365 giorni, Libroarbitrio

“Un giorno senza vederti è lungo tre mesi”: viaggio nella poesia cinese delle origini – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Azzurro, azzurro è il tuo colletto,
triste, tanto triste il mio cuore!
Anche se non ti ho seguito
perché non hai mandato tue notizie?

Azzurro, azzurro il tuo fermaglio,
tristi, tanto tristi i miei pensieri!
Anche se non ti ho seguito
perché non hai fatto ritorno?

Vado e vengo irrequieta
alla torre delle mura.
Un giorno senza vederti
è lungo tre mesi!

青青子衿,
悠悠我心。
纵我不往,
子宁不嗣音?

青青子佩,
悠悠我思。
纵我不往,
子宁不来?

挑兮达兮,
在城阙兮。
一日不见,
如三月兮。

(Traduzione della poesia zijin 子衿 (Il colletto) di Giuliano Bertuccioli, ne “La letteratura cinese”, edito da L’asino d’Oro edizioni, 2013)

Così recita uno dei più antichi componimenti tratto dalla prima raccolta di poesie della storia cinese, lo Shi诗, poi canonizzato come Shijing诗经, noto come “Classico delle poesie” o “Classico delle odi” composto in un periodo di tempo che va dal 1000 a.e.c. al 600 a.e.c.

Questa antichissima raccolta poetica consta di 305 componimenti distribuiti in quattro diverse sezioni, ognuna delle quali è dedicata, con le dovute differenze anche a livello metrico e linguistico, a temi e “ambienti” specifici: dagli illustri antenati, ai sovrani, fino ai contadini e alla loro semplice, profondissima vita. La sezione detta “Arie dei principati”, Guofeng 国风, è proprio quella che con ben 160 poesie ci rende un’immagine nitida della vita agreste del tempo, ma soprattutto del sentire profondo di quelle donne e quegli uomini che in tale epoca vissero, con tutte le loro “preoccupazioni” materiali e affettive. Di questa sezione, moltissime sono le poesie ascrivibili a donne, poetesse anonime il cui canto può ancora parlarci di cose vere e profonde, di temi universali che ritroviamo, fortunatamente, anche nella nostra “moderna” quotidianità.
Dopo anni, anzi, secoli di silenzio si è sviluppata una nuova critica letteraria che riconosce, finalmente, la forte presenza di voci femminili all’interno della raccolta. Voci che erano state silenziate da una tradizione ermeneutica che ha interpretato le poesie come un insieme di componimenti dal carattere rigorosamente storico-morale e in linea, dunque, con l’etica confuciana.

I componimenti delle “Arie dei principati” ci raccontano di una libertà di movimento e rapporto della donna che sarà rara, se non nulla, nei secoli avvenire in cui la donna sarà sempre associata alla sfera “interna”, del nei 内che significa “dentro”, appunto, e dunque la casa, ma non basta: della casa avranno accesso solo alle stanze più remote, più solitarie e silenziose, lontane dal mondo reale, il mondo esterno, “fuori”, cioè wai 外, tradizionale dominio dell’uomo razionale.

Quelle che sembrano poesie composte da anonime poetesse ci possono portare pensare che i primi poeti cinesi non fossero solo gli uomini, i letterati o i funzionari di corte, ma anche le donne che godendo di una grande libertà, soprattutto nel rapporto con l’altro, ed essendo così fedeli al loro sentire più intimo, avrebbero sviluppato un linguaggio poetico sgombro da complicati artifici retorici che all’uomo, impegnato in attività ben più materiali, era, forse, sconosciuto. 

La società che si muove all’interno del Guofeng è quella dei contadini, la cui vita sociale si animava durante le feste stagionali in cui i gruppi locali minori si riunivano per rinvigorire e rinnovare la loro unione. I giovani dei diversi paesi avevano durante queste celebrazioni la possibilità di incontrarsi liberamente, senza troppi impedimenti: molte delle poesie dello Shijing sono infatti ambientate fra i pascoli, presso i corsi d’acqua o alle mura delle città, luoghi privilegiati per gli incontri romantici di questi giovani e queste giovani pieni di vitalità. A tal proposito, bisogna sottolineare la presenza di svariati componimenti aventi come tema principale l’amore in tutte le sue sfumature, presenza che fu tradizionalmente negata da una tradizione ermeneutica diffusasi a partire dal II secolo e.c. circa, attribuita ad un certo signor Mao 毛 che attraverso una serie di glosse e commenti riduce le poesie d’amore a metafore per parlare di argomenti come il rapporto fra suddito e sovrano, diventando vere e proprie parabole educative i cui protagonisti vengono associati a personaggi storici realmente esistiti spazzando via insieme all’amore anche le donne.

