatto che il mio libro sia un manuale naturalistico sui girini zoppi del Madagascar o un romanzo pulp sulle foche monache del Molise.
Il mio dentista ha preso un martello pneumatico ed è convinto di dover fare dei lavori di rifacimento sul tratto autostradale che da questo momento passa per la mia bocca.
Il mio dentista perde lucidità.
Ha deciso che vuole spaccarmi la faccia e mi prende a martellate.
Devo aver fatto qualcosa di molto brutto a sua madre o a sua sorella.
Il mio dentista impugna un revolver e mi spara in bocca. Poi con un cacciavite arrugginito prova ad estrarre il proiettile dalla gengiva.
Il mio dentista ha stretto un accordo con la ferramenta dietro l’angolo e si mette a provare tutti i tipi di tenaglie del mondo perché altrimenti la ferramenta gli ritira la sponsorizzazione.
Il mio dentista è posseduto dal demonio. Ansima e si muove come un ossesso.
Il mio dentista è in preda ad un raptus omicida.
Prende un punteruolo e prova a soffocarmi.
Il mio dentista è fuori di sé e straparla.
Con una voce metallica parla di infezioni ai canali e di fili ai salami.
Il mio dentista ha deciso di cambiare lavoro.
Da grande vuole fare l’agopunturista e così, per fare un po’ di pratica, prende degli aghi vecchi dalla scatola di ricamo di sua nonna e me li pianta in bocca.
Io provo a sbracciare per dirgli che non riesco più a respirare, ma lui non mi vede.
Dalla luce della lampada esce un alieno arancione che mi intima di stare calmo, perché gli aghi cureranno la mia anima e mi aiuteranno ad essere una persona migliore.
Dopo dieci anni luce e dopo aver rivisto più o meno trenta volta il film completo della mia vita, il mio dentista mi dice che posso sciacquare. Ha finito.
Sul suo cassettino ci sono brandelli della mia mascella.
Il mio dentista si toglie i guanti insanguinati e mi guarda fisso con le sue pupille azzurro chiaro.
Rimane immobile per diversi secondi.
Lo guardo attentamente e noto che ha smesso di respirare.
Il mio dentista è morto.
Oppure il suo spirito ha abbandonato la materia ed è partito per un viaggio astrale.
Il mio dentista sta per rarefarsi da un momento all’altro e il suo corpo è vicinissimo all’evaporazione.
Il mio dentista ha la pelle di un neonato e di un vecchio prossimo alla morte.
E, non so perché, mi ricorda un verme gigante albino che vive sottoterra.
Sarà per la sua testa oblunga o per il cocktail di droghe e barbiturici che ha definito “leggerissima anestesia che le ho fatto”.
Improvvisamente il corpo diafano ed emaciato del mio dentista viene rioccupato dal suo spirito.
Il mio dentista riprende a parlare. Come tutti i grandi maestri vuole salutarmi con una battuta.
Mi dice che la cosa più importante è l’istante della morte, della propria morte. L’ultimo pensiero che si ha prima di morire. Perché lì si decide la successiva reincarnazione e quindi il livello del karma. E la storiella riguarda un tizio in India che aveva deciso di pensare ai suoi figli al momento della morte, per aiutare i figli ad evolversi o per qualche altro motivo che non comprendo per via dell’anestesia e del sangue che sta invadendo il cotone che ho in bocca, che durerà per un paio di giorni e non riuscirò più a mangiare e avrò un male cane e sarà l’inferno. E vorrei dire al mio dentista che non me ne importa proprio niente della sua storiella, perché mi sono già messo la giacca addosso e voglio solo andarmene a casa a soffrire in silenzio, ma lui ci tiene proprio a concluderla.
«Sa come finisce la storia del tizio in India? Che al momento della sua morte, mentre guarda i figli che sono attorno al letto, gli viene in mente che nella bottega non è rimasto nessuno perché i figli sono lì con lui e proprio in quel momento muore. E così rimane inculato.»

