365 giorni, Libroarbitrio

da .la vita comunque. di Lié Larousse

Lié Larousse per Linda de Luca

.non ricordo sai
di aver sentito dire mai
dalla voce di mia nonna
di cercare la felicità
o discutere e dubitare
sull’esistenza dell’amore,
l’amore è in ogni gesto fatto
per sé e per gli altri
nella vita di tutti i giorni,
la felicità è la costanza
nella quotidianità del viverlo.

da .la vita comunque. di Lié Larousse
#lavitacomunque

365 giorni, Libroarbitrio

Ribelle – Emanuel Carnevali

Edmund Dulac, She kissed the reindeer on the nose

Tutto è più breve di qualcos’altro:
tutto è più uguale a Dio di qualcos’altro.

C’è competizione nel caos,
una cosa molto stupida.

Sono dubbioso come un ramo di salice
che curvo ammicca all’acqua.

Ammiro il diavolo perché lascia le cose incompiute.
Ammiro Dio perché tutte le completa.

***

Io so che per avere dormito a lungo
i morti hanno ripreso forza.
In giorni come questi
spalancano a calci le loro tombe
e ne balzano fuori con eleganza.

Sussurrano orribili segreti
l’uno all’altro e a me.
Portano i loro sudari e
li scuotono animosamente.

O Divinità del terrore e della malinconia
vienimi in aiuto!
Ho ancora baci sfioriti per te,
baci che non voglio buttare via perché sono molto povero,
distaccami dai miei ricordi.

Essi mi inquietano tanto che il sonno sussulta e fugge,
sussulta e fugge.

365 giorni, Libroarbitrio

“Cavaliere sul ponte” Marina I. Cvetaeva

Anna Madia L isola di Kalyptein 2012

27 settembre 1923

Oh, troverò in esso
pace dalle labbra e dalle mani?!

Non ci stancheremo
noi – finché esiste passione! –
coi ponti di vendicarci.

Sia dolcezza o tristezza
in esso, tu meglio vedi,
– Cavaliere che custodisci
il fiume – dei giorni.

 

365 giorni, Libroarbitrio

“Orchestre per lacrime” di Enrico Marra

Due mondi

Ci sono giorni,
apparentemente strani,
iniziano con occhi umidi
e incastri di note struggenti,
come orchestre per farti piangere.
Sinfonie e colori gocciolanti di ricordi,
passeggiano come melodie in Re minore
nella tua memoria come involucri di plastica.
Io porto un caos tascabile nella mia borsa,
fingo di essere un pirata caduto nel mare,
uno capace di galleggiare sui significati;
sono giorni rari per navigare nel vento.
Iniziano… con punti di sospensione,
insinuandosi nella vita che passa.
Ci sono giorni rari che iniziano
come piccoli aerei in picchiata
legati alla punta delle mie dita,
ed è solo sul punto di decollare
che ricordo; le zavorre legate:
ai miei piedi che affondano.

365 giorni, Libroarbitrio

“Il dio vicino” Rabindranath Tagore

donna che osserva il mare

Non finirò mai di cercarTi
sino al mattino in cui rinascerò.
Entrerò in una nuova vita,
una nuova visione apparirà al mio sguardo,
nuovo diventerò a quella nuova luce,
mi legherò a Te in una nuova unione.
Non finirò mai di cercarTi.

Tu non hai confini, non hai confini
perciò il tuo gioco è sempre nuovo.
E io non so con quale veste
sorridente, o Signore, aspetterai sulla strada;
venendo vicino prendi questa mia mano,
e vibrerà nell’aria un nuovo fremito di vita.
Non finirò mai di cercarTi.

Sempre con nuova visione entrami nel cuore.
Vieni con la dolcezza di un profumo, vieni nel canto,
vieni con una carezza inebriante nella membra,
vieni esternamente gioioso nello spirito,
vieni negli occhi lacrimanti di stupore.
Sempre con una nuova visione entrami nel cuore.

Vieni puro, splendente, amoroso,
vieni bello, gioioso, sereno,
vieni in tante diverse forme.
Vieni  nel petto nella gioia e nel dolore,
sempre. Tu sia in ogni azione,
al termine di ogni opera tu sia.
Sempre con una nuova visione entrami nel cuore.