Abbandonando i commentari ci si accorge che fra i tesori inestimabili che il “Libro delle poesie” ci offre c’è la possibilità di vedere, leggere e conoscere la donna del tempo senza che l’uomo ce ne serva un’immagine filtrata. Se, come appare, queste poesie sono davvero frutto del genio femminile, è possibile, allora, leggere la donna attraverso le sue stesse parole con le quali racconta le sue vicende ma soprattutto i suoi sentimenti fornendoci un’immagine di donna nel complesso positiva: le protagoniste della raccolta esprimono il loro sentire senza riserve, come nella poesia numero 96 intitolata “Il canto del gallo” (Jiming 鸡鸣) in cui la donna cerca di convincere l’amante che non è il sole a splendere, bensì la luna perché in fondo sarebbe così dolce “sognare ancora assieme”. All’unione, spesso, si accompagna la separazione, uno dei temi più ricorrenti della poesia cinese in generale, non solo quella dall’amato o dall’amata ma anche e soprattutto quella dal luogo natio. Il lamento delle donne delle “Arie dei principati” nasce soprattutto dalla lontananza dell’amato, spesso provocata dalle guerre. L’attesa di un ritorno che date le circostanze era più che difficile, è quasi insopportabile. Il tempo allora si distorce, i giorni sembrano infiniti ed il linguaggio delle donne si fa più cupo, come il tempo atmosferico che non segue più le leggi naturali ma quelle del cuore, come nella poesia “Sempre vento” che recita: “Nuvole fitte, cielo oscuro, romba, romba, il tuono, mi sveglio e non riesco a dormire, ti desidero e languo per te”. Quando la separazione si fa insopportabile ci si sente “svuotate”, “asciutte” come piante essiccate al sole metafora che si trova nella poesia numero 62 in cui viene invocata la pioggia, l’acqua che dà vita, cioè quella del rapporto sano fra l’uomo e la donna che rigenera e arricchisce interiormente al contrario del sole che, se troppo caldo, asciuga e toglie linfa vitale: “Oh, se solo piovesse, se solo piovesse, ma è il sole cocente a farsi avanti. Intensamente penso al mio uomo, il mio cuore è rassegnato e la testa non mi dà pace.” 

La forza di queste poesie, di questo eterno canto sta nel riuscire a veicolare i sentimenti umani in tutta la loro “complessa semplicità” utilizzando un linguaggio vero e familiare che proprio perché tale incanta il lettore.

In un periodo come il nostro nel quale si riscontra una preoccupante involuzione per quanto riguarda tematiche quali l’uguaglianza fra i sessi e nel quale la diversità è intesa più come barriera che come ponte fra gli esseri umani, penso sia importante e necessario riconoscere e ridare alle donne la loro identità attraverso tutti i mezzi possibili perché nel mondo non ci siano più episodi di violenza o discriminazione. Sostenere le donne e parlare delle loro opere, qualunque esse siano, non significa discriminare ciò che gli uomini hanno fatto ma porre entrambi sullo stesso piano, perché soltanto riconoscendo la diversità nell’uguaglianza dell’uomo e della donna si può lavorare per creare un mondo libero, umano e migliore.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

