365 giorni, Libroarbitrio

“Il racconto dell’Isola sconosciuta” José Saramago – la nostra infinita ricerca – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Ogni libreria è un mondo a sé: c’è chi ama ordinare i libri per genere, chi per autore, chi per copertina e chi per niente. I libri, per me, sono sempre stati, e sono, una sorta di calamita, o, forse, una bussola, con la quale orientarmi e perdermi infinite volte. Se vi mostrassi la mia libreria, perennemente in costruzione, notereste subito la presenza di un signore silenzioso, con gli occhiali spessi e le parole giuste sempre a portata di mano. I suoi libri, a mio dire, non sono per nulla semplici, eppure c’è una forza, una profondità luminosa, capace di tenerti incollato alle pagine sino a notte fonda.

José Saramago (1922-2010) è uno di quegli scrittori che tutti dovremmo leggere almeno una volta nella vita: non importa quale libro scegliate, vi troverete sempre grandi verità, anzi, grandi dubbi e spunti di ricerca, soprattutto interiore. Chi conosce l’autore, sa quanto fitte siano le sue pagine: la punteggiatura segue regole proprie, i periodi sono lunghissimi, e spesso, si arriva al punto senza fiato, boccheggiando. I dialoghi devono essere intuiti, non c’è alcuna virgoletta a segnalarne l’inizio, una foresta di virgole che si fondono le une sulle altre, fino al punto e al nuovo capitolo, spesso privo di nome. Tutto ciò richiede un certo coraggio, non solo per via della forma non sempre scorrevole, ma anche per le tematiche universali che l’autore tratta con la dolcezza, e la crudezza, del poeta, quale fu. Richiede quel coraggio che lo stesso Saramago metteva in ogni singola parola, in quel suo portoghese che, come pochi prima di lui, ha saputo riscoprire e rivoluzionare.

Lo scaffale dedicato a Saramago sta lentamente crescendo, unendosi a libri di scrittori di altri paesi ed altre epoche, che mi piace immaginare si parlino muti nella lingua dell’inchiostro. Ad ingrandire le fila di questo scaffale, qualche tempo fa, è arrivato un libricino di circa quaranta pagine, ma di grande significato: quasi una sintesi di un pensiero che si lascia sfuggire a qualsiasi semplificazione, ed infatti Saramago non semplifica mai.

“Il racconto dell’isola sconosciuta” (1997) è una favola moderna, un sogno che echeggia nella brezza marina dell’alba, è un inno alla ricerca di sé, perché l’Isola, si intuisce subito, siamo noi stessi. La storia si muove sulle gambe di due protagonisti: un uomo che vuole una barca, e una donna delle pulizie che passa per la “porta delle decisioni”, che “viene usata di rado, ma quando viene usata, lo è per davvero”.
L’uomo chiede una barca al re per andare alla ricerca di un’isola sconosciuta, il re lo prende per pazzo perché di “isole sconosciute non ce ne sono più, ma l’uomo non si scoraggia. Alla fine, il re che non vede l’ora di tornare alla sua “porta degli ossequi”, si decide a dare la barca all’uomo. Arrivato al molo, scopre che la donna delle pulizie che lavorava per il re, lo aveva seguito per mettersi con lui in mare, costi quel che costi. Diventa chiaro da subito che è la donna il personaggio positivo del racconto, proprio come in “Cecità” ed in altri romanzi dello stesso autore, è lei infatti a spronare l’uomo a mettersi in viaggio nonostante le difficoltà perché non ci si può “perdere d’animo alla prima contrarietà”.


Il viaggio alla scoperta dell’isola, e dunque di sé stessi, è un viaggio inesauribile, bisogna essere pronti a tutto con la nostra caravella, il mare non è sempre calmo, spesso è “tenebroso”, ma proprio allora si diventa veri navigatori, perché non c’è miglior insegnante del mare stesso. Dalla riflessione dei due sul senso dell’Isola e dell’Essere, scaturiscono meravigliosi versi che narrano di Noi e che ci invitano a continuare il viaggio, o a salpare, di nuovo e sempre: “Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi.”

La meravigliosa “favola” di Saramago, però, non avrebbe potuto avere luogo senza il rapporto tra i due: un rapporto di desiderio reciproco, rispetto e riconoscimento dell’identità dell’altro. Sebbene la ricerca dell’isola sia personale e per tutti diversa, essa non potrebbe avere luogo senza il rapporto con gli altri, proprio come scrisse il poeta inglese John Donne (1572-1631):  “No man is an island entire of itself”, nessun uomo- essere umano- è un’isola, siamo tutti parte di un insieme più grande, di un mondo unico, un universo, verrebbe da dire, di cui facciamo parte e nel quale nessuno potrebbe essere completamente senza l’altro, senza il rapporto, appunto.

Che possiate, dunque, più che trovare l’isola, avere il cuore di salpare, mollare gli ormeggi, di mettervi in viaggio e di ricostruire la caravella tutte le volte che vi sarà necessario, di rinnovarla e abbellirla, di invitarvi altri viaggiatori e di navigare a lungo con i sogni nelle vele.