365 giorni, Libroarbitrio

Bosco del tempo di Giancarlo Pontiggia

Roma 27 gennaio 2014

Giancarlo Pontiggia

Alle celle, scure, dei monaci
a volte pensavo, come a un luogo
di pace, salvifico. Ignaro
ero del mondo, e delle sue
rose sanguinanti. Ai bui
corridoi, nei giorni
d’autunno sconsolati e rugginosi,
guardavo, in azzurra
attesa. Il tempo, allora,
era come un vento fermo, una
clessidra sospesa.

Da Bosco del tempo, Guanda, 2005

A domani
Lié Larousse

365 giorni, Libroarbitrio

Derrière le faisceau sombre L.L

Roma 2 gennaio 2014

Altalena

Giorni. Probabilmente mesi. Anni. Sì. Sicuramente anni ho passato rincorrendo il volto della gente nel loro via vai sui marciapiedi. Incespicando col respiro, strattonando caviglie e ginocchia ho corso dalla biblioteca comunale priva di libri al campo verde da gioco assente di bambini ostinandomi di vedere, di strappare e tenere per me una parvenza umana labile.
Labile. Labile come il mio immaginario d’essere. Labile come la figura di un ragazzo, giovane uomo, nel momento ideale del suo vivere, in quel frangente quando il sole volta il suo sguardo imporporandogli le gote, l’iride, il naso, il mento, il petto sotto il disegno in bianco e nero della t-shirt, e in me sboccia, seppur per pochi ticchettii d’orologio, il puro fiore, frutto spontaneo neonato dell’ incolto prato, intarsiato con lama d’acciaio, innocente amore. Inquieto giovane uomo pervaso di un animo irrequieto.
Irrequieta. L’osservo delicato intreccio d’ossa e carne, sorrido e serro le mie labbra trattenendo quell’unica figura nei miei occhi, palpandolo socratico in una stretta avida da poterlo frantumare se solo io lo stringessi di più, più forte. E  nelle catene intrecciate di una qui apparsa altalena mi specchio efebica bellezza, demone che sprigiona una melodia lenta e spigolosa, il male, la sua malattia, io la sua insana portatrice, e lui.
Lui. Lui acqua della sete. Un sorso dalle sue labbra per salvarmi dall’annaspare e fermare il tempo in un tocco di pelle. Ma chi scorda? Ma chi dimentica veramente?
La memoria è la padrona di alcune fragili menti. E’ anch’essa acqua, ma di quella che non si necessità mai, tuttavia lei ti abbevera lo stesso, e io annego dal troppo berla. E allora ricordo quanto del mio vivere sia stato già sperperato, imbrattata banconota, insozzata dal passaggio di mani e nasi sudici. E’ stato preso, suddiviso, sezionato, regalato, gettato, derubato. Abbattuto. Nere lacerazioni. Ciò che fu versato era sangue non acqua. Era sangue non acqua. – Ehi tu! lo vedi questo è sangue non acqua!-.C’è gente che conosce l’amore. Quella strana gente lo sa riconoscere. – Al primo sguardo, un colpo di fulmine è stato amica mia! – . – L’ho riconosciuto tra mille!-. Allora è cosa semplice. Non c’è bisogno di combattere contro  il nostro io che scalpita per amare, per innamorarsi, lascio che sia semplice, seppur solo per questa mezza giornata, giusto il tempo di dondolarmi su questa altalena, magari per un giorno intero, se il piacere che mi reca è così provocatoriamente intenso allora facciamo due giorni. Se questo giovane uomo è riuscito a squarciare il cuore mio in una voragine con la sola presenza, ora, adesso, in quest’attimo di cielo e raggi di sole perfetti, donandomi l’amore mai provato senza ch’egli se ne sia nemmeno accorto, di quell’amore che neanche le braccia materne sono state capaci di trasmettere, allora posso essere la madre di me stessa. Amandoti posso prendermi cura di me. Dimostrare che potrei anche farcela ad essere io stessa madre. Si voglio essere madre, voglio essere mia madre, madre amore, di quello delle pubblicità degli anni cinquanta, e indossare il gonnellino a cerchio corto sulle cosce con le mille pieghe di tulle e il grembiule lindo attorno la vita, la torta profumata adagiata su un delicato piatto croccante di detersivo, un sorriso smagliante, ginocchia ben salde e caviglie a punta.
Perfetto.
Semplicemente perfetto.
Eccolo il miracolo dell’amore cosa fa! Trasforma. Rinasci. M
agia.
Bibbidi bobbidi bu!
Opero me per una ligia guarigione, ho stoffa e forbice tra le mani.
Ho stoffa e forbice tra le mani, ma non so cucire. E mi ritrovo a rimboccare il letto in una stanza ammoniacata d’ospedale, ingurgito pasticche per la mia sana salvezza, sorpasso il ciglio di ogni porta, e con il camice bianco balsamo tossici con il loro stesso veleno così presto torneranno in forma. Ed io con loro. E vivremo tutti felici e contenti punto
