E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in un sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto,
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.
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Giovanni Pascoli “L’aquilone”
Roma 26 marzo 2014
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:
un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese…
sì, gli aquiloni! E’ questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.
S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù… Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata…
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
sull’omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l’orazioni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento,
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi petali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto…
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co’ bei capelli a onda
tua madre…adagio, per non farti male.
A domani
Lié Larousse
Lavandare di Giovanni Pascoli
Roma 8 settembre 2013
Lavandare
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggiero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
tratto da Myricae di Giovanni Pascoli
A domani
LL
Giovanni Pascoli e il suo approccio fantastico con la realtà
Roma 7 settembre 2013
Giovanni Pascoli nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna, paese in cui trascorse l’infanzia.
All’età di sette anni entrò con due fratelli nel collegio dei Padri Scolopi di Urbino.
cinque anni dopo perdette il padre, assassinato da sicari rimasti ignoti, e nell’arco di pochi anni morirono anche la madre, la sorella maggiore e due fratelli.
Questi eventi tragici segnarono profondamente la sua sensibilità e furono presenti, in modo ossessivo, in tutta la sua produzione poetica.
Ottenuta la maturità liceale a Cesena, si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia a Bologna, dove ebbe come professore Giosuè Carducci.
Nel periodo universitario maturarono le sue idee politiche: conobbe Andrea Costa, fondatore del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, e con lui militò nell’Internazionale socialista, collaborò al giornale rivoluzionario “Il Martello”, finì in prigione per aver partecipato a una manifestazione di protesta a sostegno di un anarchico.
Nel 1882 si laureò in letteratura greca, con una tesi sul poeta Alceo, e iniziò l’attività di docente prima nei licei di Matera, Massa, Livorno e poi presso le università di Messina, Pisa e Bologna.
Visse gli ultimi anni della sua vita con la sorella Maria, a Castelvecchio in provincia di Lucca.
Come emerge dal testo in prosa Il fanciullino, per Pascoli la poesia è la disposizione infantile a stupirsi, la capacità di intuire le emozioni e i sentimenti riposti nelle pieghe più intime dell’io, di cantare il mistero delle piccole cose, di inventare un approccio fantastico con la realtà.
L’opera in versi del poeta comprende le raccolte Myricae, sulla pace della vita agreste, Primi poemetti, su momenti, fasi, aspetti della vita contadina, Canti di Castelvecchio, sull’autobiografismo più inquieto, Poemi conviviali, sui suoi rapporti con la classicità, Odi e inni su temi politici, sociali e civili.
A domani
LL
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