Racconto “Il mio dentista”  scritto da Andrea Serra
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “Il lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi
in tutte le librerie a distribuzione nazionale

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365 giorni, Libroarbitrio

DuediRipicca Vincitori del Premio Racconti nella Rete – Volevo solo morire e invece sono morto – Lié Larousse & Gianluca Pavia

Abbiamo vintoooo!
“Volevo solo morire e invece sono morto” di DuediRipicca – Lié Larousse e Gianluca Pavia – è stato premiato dalla giuria tecnica della XV edizione del premio letterario “Racconti nella rete” per la nostra originalità ed inventiva stilistica fuori dal comune!
Il nostro racconto inoltre sarà inserito nell’antologia del premio 2016 edita da Nottetempo assieme agli altri racconti selezionati, verrà illustrato dagli studenti del Liceo Artistico Passaglia di Lucca ed esposto durante il festival letterario che si terrà nel mese di ottobre.
Con l’occasione ringraziamo tutti coloro che ci hanno letto e commentato, tutti voi followers che ci seguite ogni giorno, la giuria che ci ha premiato e il presidente Demetrio Brandi che con questo progetto letterario dà l’opportunità ai nuovi e sconosciuti scrittori come noi di farci conoscere al mondo della letteratura.
Le nostre congratulazioni e sentiti complimenti vanno all’amico e scrittore stimato Andrea Mauri selezionato anche lui nella rosa dei 25 premiati con il suo racconto “Un banchetto diverso”.
A novembre saremo in libreria!
Intanto vi lasciamo alla lettura della poesia scritta e dedicata al racconto premiato, perché sarà follia o sarà normalità o forse non è nulla di entrambe, perché noi siamo così senza essere così, e il senso alle cose non lo stiamo più a cercare, e allora dedichiamo parole alle parole, oltre che alla pittura  alle muse al vino agli amici e a tutto ciò che non conosciamo e invece sì, e poesiamo racconti, e raccontiamo poesie, immaginatevi un nostro romanzo, immaginatevi il poesare immorale fazioso inopportuno romanzesco raccontare nostro, ecco anche per quello, il poesare immorale fazioso inopportuno romanzesco raccontare nostro, non dovrete aspettare molto, tant’è che la raccolta di racconti è pronta, e che c’entra?Interpretazioni arbitrarie? Ne siamo tutti liberi…continuate a seguirci e a leggerci!

autoritratto-uomo-disperato- gustave coubert 1844

Che sia dolce e cruento

Guardo il mondo
da dietro uno specchio,
tipo in un film,
e oltre, l’interrogatorio
con lo sbirro cattivo
e l’altro, ancor di più.

C’è un’indagine in corso,
ormai sono coinvolto
ma il mio ruolo
non lo conosco:

vittima o carnefice
accusa o difesa,
il grado d’imputazione
neanche m’interessa.

E le giuro
signor Giudice
né colpevole
né innocente,
ma colpevole d’innocenza
o forse ingenuità.

Volevo solo vivere
e mi ritrovo a morire
tutto il giorno
tutti i giorni,
ma la prego
signor Giudice
che sia almeno
dolce e cruento.

Gianluca Pavia 

 

http://www.raccontinellarete.it/?p=28273

 

 

 

 

365 giorni, Libroarbitrio

Volevo solo morire e invece sono morto – DuediRipicca

 

Il poeta

Con orgoglio e tanta tanta gioia vi presento on line i nostri racconti selezionati per il Premio Racconti nella Rete, dunque leggeteli!
Leggeteci, leggetemi, che la scrittura per quelli come me è un miracolo, una benedizione, anche se molto spesso mi fa sanguinare il cervello e venire male alla pancia, e questo e quello e un sacco di altri sentimenti e caos , e,  siccome ora non so proprio spiegarmi, né spiegarlo  a chi me lo domanda, ve lo dico citando un collage di parole del poeta:

“Sei abbastanza uomo
per camminare in linea retta,
falcate, mesi, anni,
senza andare mai fuori rotta?
Piano piano sparisci
in mille code
mille scuse
mille guerre
che non ti appartengono,
troppi oneri per nessun onore.
Una vita non basta
per soddisfare l’appetito
di dolci illusioni
e delusioni amare,
un lungo baccanale
di sorrisi, schiaffi,
graffi e carezze.
Una vita sola non basta più
a trovarci un senso
e vivere per quello,
conviene che glielo dia
io, un senso.
Sul filo della lama
tra genio e pazzia,
equilibrio precario
in perfetta apnea.
Nulla mi rende più solo
della folla,
della follia.
Parole vuote
mi rendono muto,
la testa persa
non sa dove andare.
Non sa se ridere
o piangere.
Albe amare,
colazioni di catastrofi.
Vite spezzate dall’inutilità,
spazzate dalla routine
alienate dalla nostra condizione umana.
E non volli più guardare
per paura di vedere
quello che avevo visto
ancora, ancora, ancora.
Forme del mio passato
ancora troppo odiato
una sincera amarezza
portata dalla brezza.
L’acqua è irreale
l’irreale diventa cielo.
L’anima della mattina
la rispecchia fragile.
Lavora, consuma, crepa.
Nasci con una taglia
sulla testa.
Cresci,
studiando guerre,
crisi e sconfitte.
Esulti per un gol
nei nuovi Colosseo
e la tua vita si perde
in vecchie catene.
E’ tutto qui?
Questo sei tu?
Un lavoro
uno stipendio
l’affitto
la spesa
e il telefono nuovo?
La mia vita sincopata
lascia stare
che un senso ce l’ha.
I voli e le cadute,
le corse e le sbandate,
campione del fuori pista.
Le tregue e le battaglie,
la calma e la tempesta
prima e dopo.
E i passi
e le lacrime
e i colpi
e il sangue.
Chiodi nella testa
e spilli nel cuore.
Cane randagio o pecora nera,
solo
tra poesia
e fantasia.
Cosa me ne faccio del libero arbitrio
se non so scegliere?
Testa o croce?
La mia testa sulla croce
o la croce sulla mia testa?
Ero uno scrittore,
un poeta,
il più onesto dei bari
con la coscienza
in una bara.
Non ho proprio voglia
di alzarmi, oggi
e sentire le news
di ieri
non ce la faccio
a scrivere
scopare
e a starvi a sentire
su cosa silenzi
il volume del soffrire.
Come zattera alla deriva
persa la rotta
sono naufragato
in ogni porto ho imparato a lottare
il cielo
non mente
qui
dove sono nato e cresciuto
qui
dove non si sa se ne ammazza di più
il lavoro
la droga
o la noia.
Qui dove il tempo non passa mai
e quando passa
lo segniamo sul muro della cella.
Ogni giorno digrigno i denti
Ogni notte impavido affondo
in fiumi, mari
oceani etilici
colo a picco nelle mie pecche
per timore di volare.
Ogni ora
riempio i miei vuoti a perdere
con nulla di buono.
Ogni minuto
svuoto i miei pieni a rendere
con tutto il male del mondo.
Ogni secondo
mi rinchiudo nell’illusione
di libertà,
belle parole
effimere scuse perse nel vento.
Il coraggio che urlo al mondo
è la mia paura silenziosa,
il vanto dei miei vizi
è la vergogna delle virtù,
gli eccessi della mia rabbia
le brutte parole da bravo ragazzo,
tutto il mio odio universale
è solo bisogno
di un po’ d’amore
solo paura d’amare
rifiutarsi sempre di vivere
per non morire mai.
Il nulla che ho
è tutto ciò che manca
eppure siamo qua
giocattoli rotti con le pile scariche
abbandonati in un angolo buio
da chi, troppo viziato,
non si divertiva più.
Inaspettato un sospiro,
uno sguardo,
e ci facciamo luce
dopo aver vissuto
bestemmiando
sorriderai
quando la smorfia
avrà stremato il tuo volto
avrai sete
per aver mangiato sale
e polvere
e terra
sarai sempre fuori moda
fuori budget
fuori tempo
te ne dispererai
e ne ringrazierai
poi
e potrai morire
solamente dopo aver vissuto
realmente
e non morirai mai,
un Lupo non muore
avanza,
su, in cima,
sulla roccia più alta,
rizza il pelo controvento
e ulula alla Luna,
sua pallida sposa, vestita di stelle.
Troverai
quando smetterai di cercare
Ho una mappa del tesoro
nascosta da qualche parte…”
Gianluca Pavia
Ecco di seguito i  racconti. Buona lettura e buon  divertimento!

http://www.raccontinellarete.it/?p=28273

http://www.raccontinellarete.it/?p=28246

http://www.raccontinellarete.it/?p=28276

http://www.raccontinellarete.it/?p=28271

http://www.raccontinellarete.it/?p=28281

http://www.raccontinellarete.it/?p=28268

http://www.raccontinellarete.it/?p=28283

Grazie amici followers !
Vostra Lié Larousse