Basta. Ora basta. Il confine è andato. Sono stremata, offesa, umiliata. Basta. Confusa, scompigliata, disordinata. Basta- Anche i miei capelli hanno cambiato colore e forma. Sono gretti, raccolti in ciocche come stick. Stick per cani. Dodici Stick per cani. Dodici stick per cani resi tali dall’uncinetto. Uncinetto. Un piccolo arnese, una ferraglia, che innesta filo  per filo, annoda, arruffa, strappa ed innesta ancora filo per filo. I miei capelli sono  rami d’albero, con essi disegno un veliero che getto in questa pozzanghera, qui sotto i miei occhi, ai piedi di questa altalena, astratta e profonda pozzanghera come mare. E io sono una nave in balia delle onde, con botti di vino acido nel ventre e nelle cervella, e sono obbligata ad ascoltare il loro scontrarsi quando il vento stropiccia anime soffiandole via, e loro rotolano rotolano rotolano.
Sono carcassa di legno marcio e putrescente, e se non farà attenzione, questo giovane uomo,  a non avvicinarsi troppo a questa altalena lo diverrà  anch’esso. – Allontanati!-. Ma lui non ode la mia voce, perché muta irragionevole è la mia vita, e imperterrito s’avvicina alla seduta mia affianco, c’è un posto libero. – Non salire. Fuggi. Scappa. Non ci salire. Quest’altalena è maledetta, chi ci sale non scende più!-.
Guardami giovane uomo, mi vedi, io sono la paranoia che ha costruito queste catene, la psicosi che le ha giunte una ad una in esse e ha creato questa corda di metallo. Io sono il mostro che scalfirà le tue speranze e ti trascinerò in me. Ti sei palesato in questo parco privo di gente, e mio eroe ti ho trasformato , mentre nessuno si accingeva a mostrarsi, ma ora che rinsavisco t’imploro che devi andartene, mi senti. – Salvati. Vattene!-.
Pertanto hai le caviglie già sporche di sangue e sabbia. Nel tempo in cui il vento ti spinge alto ti doni l’illusione di poter toccare il tuo cielo, seduto su questa altalena, tu con il volto marchiato di luce. Nel tempo in cui ritorni alla terra sfiorando con la punta delle  dita piccole dei piedi trascinato indietro, con un colpo delle reni ti ridai lo slancio per tornare a sfiorarti. Ma Dio ti colpisce. Ti colpisce forte e tu resti a mezz’aria. Per sempre. In un limbo di cui io sono il necroforo che assiste, e la tua mente come la tua pelle inizia a sbiadire, vorrei tu non fossi così fragile da perderti nel dolore. Vorrei io non essere così fragile da perdermi nel dolore. E vedo le sofferenze tue Bambino tatuarsi sul tuo volto, giovane uomo, e capisco perché sei arrivato fin qui, perché non avevi scelta, e sei salito su questa altalena. Ed appena tutto comprendo, ogni cosa capisco, tu cessi d’esistere.
E io sono di nuovo sola. In questo verde parco giochi senza bambini con cui giocare, in biblioteca senza libri da leggere. Ma vedo tutto.
Vedo tutto. Vedo tutti loro assopirsi, in punto di morte mormorare colpevoli il mio nome che ho voluto cancellare, sfregando ogni lettera contro il palato in un ultimo sospiro velenoso. E il mio di respiro si dimena. E i loro aliti ingurgito, assaporandone ogni fragranza, una macchia di vernice acida si espande nel mio petto, pesce crudo, alcool dolciastro, carne livida, caramella alla fragola, acqua stantia in vasi da fiore, lo scotto del sesso, dilanio del suo desiderarlo. Desiderio.
E nonostante tutto desidero sempre. Desiderio della loro morte che assaporo avida. Desiderio della mia morte che bramo, studio, pianifico ogni giorno. Perché nonostante tutto ambisco al piacere maledetta me. Nulla di personale. Nessuna battaglia da combattere. E’ proprio per il suo contrario.
Al contrario. Al contrario dondolo, a volte m’illudo di poterlo accarezzare il cielo, torno al punto di partenza, sfioro con la punta delle dita piccole dei piedi da Bambina la terra, il punto di ritorno, mi slancio indietro con un colpo delle reni. Mi colpisco. E il sapore della morte sul mio respiro è così dolce, sa di pane appena sfornato, burro e miele caldi, e in questa passione mi avviluppo, mi stringo forte attorno a questo metallo di corda e prego per la mia trasformazione, per la magia che tu Dio ti prego devi far avverare, prima che puoi, prima ch’io m’accorga della tua vana esistenza, perché se io ti vedessi qui dinnanzi a me non ti crederei di certo, ma non ti vedo e quindi ti prego incessantemente.