“NOI, GENTE CHE SPERA” articolo di Claudia Massotti

Nel 2002 J-AX, al tempo cantante degli Articolo 31, cantava “gente che spera”, all’interno dell’album “Domani smetto”. Ma chi è questo “Noi, gente che spera”?
Nel marzo del 2021, al primo compleanno della crisi pandemica, credo che la gente che spera sia difficile da individuare. In particolare, dove sono i giovani che sperano?
Nella società odierna, sempre più divisa tra una crisi economica, una crisi sanitaria e una crisi di governo, che futuro si prospetta per chi ancora nutre una speranza nel Bel Paese?
Non si può negare che i giovani italiani siano stati al centro delle discussioni che hanno caratterizzato il 2020; d’altronde è risaputo che ad ogni difficoltà corrisponde un capro espiatorio, ma allo stesso tempo non si può negare che la maggior parte dei capi espiatori diventino poi alcune delle principali vittime dei problemi che sorgono. Non è forse vero che noi giovani, sempre più accusati di mancanza di responsabilità, presunti “untori” di un male ancora non decifrato, abbiamo subito un grandissimo impatto da una pandemia che ha stravolto le carte in tavola anche per quanto riguarda il nostro futuro?
Per molto tempo sono risuonate parole apprensive verso le fasce più giovani, come i bambini frequentanti la scuola elementare; un tema di discussione facilmente riscontrabile in qualsiasi talk show pomeridiano della televisione italiana, nel quale opinionisti vari esprimevano la preoccupazione per il gap di istruzione, ed il conseguente “ritardo educativo” che questi bambini subiranno in futuro, ma per chi si trova adesso a dover fare i conti con il proprio destino, ha forse qualche speranza? Per chi ha fame di vita, arde di sogni e ambizioni, c’è forse un futuro? Ad oggi l’ipotesi più rosea sembra risolversi nel passaggio da una videochiamata con un professore ad una videochiamata con dei colleghi d’ufficio, nell’utopistica possibilità in cui si riesca ad ottenere un colloquio e si venga selezionati per un posto vacante.

Che cosa è rimasto ai giovani che ricoprono quella fascia che va dai 20 ai 30 anni se non un debito pubblico da dover portare sulle proprie spalle, una pensione sempre più lontana, così come la possibilità di trovare un lavoro dignitoso che gli permetta di costruire la propria vita?
Ci hanno lasciato chiusi nel cassetto più difettoso dell’intero comodino, dimenticandosi delle nostre lauree, dei nostri titoli, degli stessi curriculum che altro non sono più che fogli per disegnare. Tuttavia, non si sono dimenticati delle nostre tasse universitarie, dell’alto costo dei corsi di formazione, di quel “cerchiamo giovani da formare con esperienza”. Come possiamo dimostrare di che pasta siamo fatti, noi giovani italiani, se non riceviamo il minimo supporto neanche dall’assistenza della rete wi-fi che non funziona più? Cosa è rimasto a noi giovani italiani, che indossiamo sempre la mascherina, igienizziamo le mani, manteniamo le distanze, e passiamo gli ultimi anni di gioventù a cercare di preservare quelle poche certezze verso il nostro futuro che abbiamo faticosamente conquistato? Si è parlato a lungo della “fuga di cervelli”, ovviamente venuta meno ma non totalmente scomparsa in questo periodo di pandemia, tuttavia ciò che ancora non è chiaro è quale sia l’intenzione del paese per far sì che ciò non avvenga. Aspettiamo con trepidante ansia il momento in cui venga riconosciuta la presenza di una popolazione giovane che un domani, più o meno vicino, si troverà a tener in mano le redini di un paese che chissà in quali condizioni ci verrà consegnato. Sempre più ragazzi rinunciano alla vita tra questi nostri confini perché non sono in grado di realizzarvi le loro ambizioni, non lasciamo che i pochi “fedeli” cambino idea fino a che la nazione non si troverà popolata (e decimata) da persone over 65.

Ridateci la voglia di sognare.
Ridateci la speranza che tutta la fatica fatta fino ad ora sia poi ricompensata, che i nostri meriti vengano riconosciuti.
Ridateci le opportunità, le attenzioni, anche solo quella lieve diceria che fossimo il futuro del paese, e non solo versatori di contributi e tasse.
Ridateci la possibilità di fare la nostra parte per aiutare a risollevare la nostra Terra da qualsiasi problema possa affliggerla.
Ridate la speranza a noi, gente che spera.

