365 giorni, Libroarbitrio

Gabriel Garcia Marquez : il romanzo fantastico

Roma 12 novembre 2013

Gabriel Garcia Marquez

Nato ad Aracataca, in Columbia, nel 1928, Gabriel a dodici anni si trasferì a Bogotà per studiare presso i Gesuiti.

Abbandonati più tardi gli studi universitari di giurisprudenza, lavorò come cronista in un giornale, pubblicando anche i primi racconti.

Inviato dal giornale come corrispondente in Europa, soggiornò prima a Roma e poi a Parigi.

Nel 1955 pubblicò il primo romanzo, Foglie morte.

Tornato in America Latina, dopo un breve soggiorno in Colombia, accettò di lavorare per l’agenzia giornalistica cubana “Prensa Latina”, all’Avana, dopo la rivoluzione guidata da Fidel Castro.

A partire dal 1961 Marquez si è dedicato definitivamente alla letteratura e ha mostrato subito la sua vena di narratore fantastico, secondo una tradizione molto radicata nell’America Latina, alternando la pubblicazione  di racconti e romanzi.

Tra questi ricordiamo Nessuno scrive al colonnello  (1961).

Del 1967 è il romanzo che gli ha dato successo in america e in Europa, Cent’anni di solitudine, la leggendaria ed epica storia della famiglia Buendia e del mitico paese  di Macondo.

I successivi romanzi hanno avuto un largo seguito di critica e pubblico, tanto da procurargli  nel 1982 il premio Nobel per la letteratura.

A domani

Lié Larousse

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Giuseppe Gioacchino Belli e la sua Roma spietata

Roma 25 maggio 2013

Nato a Roma nel 1791, Belli ha un’infanzia difficile. Rimasto presto orfano, conosce miseria e umiliazioni, ma si fa largo da solo ottenendo un impiego pubblico e segnalandosi nell’Accademia Tiberina.

Negli anni quaranta del primo Ottocento si dedica all’unico figlio, Ciro, facendolo studiare a Perugia perché non ama l’educazione romana impartita dai gesuiti. Ha gran rispetto per la moglie ma molti altri amori lo coinvolgono soprattutto coinvolgono la sua produzione letteraria: per la marchesina Vincenza Roberti dedica un canzoniere petrarchesco, ispirandogli anche piccantissimi versi in dialetto.

Dopo la morte prematura della moglie, ha un trasporto sentimentale per l’attrice Amalia Bettini, corteggiata da letterati come Stendhal, lei si appassiona ai suoi scritti esortandolo, invano, di proporli all’editoria.

Amatore del teatro, Belli, concepisce i suoi sonetti per la dizione vocale. Il secondo matrimonio gli permette economicamente maggiori svaghi, inizia così un periodo di viaggi per l’Italia e ricerche. L’unica città che lo appassiona è Milano che si presenta con i suoi intellettuali impegnati e una forte sensibilità del popolo nell’essere civile, doti che a Roma con i suoi pettegolezzi, l’essere cialtrona e spietata, certamente  mancano.

Nella capitale lombarda approfondisce i suoi studi autodidattici, legge le Poesie milanesi di Porta, si dimette dall’Accademia, commenta Dante con gli amici e fonda ” società di lettura” per aggiornarsi sulle riveste europee; legge ossessivamente i Canti di Leopardi e il romanzo di Manzoni avvicinandosi alle idee liberali.

Tra il 1830 e il 1849 il Belli compone oltre duemila sonetti romaneschi, importante documento sul dialetto romanesco, folclorico e antropologico, una poesia maestra per la forma  e la metrica vivace e caparbiamente espressiva.

Prepara testi introduttivi e note esplicative ma non riuscendo a pubblicarli li legge solo agli amici tra cui Gogol’ che ne resta entusiasta ma fortemente impressionato, tuttavia, la mole di scrittura supera i 45.000 versi, ed egli pubblica solo due piccole antologie nel 1837 e nel 1843.

In quegli stessi anni la nuova politica ecclesiastica lo spaventa a tal punto da dover affidare alcuni sonetti alla figura di monsignor Vincenzo Tizzani,che si occuperà della loro edizione antologica tra il 1865 e il 1866.

Rientrato nella sua odiata Roma sempre più depresso e solo, si dedica alla lettura dei suoi versi ai pochi amici rimasti, restando egli serissimo tra le loro risa.

Muore nel 1863.