Et quand nous étions enfants,
nous étions toujours en train de rire et couriret
la beauté de cette histoire sans tête ou quoi
mais qui se soucie de toute cette merde!
Et ce n’est pas un mot francais!

Lié Larousse

 

365 giorni, Libroarbitrio

Walt Whitman : Cinema e poesia “L’attimo fuggente”

Roma 31 luglio 2013

Walt Whitman poeta

Nel 1989 il regista australiano Peter Weir girò il film  Dead Poets Society, titolato in italiano L’attimo fuggente, sulla figura di un professore innamorato della poesia e in particolare di Walt Whitman.
Nelle sequenze che proponevano le appassionate lezioni di poesia dell’insegnante ai suoi studenti, erano citati alcuni vibranti  versi del poeta americano. Il più famoso e fortunato tra essi, anche per il valore  simbolico assunto nella vicenda del film, è senza dubbio:

O Capitano! Mio Capitano! Il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha rotto tutte le tempeste: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
La nave severa ed ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Traduzione di Antonio Agresti 1913

Poeta dell’America e del sogno americano, Walt Whitman nacque a Long Island, New York, nel 1819.

Lasciò gli studi appena undicenne e, spinto dalla voglia di libertà  e sperimentazione che tanto influenzò la sua lirica, cambiò spesso mestiere: fu tipografo, insegnante, giornalista e carpentiere.

Nel 1841  diventò direttore del “Daily Eagle” di Brooklyn e iniziò a pubblicare i primi versi, ma, divergenze politiche in seno alla redazione del giornale lo spinsero ad abbandonare quel lavoro, per intraprendere l’attività di carpentiere svolta dal padre.

Ma la passione per la letteratura  rimase in lui vive a tal punto che nel 1855 riuscì a pubblicare a sue spese parte  di quei taccuini di note che da anni andava scrivendo.

Nacque così la prima edizione di Foglie d’erba, un libro di poesie in 12 canti, con un linguaggio ardito, contenuti nuovi rispetto alla tradizione, metafore sessuali, moduli espressivi rivoluzionari ne fecero un libro difficile  e poco comprensibile per gran parte della società americana del tempo, ma che Whitman non cessò  di arricchire di anno  in anno con nuovi componimenti.

Solo negli anni seguenti la poesia di Whitman fu veramente capita ed apprezzata “una poesia che aiuta a manifestarsi nel suo splendore  e nella sua sofferenza  redentrice, una poesia piena(…), capace di cogliere i ritmi delle stelle, i sussulti della carne, i mormorii dell’erba, il Potente spettacolo dell’universo…” 

Nel 1872 prese parte alla guerra di Secessione americana,dedicandosi come infermieri all’assistenza dei feriti.

In Giorni rappresentativi raccolse i ricordi di tale esperienza.

Considerato il maggiore poeta dell’Ottocento americano, Wolt Whitman fu l’appassionato cantore degli ideali di libertà  e democrazia  di un paese in cui era vivo lo spirito  pionieristico  e il mito della frontiera.

Svolse impieghi governativi fino al 1865, quando fu  costretto a ritirarsi per una paralisi.

Morì a Camden, nello Stato del New Jersey, nel 1892.

Not words of routine this song of mine

Walt Whitman

A domani

LL