365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – La palla nel deserto -Stefania Paganelli

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Il capo-cammello si fermò di colpo, anche il vice capo-cammello, dietro di lui, si fermò di colpo e quindi anche il vice vice capo-cammello si fermò di colpo, tutti i cammelli incolonnati si fermarono di colpo.

“Perché si saranno fermati?” chiese il capo-carovana al vice capo-carovana, “non so” rispose il vice capo-carovana e si girò verso il vice vice capo-carovana, ma neanche lui lo sapeva.

Il capo-carovana andò davanti al capo-cammello per vedere cosa l’avesse fatto fermare e la vide…

Vide una palla marrone a pochi centimetri dal muso del capo-cammello.

“Cosa ci fa una palla nel deserto? Qui tra le dune infuocate?” si chiesero tutti.

Se c’è una palla ci deve essere un bambino, magari più di un bambino; dove c’è una palla di solito c’è anche un bambino e poi le palle non finiscono mica da sole tra le dune nel deserto.

Quindi cercarono dietro le dune, cercarono davanti alle dune, cercarono a destra e a sinistra delle dune, ma di bambini nemmeno l’ombra.

“Forse è una palla da adulti” ipotizzò il capo-carovana. Eh sì, sembrava proprio una palla da adulti, infatti non era proprio rotonda, era un po’allungata. Solo agli adulti può venire in mente di usare palle allungate, i bambini lo sanno bene che le palle devono essere rotonde.

Che ci puoi fare con una palla allungata, non rotola mica bene!

Quindi cercarono dietro le dune, cercarono davanti alle dune, cercarono a destra e a sinistra delle dune, ma di adulti nemmeno l’ombra.

“Questo è un bel dilemma” si dissero l’un l’altro, un quesito con i fiocchi, c’era da perderci la testa.

Mentre gli adulti confabulavano tra loro, i figli del capo e del vice e del vice vice capo-carovana si avvicinarono: “Papà possiamo tenerla noi questa palla?” chiesero ai loro padri.

“Non se ne parla nemmeno” risposero all’unisono i tre.

“Dobbiamo trovare il legittimo proprietario e chiedere a lui. Non vorrete mica rubarla?”

Erano un popolo fiero loro, certe cose non le facevano!

“Come facciamo a sapere chi è il proprietario?” chiesero i bambini.

“Aspettiamo. Se qualcuno l’ha persa, la starà cercando e arriverà fino a qui”.

“Rompete le file! Accampiamoci e aspettiamo”. Cosi la carovana si preparò per la notte.

Si stava alzando un forte vento e quando nel deserto si alza un forte vento…

Il capo-carovana prese la palla e la portò nella sua tenda: “non si sa mai” pensò “non è proprio rotonda, ma con questo vento forte, forse potrebbe riuscire a rotolare via anche lei”.

La mattina dopo, tutti si svegliarono presto e si prepararono per partire.

Nessuno era venuto a cercare la palla e la carovana non poteva aspettare ancora per molto.

Non volevano portarsi via la palla, così come se niente fosse e non potevano nemmeno lasciarla lì con il rischio che arrivasse ancora un vento molto forte.

Pensa tu che penso anch’io, al vice vice vice sette volte vice capo-carovana venne un’idea: “piantiamo un bastone con attaccato un cartello con scritto: “Caro proprietario della palla non preoccuparti, abbiamo preso la tua palla, ma non te la vogliamo rubare, solo proteggere dal vento. Vieni alla piccola città che sta qui vicino, a est, la troverai lì, chiedi del signor Capo Carovana!”

“Bellissima questa idea, bravo! D’ora in poi sarai vice sei volte”. E così fecero. Piantarono un cartello bello grosso e partirono.

Arrivarono alla piccola città e ognuno andò per la sua strada: un vice di qua e un vice vice di là.

Il capo-carovana avrebbe custodito la palla in attesa del proprietario.

La portò a casa sua, la pulì per bene e la mise nella sua cassaforte, poi se ne andò al mercato per certi suoi affari.

Alcuni giorni dopo, quando ormai nessuno pensava più alla palla, il vice sei volte capo-carovana, quello del cartello, se ne andava bighellonando qua e là, nel centro della cittadina. Stanco di camminare si fermò al chiosco che vendeva bibite fresche.  Salutò il proprietario e si sedette ad un tavolo con un bel bicchierone di bibita fresca. Poi prese uno dei giornali che stavano lì in bella vista e cominciò a sfogliarlo.