A domani

LL

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Il romanzo latino: l’Eritreo

Roma 25 marzo 2013

Il romanzo a chiave nel Seicento era un modo per affrontare la realtà, mascherandola e smascherandola insieme, in quest’epoca di particolari successioni storiche politiche: ma il gioco delle maschere e dei labirinti, il moltiplicarsi di un personaggio in altri che lo riflettono era un atteggiamento letterario che si scindeva all’allegoria e come appena detto affamato di  situazioni e necessità politiche che poi andavano riproducendosi in abili poetiche successioni di racconti.

La lingua latina non era soltanto l’espressione di una certa cultura, dell’erudizione, della teologia e della Chiesa, ma era anche l’espressione di una forma di propaganda pubblicistica. L’uso di un linguaggio abbastanza conosciuto da essere un elemento della realtà contemporanea, ma insieme abbastanza raro e convenzionale per essere elemento di stilizzazione e di fissazione, può prestarsi opportunamente a rendere il processo allegorico del romanzo a chiave.

L’opera più letterariamente complessa ed ambiziosa dell’autore italiano Gian Vittorio Rossi è l’ Eudemia. Portato ad uno spiccato senso dell’analisi psicologica, la sua produzione si basa sullo studio dei personaggi,di ritratti di ambienti e di caratteri.

Nato a Roma nel 1577, dottore in legge nel 1596, Gian Vittorio Rossi, si dedicò per molta della sua vita allo studio e alle dotte amicizie. Col suo latino sicuro ed elegante, pieno di nostalgia umanistica veniva riflettendo sulla sua esperienza religiosa che lo portò al servizio del cardinale Andrea Perretti per diciotto anni. Janus Nicius Erythraeus così prese a farsi chiamare, riproponeva le sue riflessioni culturali e del mondo contemporaneo in lavori di scrittura, di fatti  meravigliosi e miracolosi, vere e proprie opere letterarie come la Pinacotheca, Omiliae, Documenta sacra ex evangeliis, Exempla virtutum et vitiorum, ed Epistulae. 

In continua osservazione privilegiando la  dotta satira, compone nel 1664 un romanzo latino l’Eudemia, dove il motivo di un viaggio e di un approdo in terra sconosciuta serve per una ricostruzione reale e fantastica della  Roma contemporanea, in essa l’autore avversa la moda degli scrittori contemporanei rievocando ed invocando l’antica chiarezza: egli si meraviglia che si debba espressamente cercare l’oscurità e rintracciare la vera dottrina e il vero valore nella presunta docta obscuritas.

A domani

LL

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Il teatro edificante

Roma 17 marzo 2013

Da molti testi letti si evince che il copioso teatro edificante, nonostante la ricchezza e la tenacia dell’impegno, non ha dato opere di grande valore storico letterario. Anch’esso e in particolare quello dei Gesuiti, si fondava piuttosto sui valori dello spettacolo che su quelli strettamente letterari.

Nel teatro sacro si provarono scrittori di interessi diversi da quelli teatrali, come il cardinal Sforza Pallavicino col suo Ermenegildo martire, o Emanuele Tesauro con la sua tragedia Ermegildo.

L’opera di Padre Cinquanta e le tragedie del Tesauro rimangono tra le prove più significative, l’una di un teatro drammatico volto alla realtà, l’altra di un teatro tragico e solenne, che impegna il nuovo stile in un senso religioso.

Il padre Benedetto Cinquanta,  teologo e predicatore dei Minori osservanti, ci ha lasciato una serie di drammi religiosi: Il ricco epulone del 1621, Il figliol prodigo del 1633, Il fariseo e il pubblicano del 1634, Santa Agnese del 1635. Nella Peste del 1630, pubblicata a Milano nel 1632, il Cinquanta colloca la scena nella milanese Porta Tosa; e introduce sulla scena medici, chirurghi, monatti, soldati, commissari, donne e gentil donne, due sacerdoti, un gentil’uomo milanese e un gentil’uomo bolognese. Dalla commedia il Cinquanta deriva il tono narrativo e prosastico dei versi, che tuttavia non impedisce una sostenuta meditazione.

L a meditazione morale muove continuamente da un’analisi precisa della realtà contemporanea, per la quale Egli prova un acuto interesse; come risulta dalla perplessità con cui affronta il problema degli untori, e dalla spregiudicatezza con cui esamina la situazione morale della donna in quel tempo.

A domani

LL