Ogni libreria è un mondo a sé: c’è chi ama ordinare i libri per genere, chi per autore, chi per copertina e chi per niente. I libri, per me, sono sempre stati, e sono, una sorta di calamita, o, forse, una bussola, con la quale orientarmi e perdermi infinite volte. Se vi mostrassi la mia libreria, perennemente in costruzione, notereste subito la presenza di un signore silenzioso, con gli occhiali spessi e le parole giuste sempre a portata di mano. I suoi libri, a mio dire, non sono per nulla semplici, eppure c’è una forza, una profondità luminosa, capace di tenerti incollato alle pagine sino a notte fonda.
José Saramago (1922-2010) è uno di quegli scrittori che tutti dovremmo leggere almeno una volta nella vita: non importa quale libro scegliate, vi troverete sempre grandi verità, anzi, grandi dubbi e spunti di ricerca, soprattutto interiore. Chi conosce l’autore, sa quanto fitte siano le sue pagine: la punteggiatura segue regole proprie, i periodi sono lunghissimi, e spesso, si arriva al punto senza fiato, boccheggiando. I dialoghi devono essere intuiti, non c’è alcuna virgoletta a segnalarne l’inizio, una foresta di virgole che si fondono le une sulle altre, fino al punto e al nuovo capitolo, spesso privo di nome. Tutto ciò richiede un certo coraggio, non solo per via della forma non sempre scorrevole, ma anche per le tematiche universali che l’autore tratta con la dolcezza, e la crudezza, del poeta, quale fu. Richiede quel coraggio che lo stesso Saramago metteva in ogni singola parola, in quel suo portoghese che, come pochi prima di lui, ha saputo riscoprire e rivoluzionare.
Lo scaffale dedicato a Saramago sta lentamente crescendo, unendosi a libri di scrittori di altri paesi ed altre epoche, che mi piace immaginare si parlino muti nella lingua dell’inchiostro. Ad ingrandire le fila di questo scaffale, qualche tempo fa, è arrivato un libricino di circa quaranta pagine, ma di grande significato: quasi una sintesi di un pensiero che si lascia sfuggire a qualsiasi semplificazione, ed infatti Saramago non semplifica mai.
“Il racconto dell’isola sconosciuta” (1997) è una favola moderna, un sogno che echeggia nella brezza marina dell’alba, è un inno alla ricerca di sé, perché l’Isola, si intuisce subito, siamo noi stessi. La storia si muove sulle gambe di due protagonisti: un uomo che vuole una barca, e una donna delle pulizie che passa per la “porta delle decisioni”, che “viene usata di rado, ma quando viene usata, lo è per davvero”.
L’uomo chiede una barca al re per andare alla ricerca di un’isola sconosciuta, il re lo prende per pazzo perché di “isole sconosciute non ce ne sono più, ma l’uomo non si scoraggia. Alla fine, il re che non vede l’ora di tornare alla sua “porta degli ossequi”, si decide a dare la barca all’uomo. Arrivato al molo, scopre che la donna delle pulizie che lavorava per il re, lo aveva seguito per mettersi con lui in mare, costi quel che costi. Diventa chiaro da subito che è la donna il personaggio positivo del racconto, proprio come in “Cecità” ed in altri romanzi dello stesso autore, è lei infatti a spronare l’uomo a mettersi in viaggio nonostante le difficoltà perché non ci si può “perdere d’animo alla prima contrarietà”.
Il viaggio alla scoperta dell’isola, e dunque di sé stessi, è un viaggio inesauribile, bisogna essere pronti a tutto con la nostra caravella, il mare non è sempre calmo, spesso è “tenebroso”, ma proprio allora si diventa veri navigatori, perché non c’è miglior insegnante del mare stesso. Dalla riflessione dei due sul senso dell’Isola e dell’Essere, scaturiscono meravigliosi versi che narrano di Noi e che ci invitano a continuare il viaggio, o a salpare, di nuovo e sempre: “Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi.”
La meravigliosa “favola” di Saramago, però, non avrebbe potuto avere luogo senza il rapporto tra i due: un rapporto di desiderio reciproco, rispetto e riconoscimento dell’identità dell’altro. Sebbene la ricerca dell’isola sia personale e per tutti diversa, essa non potrebbe avere luogo senza il rapporto con gli altri, proprio come scrisse il poeta inglese John Donne (1572-1631): “No man is an island entire of itself”, nessun uomo- essere umano- è un’isola, siamo tutti parte di un insieme più grande, di un mondo unico, un universo, verrebbe da dire, di cui facciamo parte e nel quale nessuno potrebbe essere completamente senza l’altro, senza il rapporto, appunto.
Che possiate, dunque, più che trovare l’isola, avere il cuore di salpare, mollare gli ormeggi, di mettervi in viaggio e di ricostruire la caravella tutte le volte che vi sarà necessario, di rinnovarla e abbellirla, di invitarvi altri viaggiatori e di navigare a lungo con i sogni nelle vele.
“L’uomo e la donna andarono a dipingere sulla prua dell’imbarcazione, da un lato e dall’altro, a lettere bianche, il nome che ancora bisognava dare alla caravella. […] L’isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca di se stessa.”
Buon viaggio.
articolo di Martina Benigni
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.