“L’uomo e la donna andarono a dipingere sulla prua dell’imbarcazione, da un lato e dall’altro, a lettere bianche, il nome che ancora bisognava dare alla caravella. […] L’isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca di se stessa.”

Buon viaggio.

articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

“L’estasi” John Donne (nei dintorni del 1621)

Daria EndresenDaria Endresen

Là dove, come un guanciale su un letto,
una pregna sponda s’ingrossava a offrir riposo
al capo reclinato della viola,
sedevamo noi due, l’uno dell’altra il prediletto.

Le nostre mani erano fermamente cementate
da un balsamo tenace che di lì sgorgava;
i raggi dei nostri occhi s’intrecciavano e infilavano
i nostri occhi su una doppia stringa;

inter innestare così le nostre mani era,
fino a quel punto, il solo mezzo per far di noi uno,
e generare ritratti nei nostri occhi
era tutta la nostra procreazione.

Come fra due eserciti uguali il Fato
sospende una vittoria incerta,
le nostre anime ( che per crescere di stato
erano scese in campo) stavano tra lei e me indecise.

E mentre le nostre anime erano lì a negoziare,
noi giacevamo come statue sepolcrali;
il giorno intero restammo nelle stesse pose,
e nulla noi dicemmo, per il giorno intero.

Se qualcuno, tanto raffinato dall’amore
da intendere il linguaggio delle anime,
e reso tutto spirito dal buon amore,
si fosse trovato ad una distanza giusta,

(pur non sapendo quale anima parlasse,
poiché entrambe intendevano e parlavano lo stesso),
avrebbe di lì tratto una nuova sublimazione,
ripartendo assai più puro di quando era venuto.

Questa Estasi toglie ogni perplessità
(dicevamo) e ci dice cosa noi amiamo,
vediamo grazie a essa che non era il sesso,
vediamo che non vedemmo cosa ci mosse:

ma, come tutte le singole anime contengono
mescolanza di cose, e non sanno quali,
l’amore queste anime mischiate mischia ancora,
e fa di due una, ognuna questa e quella.

Trapianta una singola viola,
e la forza, il colore, e la dimensione
( che eran tutte, prima, misere e stente)
si raddoppiano e si moltiplicano.

Quando l’amore l’una con l’altra così
interanima due anime,
l’anima più capace che ne fluisce
padroneggia i difetti della solitudine.

Allora noi, che siamo questa nuova anima,
sappiamo di cosa siamo composti e fatti,
poiché gli atomi da cui ci formiamo
sono anime, che nessun mutamento invade.

Ma, ahimè, così a lungo, così a distanza,
perché dei nostri corpi facciamo a meno?
Essi sono nostri, seppur non noi; noi siamo
le intelligenze, essi le sfere.

Dobbiamo ringraziarli, poiché essi così
condussero noi a noi dapprima,
e ci cedettero la forza dei loro sensi,
né scorie sono per noi, ma lega.

Sull’uomo l’influsso del cielo non agisce
se prima non impronta l’aria;
così l’anima nell’anima può fluire,
sebbene al corpo dapprima ricorra.

Come il nostro sangue travaglia a generare
spiriti, quanto più può alle anime affini,
poiché ci voglion tali dita per annodare
quel nodo sottile che ci fa uomini:

così devono le anime dei puri amanti discendere
a passioni e a facoltà
che i sensi possano raggiungere e apprendere,
altrimenti un grande Principe giace in prigione.

Ai nostri corpi vogliamoci allora, affinché
i deboli uomini possano guardare all’amore rivelato;
i misteri dell’amore crescono nelle anime,
e tuttavia il corpo è il suo libro.

E se chi ama, che sia come noi,
ha udito questo dialogo di uno,
ci osservi ancora, e vedrà
scarso mutamento quando ai copri noi saremo andati.

365 giorni, Libroarbitrio

Robert Browning poesia ed incontri

Roma 25 luglio 2013

Si, la vedrò fra cinque giorni

e una notte, ma le notti sono brevi,

due lunghe ore ancora ed è mattina. (…)

O riccioli raccolti, datemi calore

e profumo, come un tempo

i trepidi capelli donavano luci e ombre,

in guizzi di magiche faville!

Allora tra  i ricci frugavano con le mani

in cerca  del calore  e del profumo,

tra luci e ombre infinite,

l’ombra ispirata, la luce tenue

come nell’arte primitiva l’oro brunito.

Che grande paura, se mi dicono: “Tre giorni

possono cambiare il mondo e anche

la tua fortuna; se la gioia tarda,

rallegrati, ché non ti capita di peggio!”

Che piccola paura, se un altro dice:

“Tre  e una notte breve ancora

forse non gettan ombre sui tuoi passi,

ma gli anni cambiano imprevedibilmente,

con sfide difficili e nascoste ragioni”.

Non ho paura! E se mi prende,

in un istante svanisce sconfitta.

Paura?No, la vedrò fra tre giorni

e una notte, ma ora le notti son brevi

appena due ore ed è già mattina.

Nato a Londra nel 1812, Robert Browning, si fomò soprattutto nella ricca biblioteca del padre.