Un titolone bello grosso attirò la sua attenzione: “Chi ha visto la mia palla?” diceva il titolo.

“Toh! Qualcuno ha perso una palla e noi abbiamo trovato una palla, sarà mica la stessa?” si chiese.

Cominciò a leggere con attenzione l’articolo, era l’intervista ad un giocatore di rugby.

“Rugby? E che gioco è il rugby?” si chiese. Non lo sapeva e allora lo chiese al proprietario del chiosco: “scusa signor proprietario, tu sai che gioco è il rugby?”

“E’ un gioco che si gioca lassù al nord dove fa sempre freddo e piove molto”. “E’ un bel gioco?”

“Non saprei, si gioca con la palla, ma è una palla strana non è rotonda”.

Il vice sei volte fece un balzo sulla sedia. Una palla non rotonda?

Continuò a leggere l’articolo, il giocatore raccontava che qualche giorno prima stava giocando una partita importante e la squadra vincitrice avrebbe vinto una coppa importante.

Purtroppo però nessuno aveva vinto quella partita e quella coppa importante.

“Non abbiamo potuto finire la partita perché non si può finire una partita se non si ha più la palla. Prima noi la palla ce l’avevamo e anche bella, ma ora non l’abbiamo più”.

“Perché non l’avranno più?” si chiese il vice sei volte.

“Perché non l’avete più?” chiese l’intervistatore.

“Perché un giocatore l’ha lanciata così forte, ma così forte, così in alto ma così in alto, così lontano ma così lontano che… nessuno l’ha trovata più” rispose il giocatore.

“Per favore se qualcuno trova la palla, ce la può riportare? E’ importante, dobbiamo finire quella partita molto importante”.

“Per mille dune infuocate!” esclamò il vice sei volte “qui la faccenda è seria”. Si alzò all’istante

e uscì in fretta e furia, prima però chiese al padrone del chiosco se poteva prendere in prestito il giornale. “Te lo riporto appena posso, è per una faccenda molto importante”.

Corse, veloce come una gazzella, a chiamare il capo carovana e anche il vice e il vice vice. “Venite presto. Ho trovato il padrone della palla” urlò, senza più fiato in gola ai tre, sventolando il giornale.

“Aspetta, ritrova il fiato e poi ci racconti” suggerì il capo carovana. Appena il vice sei volte si calmò e ritrovò il fiato per parlare, fece vedere il giornale ai tre. Il capo carovana lesse ad alta voce l’intervista al giocatore.

“Per mille cammelli assetati! E adesso che facciamo? Dobbiamo restituire la palla al più presto o quella partita importante non finirà mai! Le cose importanti bisogna sempre finirle!” continuava ripetere il capo-carovana.

Per prima cosa decisero di tornare nel punto dove avevano trovato la palla, là nel deserto. Andarono a prendere la palla e i cammelli, sia il capo-cammello che il vice capo-cammello che il vice vice. Il sei volte vice prese il suo sei volte vice capo-cammello e tutti insieme partirono.

Vollero partire con loro anche i figli del capo carovana e di tutti i vice. Quando c’è da correre di qua e di là, magari con una palla, tutti i bambini vogliono esserci.

“Che cos’è il rugby?” chiese il vice vice mentre camminavano nel deserto “è un gioco con la palla e si gioca lassù al nord dove fa sempre freddo e piove molto” spiegò il vice sei volte, che l’aveva appena saputo dal proprietario del chiosco.

“E dov’è lassù al nord” “beh, lassù al nord è… è lontano. E’ lassù al nord, appunto”.

“Andiamoci, prepariamo la carovana e partiamo”; il vice vice la faceva facile, ma il capo carovana che la sapeva lunga, spiegò che lassù al nord era troppo lontano per andare a piedi o con il cammello e poi c’era il mare e pure qualche monte alto.

“Per far prima dovremmo prendere l’aereo”.

“Io non ci posso andare, l’aereo mi fa paura” disse il vice, “neanch’io ci posso andare, il freddo mi fa paura” disse il vice vice.

“Ci vado io” disse il vice sei volte “io non ho paura di niente”.

“E bravo il nostro vice sei volte; d’ora in poi sarai vice cinque volte” si complimentò il capo-carovana.

Intanto arrivarono al punto preciso, c’era ancora il cartello ben piantato tra la sabbia.