Articolo di Claudia Massotti

365 giorni, Libroarbitrio

Enḫeduanna & Aleramo “La nostra fiamma” per Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

L’Otto marzo è alle porte, si respira nell’aria, nei primi fiori che sbocciano tenaci, nonostante il freddo e la pioggia che arriva quando meno te lo aspetti, si sente nell’eco dei passi di una bambina e un bambino che hanno appena imparato a camminare, è una musica lontana, un concerto, anche se c’è chi ancora fa finta di non sentire.

Nonostante secoli di buio, violenza e negazione dell’identità della donna, c’è qualcosa che sta cambiando, c’è una rivoluzione silenziosa alla quale siamo tutte e tutti chiamati a partecipare, con tutto il cuore che serve. Ci stiamo riprendendo la libertà di Essere, di fare, di creare, libere da biechi stereotipi culturali che, frutto di menti malate, ammalano persino le acque delle fonti più limpide; stiamo riuscendo a rischiarare l’aria, sporcata da una fitta coltre di nero fumo che per poco non ci ha reso ciechi. Stiamo tornando a quell’infanzia del mondo, o “vera maturità”, forse, agli albori della storia dell’umanità, quando bastava un fuoco intorno al quale parlare per volersi bene e tre o quattro colori per dar vita a vere e proprie opere d’arte. Mi riferisco all’arte rupestre delle grotte di Altamira, per esempio, ormai ampiamente riconosciuta come opera delle donne che, lontane dalla caccia e vicine alla vita, davano voce alla loro dimensione interna attraverso delle immagini che sono molto più che semplici “raffigurazioni” della realtà materiale a loro nota, sono la rappresentazione del loro e del nostro mondo interno.

Dalle grotte di Altamira all’Antica Grecia, le cose cambiarono non di poco: la razionalità maschile aveva preso il sopravvento e alla donna, essere “inferiore per natura” secondo Aristotele, non restava che essere moglie fedele e madre, cioè garante della “continuità della specie”, proprio come un animale e non un essere umano. Questa presunta inferiorità e questa paura di fondo della donna da parte dell’uomo-razionale hanno, nei secoli, condizionato pesantemente la vita delle donne ed il rapporto stesso tra i sessi, vincolato da regole, freddi dettami, tabù e senso del peccato. Le tracce di tutto questo, purtroppo, sono evidenti anche ai giorni nostri, nel nostro civile e sviluppato ventunesimo secolo… In tutto il mondo, però, c’è un qualcosa che sta crescendo, un movimento planetario che non ha paura di affermare a gran voce che esiste una “diversità nell’uguaglianza” e che siamo tutti né più né meno che Esseri Umani. Fa strano pensare che debba essere ribadito, ma è così e finché ci sarà bisogno, saremo qui a gridarlo.


La letteratura è uno dei campi, fra i tanti, in cui le donne hanno da sempre dovuto lottare con le unghie e con i denti per affermarsi. Anche solo farsi leggere da un parente era una sfida: per secoli abbiamo lottato per poter essere riconosciute come scrittrici, per essere giudicate sulla base della bellezza della nostra penna e non sulla base della biologia dei corpi. Infiniti sono stati i tentativi di negare alla donna la parola e, dunque, la scrittura, eppure la realtà è che la prima poesia della storia dell’umanità fu scritta da una donna, Enḫeduanna (XXIV secolo a.e.c.) e dopo di lei alto si è levato il canto della poesia e della scrittura femminile in generale, nonostante i silenzi imposti, le carte bruciate, i meriti negati, e le mani sugli occhi per non leggere quelle parole così vive da far tremar le vene e i polsi.  La letteratura italiana, nello specifico, vanta tantissime scrittrici, il problema è che sono state considerate perlopiù come “penne di Serie B”, non degne di nota, e basta aprire una qualsiasi antologia letteraria per rendersene conto: delle donne non resta che uno smorto specchietto a fine pagina, in basso a destra, quasi nascosto, dopo capitoli e capitoli dedicati al D’Annunzio di turno. Tanti sarebbero i nomi da elencare, anzi, non elenchi ma veri e propri approfondimenti, pagine e pagine da dedicare a chi delle pagine ha fatto la propria vita, ma oggi voglio parlarvi di una in particolare, una vera pioniera: Sibilla Aleramo (Rina Faccio, 1876- 1960).