Nel 1846 si sposò in segreto  e fuggì in Italia con la poetessa Elizabeth Barrett.

In Italia i due ebbero un figlio e condussero una vita serena, reciprocamente sostenuti da amore e stima.

La sua produzione è molto ricca  e comprende  poemetti, componimenti lirico-drammatici, le raccolte Uomini e donne e Dramatis personae, il romanzo in versi L’anello e il libro.

Per la sua concezione idealistica  e l’interesse per la psicologia dei personaggi fu autore lontano dai modelli romantici e vicino alla poesia metafisica di John Donne.

L’incontro tra Elizabeth e Robert

Trascorsero aprile e i primi venti giorni di maggio. e poi, il 21 di maggio, Madamigella Barrett si scrutò attentamente allo specchio; con arte squisita si adornò dei suoi scialli indiani; disse alla Wilson di accostar la poltrona, ma non troppo; diede un tocco a questo , a quest’altro e a quest’altro ancora; e si levò a sedere eretta fra i cuscini. Flush le si accucciò ai piedi zitto zitto. soli, insieme attesero. (…) Erano le due e mezzo; e mentre l’eco dei rintocchi moriva, un colpo rimbombò ardito  alla porta di casa. Madamigella Barrett impallidì; ma non mosse un dito. Anche Flush rimaneva immobile. Su per le scale salivano  i paventati, gli spietati passi; su per le scale Flush lo sapeva, saliva l’incappucciata  e sinistra figura di mezzanotte, l’uomo intabarrato. Ora la sua mano era sulla porta. La maniglia si abbassò. ed eccola là. “Il signor Browning” disse la Wilson. Flush, che non perdeva d’occhio Madamigella Barrett, vide il colore rifluire alle guance; vide gli occhi suoi illuminarsi e le sue labbra schiudersi. “Signor Browning!” ella esclamò.

Virginia Wolf, Flush, biografia di un cane, La Tartaruga 1992

A domani

LL

365 giorni, Libroarbitrio

La poesia di John Donne

Roma 24 marzo 2013

Con la passione e l’espressività, Donne, è riuscito a creare una poesia fitta di storie, ritmi, intrecci, sorprese, di immagini attinte dalla religione, dalla filosofia, dalla vita quotidiana, dalla scienza, per cogliere una verità inaspettata, per cercare somiglianze in cose diverse e raccontare da nuovi punti di vista temi eterni: amore sacro e profano, morte, passato e futuro, dolore e gioia.

Una poesia definita “metafisica” in senso denigratorio da Samuel Johnson -1777- e poi definitamente rivalutata nel Novecento.

Il genio di John Donne si manifestò in splendide poesie d’amore, in epistole, satire elegie, grandiosi sermoni. Nato a Londra in una famiglia cattolica nel 1572, nel trattato Pseudo-Martyr, dedicato al re Giacomo I nel 1610, scrisse:

” Vengo da una stirpe e un lignaggio tali che, credo, nessuna famiglia più della mia ha patito e sofferto nelle persone e nei beni per aver ubbidito  ai Maestri della Dottrina Romana”.

Donne crebbe in un ambiente colto, studiò ad Oxford e a Cambridge, ma, in quanto cattolico, non poté conseguire un diploma.  Per ottenere un titolo di studio, infatti, era necessario giurare fedeltà alla regina, capo della Chiesa inglese. Intraprese poi studi giuridici. Scriveva versi, e secondo testimonianze dell’epoca, era un “grande visitatore di Signore” e ” frequentatore” di teatri, dove venivano rappresentate anche le opere di Shakespeare. Desideroso di esperienze si recò all’estero e prese parte alle spedizioni navali del conte Essex contro Cadice e di Sir Raleigh verso le Azzorre. Nel 1598 divenne segretario di un alto funzionario, Sir Thomas Egerton, e ottenne un posto in Parlamento. Nel 1601 sposa segretamente Ann More, nipote sedicenne di Sir Egerton e figlia di un noto rappresentate della Camera dei Comuni, quando la notizia fu pubblica il poeta fu chiuso in carcere perdendo il lavoro. Negli anni successivo affiancato da amici e parenti andò all’estero dedicandosi agli studio. In questi anni difficili scrisse un trattato sul suicidio il Biathanatos. Successivamente si riavvicinò alla corte ed approfondì i suoi studi di greco, ebraico e teologia.

L’opera Pseudo-Martyr ufficializzò il suo sostegno alla fede anglicana e segnò l’inizio di un profondo cambiamento.

Dietro richiesta del re , nel 1615 prese i voti, e fu nominato cappellano, ottenne una laurea in honorem in teologia all’Università di Cambridge. Nel 1617 la moglie Ann muore durante il suo dodicesimo parto. Donne continuò l’attività di culto in vita solitaria prendendosi cura dei figli.

Nel 1631, gravemente malato, pronuncia il suo ultimo sermone, Death’s Duell, davanti alla corte. Muore il 31 marzo dello stesso anno.

Le sue poesie furono pubblicate due anni dopo la sua morte.

A domani

LL

 

Testo di lettura:
Poesia, Vita di poeti, Fondazione Poesia Onlus