“A questo punto non serve più, il proprietario l’abbiamo trovato noi”.

“C’è un problema però” disse il capo carovana “non sappiamo dov’è il posto della partita importante. Il giocatore non ha scritto l’indirizzo. Dove gliela porti la palla se non sai dove portare la palla?”

Davanti a questo nuovo problema, che sembrava davvero troppo grosso, tutti gli adulti ammutolirono. Non sapevano cosa fare, avevano trovato il proprietario della palla e non sapevano dove fargliela avere.

“Potremmo cercare anche noi un giornale e scrivere: “signor proprietario della palla, la tua palla l’abbiamo noi, ma noi non sappiamo dove sei, adesso scriviamo dove siamo noi, così tu puoi venire a prendere la palla” disse il vice cinque volte.

“Ma sei proprio un genio” disse il capo carovana, d’ora in poi sarai vice quattro volte.

“E’ vero, sei proprio un genio” dissero il vice e il vice vice. Il vice propose addirittura che lui diventasse subito vice al posto suo “sono troppo vecchio per essere vice e tu sei giovane e intelligente. Prendi il mio posto” “No signor vice, stai lì tu al tuo posto io sono troppo giovane diventerò vice tra un po’”.

Mentre stavano discutendo su come fare a trovare un giornale dove scrivere il messaggio per il proprietario della palla, si sentì un “Oooooh”. Subito gli adulti si girarono verso i loro figli.

Si erano dimenticati di loro, immersi nelle loro chiacchiere, ma i figli non si erano dimenticati della palla, l’avevano presa piano piano e l’avevano guardata per un po’.

“Non vi sembra che voglia giocare questa palla?” “Si sembra anche a me; è stata chiusa troppo tempo nella cassaforte di mio padre. Le palle sono fatte per giocare, se non giocano stanno male, soffrono”.

“Anche i bambini sono fatti per giocare con le palle, se non ci giocano stanno male, soffrono”.

Capito ciò, avevano deciso che non era bello soffrire e non era bello fare soffrire una palla così bella. Quindi avevano iniziato a giocare.

Anche se era una palla poco rotonda e molto allungata non era poi male, non rimbalzava perché nel deserto nessuna palla rimbalza, ma quando la colpivi sapeva volare molto in alto.

Ad un certo punto c’era stato bisogno di tirare un rigore (i ragazzi non sapevano se nel rugby ci fossero i rigori, perché loro non conoscevano il gioco del rugby, però a loro i rigori piacevano quindi…) quindi, il figlio del vice capo-carovana, che era il giocatore migliore di tutta la carovana, aveva messo la palla per terra, fatto una lunga rincorsa e colpito forte la palla.

L’aveva colpita così forte ma così forte, l’aveva tirata così in alto ma così in alto, così lontana ma così lontana che… nessuno la vide più.

Nessuno di loro lesse il giornale il giorno dopo. Peccato! Se l’avessero letto avrebbero saputo che finalmente la palla era stata ritrovata, la partita importante era stata finita e una delle due squadre aveva potuto vincere la coppa importante.

Racconto “La palla nel deserto” scritto da Stefania Paganelli
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:

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I Lunedì di LuccAutori – Si fa presto a dire chiodi – Giulio Artom