Sibilla Aleramo

Sibilla Aleramo è l’autrice di una vita che si fa opera letteraria con il titolo “Una donna” (1906), ad indicare l’universalità di una condizione ingiusta alla quale ribellarsi. Con grande coraggio, mette nero su bianco la sua esperienza: lo stupro a soli 15 anni, la gravidanza non voluta, il matrimonio riparatore (legge infame del nostro “Bel paese”, abolita solo nel 1981), l’asfissia tra le mura domestiche, vera e propria prigione, la violenza silenziosa, ma altrettanto dolorosa, della continua negazione della propria identità, delle continue imposizioni e, alla fine, la scrittura come mezzo per Resistere e per Essere e, dunque, per affermare il proprio diritto all’ autodeterminazione, il diritto di dire “No”, costi quel che costi.

Ho letto su diversi testi che “Una donna” è un romanzo che “tutte le donne dovrebbero leggere” e senza dubbio è così, ma penso che anche gli uomini dovrebbero farlo, anzi, sarebbe molto importante che lo facessero, quasi quanto lo sarebbe smetterla di stigmatizzare la “scrittura femminile”, quasi fosse un genere a parte, un genere da “salotto” e pagine rosa al profumo di violette e bucato appena lavato. La Scrittura è scrittura non serve aggiungere altro, è per questo che bisogna iniziare a cambiare il Pensiero, e con esso le Parole: trovare quelle giuste, scavare nella loro profondità e, se serve, dargli nuovi significati.

L’esercizio di scrittura dell’Aleramo è un potente mezzo di conoscenza ed autoconoscenza, un susseguirsi di riflessioni sui grandi temi universali, sulle responsabilità degli uomini, ma anche delle donne che spesso si lasciano vincere senza nemmeno tentare di vivere davvero, quasi la loro condizione fosse una cosa naturale. “Una donna” è vecchio di più di un secolo, eppure leggendolo non ci si sente così lontani, forse ci si sente fin troppo vicini: è un testo trasparente, comprensibile, ed in ciò risiede tutta la sua grandezza e la nostra miseria.
L’Aleramo conserva una bellezza di fondo che le permette di tendere verso ciò che tutto muove e tutto forma, il senso stesso di essere qui: “L’amore fu la ragione della mia esistenza e quella del mondo”.

C’è chi pensa che il femminismo sia una “roba da donne”, la verità è che esso è una “roba” di tutti e di tutte, è espressione dell’assoluta uguaglianza dell’essere umano uguale-diverso, è la certezza assoluta che siamo tutti e tutte uguali già dal principio perché la Nascita è uguale per tutti, in qualsiasi parte del mondo.  

Vi lascio con una sua poesia e con la certezza che sapremo Essere Esseri Umani, sempre di più.

La mia fiamma

La mia fiamma,

che niun aspro vento ha mai domata,

ancora guizza e lotta

che morte non già la trovi spenta,

accesa vuole

migrare in altra terra di sorpresa,

pendula oscillante nell’etere,

là donde venne, patria chiara,

e forse saperne il nome.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

LA LISTA DEGLI STRONZI – JOHN NIVEN Recensione di Gianluca Pavia

        