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Maria lo aveva pregato di essere gentile, almeno per una sera.
“Luigi, è la prima volta che invitiamo a cena i Colombo, sono i nostri nuovi vicini di casa, evita di metterli in imbarazzo”.
“Non capisco che bisogno ci sia di invitarli, non abbiamo nulla da dirci e organizzare cene ti crea inutili ansie.”
In realtà la serata era iniziata bene, Maria aveva offerto l’aperitivo, una cena di quattro portate, il caffè e il liquore distillato in casa con i cioccolatini. Il Luigi all’inizio aveva perfino parlato un po’ con il Signor Colombo degli imminenti lavori di manutenzione straordinaria nel condominio spiegandogli che secondo lui il geometra era un incompetente e il progetto per l’impermeabilizzazione del tetto era pieno di errori. Poi, dopo la macedonia, si era chiuso nel suo mutismo, con lo sguardo fisso nel vuoto e gli sbadigli mal trattenuti. A nulla erano valse le occhiatacce di Maria, finché, alle dieci e mezza, con la conversazione che languiva nonostante gli sforzi della padrona di casa, il Luigi proclamò:
“Maria andiamo a letto, che i signori vogliono andare a casa.”
A nulla erano valse le scuse di Maria per quella uscita inopportuna e le sue richieste agli ospiti di rimanere ancora un po’. Dopo di che i Colombo salutarono e lasciarono frettolosamente casa Recalcati.
Maria avrebbe voluto fargli la solita scena madre, ma sapeva che tanto non sarebbe servito a nulla. Per il Luigi a quell’ora si andava a letto. Così come al cinema quando il film giallo si prolungava e lui lasciava la sala prima della fine senza preoccuparsi di conoscere il finale. Al ristorante invece si alzava annunciando ai commensali: “Ho finito, andiamo”, senza curarsi che tutti avessero terminato.
Coricarsi alle dieci e mezza era una delle tante regole che scandivano la sua giornata, come i due caffè doppi senza zucchero in tazza grande e con latte freddo a parte, uno la mattina al bar dell’angolo e l’altro a casa dopo pranzo e la sequenza di lettura delle pagine del Corriere della Sera: dapprima i necrologi, poi lo sport, quindi la cronaca cittadina e via via tutte le restanti notizie. Con un altro ordine invece Luigi Recalcati risolveva i giochi della Settimana Enigmistica che acquistava ogni sabato mattina alla stessa edicola. Quanto ai libri Luigi ne leggeva molti, ma tutti dello stesso autore, anzi autrice, Corin Tellado, una delle più prolifiche di tutta la storia della letteratura. Era abitudinario anche nell’alimentazione, fatta solo di pesce d’acqua dolce, carni bianche e verdure a vapore, e nella gestione del suo guardaroba che a ogni stagione si arricchiva di un completo grigio a un petto, tre camicie millerighe celesti con collo alla francese e due cravatte regimental.
Ma era nel suo negozio di ferramenta che il Luigi Recalcati dava il meglio di sé stesso, soprattutto quando un cliente aveva bisogno di qualche chiodo per appendere dei quadri.
“Lei la fa facile, si fa presto a dire chiodi. Come li vuole? A testa piana, bombata, fresata, a gruppino? In ferro lucido, ottonato, nichelato, zincato? E lo spessore? la lunghezza?
“Ma non saprei, pensavo a quei chiodi curvi, per i quadri…”
“Caro il mio Signore, i chiodi si curvano solo quando si picchiano col martello in modo sbagliato. Probabilmente Lei si riferisce ai cancani, ma questa è tutta un’altra storia. Ci sono cancani quadri a punta, tondi, striati, a vite, tipo volo, neri, lucidi, cancanetti zincati, ottonati… La scena si risolveva sempre nello stesso modo, fin quando il cliente, stremato, finiva col far venire il Luigi a casa per un sopralluogo a pagamento al fine verificare che razza di chiodo sarebbe servito.
Una sera, prima della chiusura, un uomo si presentò in negozio:
“Buonasera, vorrei cinque anelli per ancoraggi in acciaio con occhio saldato a passo mordente da dodici millimetri”
“Bene! quando una persona è preparata tutto è più veloce”, esclamò il Luigi voltandosi a cercare gli anelli.
“Certo, vedrà che stasera facciamo proprio in fretta” disse tranquillo l’uomo puntandogli la rivoltella alla schiena. Ammutolito e tremante il Luigi gli consegnò senza fiatare l’incasso della giornata.
“Ha visto come ci siamo sbrigati, a proposito, sa che ora è?”
Guardando l’orologio d’oro che teneva al polso il Luigi si accorse che l’altro lo fissava facendo cenno di sì con la testa. Senza dire altro si slacciò il Rolex e lo porse tremante all’uomo, che se ne uscì in fretta dal negozio scomparendo veloce nel buio della sera.