Sarà capitato anche a voi di stilare una lista di dieci cose da fare prima di morire, ecco, Frank Bill ne ha una con cinque nomi da uccidere prima di godersi il riposo eterno. Sembrerebbe il tipico personaggio di Niven, uomo bianco e privilegiato, ma questa volta non ci sarà una parabola di caduta e redenzione, crocifissione e risurrezione. E’ il 2026 negli Usa guidati da Ivanka Trump, succeduta al padre quasi per diritto feudale senza scostarsi dalla sua politica conservatrice, portandola, anzi, agli estremi, fino a mettere al bando l’aborto  o incentivando l’acquisto e il possesso d’armi da fuoco, che da diritto diventa quasi un dovere. E’ un’America avvelenata dall’odio, violenta, che preferisce urlare per arrogarsi la ragione piuttosto che parlare e capire, quella in cui Frank Brill accetta in silenzio la diagnosi del tumore che lo sta divorando da dentro. Niente drammi né urla disperate, eppure “silenzio” non è la parola giusta, perché dentro Frank qualcosa si smuove, e no, non è disperazione, bensì euforia. Frank è finalmente libero di mettere in atto un piano studiato alla perfezione negli ultimi anni della sua rancorosa solitudine. Un aborto illegale gli ha portato via una figlia, morta dissanguata in una stanza di motel, una sparatoria in una scuola gli ha strappato anche la seconda moglie e il figlio più piccolo; Frank non ha più nulla oltre la vendetta.
Così parte per un ultimo viaggio che lo sbalzerà da un lato all’altro di un’America che non riconosce più, intenzionato a sbarazzarsi di quelle cinque persone che hanno rovinato la sua vita, e quella delle persone che amava. Un viaggio tra il thriller e l’ironico ad un ritmo incalzante che getterà in faccia al lettore tutte le contraddizioni della società moderna: la brutalità della stessa polizia che dovrebbe “proteggere e servire”, l’informazione che ha sacrificato la propria libertà in favore di una funzione di terrorismo mediatico e manipolazione, l’istigazione all’odio verso il diverso fino a militarizzare l’antimmigrazione, la paura di un nemico invisibile che fagocita i diritti sociali.
E’ tutta fantasia, ma neanche troppo.
Il viaggio di Frank non lo porterà solamente da un obbiettivo al prossimo, lo spingerà per forza di cose a guardarsi dentro, passare in rassegna ciò che ha fatto e non ha fatto per contrastare la becera deriva a cui si è abbandonato il paese che amava tanto, partendo da quel giorno di dieci anni prima in cui votò Trump quasi per scherzo. Una lucida autoanalisi che si appiccica al lettore come un insetto fastidioso, un prurito che spinge a riflettere su quanto stiamo facendo in realtà per combattere un sistema che va sempre più stretto, di cui amiamo lamentarci per poi accettarne ogni perversione e bruttura.
Un romanzo crudo, diretto, certo ironico ma che non salva nessuno quando affronta temi come la vendita di armi, la violenza, l’odio razziale, la pedofilia, la vendetta, l’ingiustizia sociale, l’istintivo autoproclamarsi giudice e boia di ogni vita. Un romanzo imperdibile che tra una lacrima e una risata vi lascerà nello stomaco la brutta sensazione di averci appena preso un bel colpo.

di Gianluca Pavia

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L’autore Gianluca Pavia durante un reading – Torino

Gianluca Pavia autore di romanzi, racconti e poesie, vincitore del Premio Racconti nella Rete 2016, e di altri importanti titoli come Bukowski e Holden, collabora con riviste letterarie, e artisti dello spettacolo. Dal 2016 ha pubblicato i libri Poker d’incubi (Alterego Edizioni), Spietate speranze (Miraggi Edizioni), Black-out (Ned Edizioni), WHISKEY & SODA CAUSTICA d’amore, vita, morte e altri casini (Bestseller Books & Co.), in questi giorni in libreria con il nuovissimo romanzo UCCIDERO’ L’EDITORIA NAZIONALPOPOLARE (Bestseller Books & Co.)

365 giorni, Libroarbitrio

“Il bambino ricorda” da il Dhammapada

Albero

Per quanto penetrante,
il profumo del sandalo
non si propaga contro vento.
Ma il profumo della virtù
raggiunge ogni angolo del mondo
e si innalza fino agli dèi.

Il loto profumato che al cuore dà allegrezza
cresce nel fango sul ciglio della strada.

Il saggio si muove nel mondo come un’ape,
che dai fiori il nettare raccoglie
e intatti ne lascia la bellezza e il profumo.

Così le parole sincere
di chi vive la propria verità
sono fiori variopinti e profumati.

Meglio di mille vuote parole
è una sola parola di pace.

Meglio vincere se stessi
che mille battaglie
contro mille uomini.

Il dominio di sé
è la vittoria più grande

Come il bambino ricorda
le sue precedenti dimore,
conosce il cielo e l’inferno.

La sua saggezza è perfetta. E’ giunto alla fine del viaggio. Ha fatto tutto ciò che doveva fare.