Racconto “Si fa presto a dire chiodi”  scritto da Giulio Artom
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi,
in tutte le librerie a distribuzione nazionale
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I Lunedì di LuccAutori -La nostra rosa – Enrico Valdès

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Fu il suo regalo per il compleanno della madre, quando lui aveva vent’anni, un vaso fiorito di rose gialle, bordate di scuro e profumate.
Luca abitava con la famiglia in un appartamento in città, poco adatto però alle esigenze di aria e sole della piccola pianta.
Sua madre la curava con sollecitudine e la teneva nella stanza più luminosa, le attenzioni erano tante, ma la piantina non cresceva, le foglie si raggrinzivano e cadevano. Era destinata a seccarsi.
In giugno la famiglia si trasferì nella casa al mare e, con loro, si spostò anche quel vaso con i suoi deboli rametti spinosi.
In un angolo del giardino la rosa venne messa in piena terra, era l’ultimo tentativo per farla sopravvivere.
Ogni mattina la madre la scrutava ansiosa, sperando che la linfa vitale non si fosse esaurita, e in luglio, come per miracolo, la piantina riprese forza, spuntarono nuove gemme, foglie e fiori profumati.
“Vedi, – disse la madre a Luca – la rosa non si è arresa.”
Passarono le stagioni, la piantina divenne pianta, il giardiniere la potava e diventò forte, con spine acuminate e fioriture esuberanti.
Faceva parte oramai del giardino, era come se da sempre fosse esistita là, ed era lei la preferita della madre, che l’aveva salvata con le sue cure.
Con la rosa lei e Luca avevano un legame speciale, un vincolo non detto tra madre e figlio.
Molti anni, boccioli, petali e profumo.
Ogni volta che Luca entrava nel giardino il suo sguardo correva alla rosa e al ricordo dei suoi vent’anni. Con la madre passavano là davanti e si fermavano, felici o tristi, parlavano o tacevano.
Luca diventò adulto e la madre anziana, indebolita dalle malattie, camminava con difficoltà ma, quando il figlio le era accanto, si sentiva forte e non si lamentava di alcuna sofferenza.
Gli ultimi anni li trascorse tra poltrona e letto, senza mai abbandonare il suo sguardo coraggioso e dolce.
L’ultima sua estate, dal letto chiese a Luca di sollevarla, di metterla seduta.
“Cosa vuoi fare?” lui le domandò.
“Vorrei vedere la nostra rosa.”
Era la prima volta che la chiamava “la nostra”, e lui ne fu colpito, si commosse, i suoi occhi divennero lucidi.
Lei osservò a lungo la rosa da lontano. Era fiorita.
“Vorrei sentirne il profumo.” gli disse.
Luca l’accontentò e, tra le sue mani dalla pelle sottile, ne mise un bocciolo.
Lei l’aspirò,“Che bel profumo, – disse – senti.” e Luca si avvicinò, le trattenne le mani tra le sue e respirò l’aroma del “loro” fiore.
Erano passati dieci anni da quando la madre se ne era andata, portando via con sé quel suo speciale sorriso, e tutto cambiò.
Cambiò anche il giardino della casa al mare, con nuovi alberi, nuovi cespugli e nuovi rampicanti.
La terra venne smossa, rivoltata attorno alla rosa, che soffrì e divenne spoglia.
Giunse l’estate, il sole prosciugò le zolle, della pianta rimasero tre soli rami nudi, e il giardiniere disse che, forse, non si sarebbe ripresa.
Vicino a essa un prato verde, piante e fiori rigogliosi, solo la rosa era inerte, come senza vita, ma l’acqua tornò a dissetare il terreno e le sue radici.
Luca ogni giorno la guardava con speranza, e infine spuntò un germoglio, poi ne vennero altri, e ancora giovani foglie. Comparve per ultimo un bocciolo come quello che sua madre tenne un giorno tra le mani, con lo stesso profumo, e Luca risentì la voce di lei.

Aiutami, – mi chiese –
sollevami dal letto,
voglio veder la rosa
che un giorno mi donasti.”

Crebbe laggiù la pianta,
con spine e verdi foglie,
con boccioli e con petali,
gialli e di scuro orlati.

Rinascono ogni anno,
e ancora qua profumano.
Era la nostra rosa,
ricordo di mia madre.

Racconto “La nostra rosa”  scritto da Enrico Valdès
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I lunedì di LuccAutori”

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Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016”
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365 giorni, Libroarbitrio

In attesa dell’uscita del primo libro di DuediRipicca…

 

…Ma ti blocchi di nuovo. Osservi quei lineamenti. Appartengono a te. Tu sei Mezzo. Sei il mezzo di ogni cosa. L’altra metà? L’altra metà di ogni cosa? Sei nato senza. Hai imparato a vivere senza, quindi non serve.
Non ti serve?
Ancora te lo domandi.
E ancora non trovando risposte né soluzioni quando c’è di troppo attorno a te, lo tagli via.
Gli altri sono Uno. Quelli che vivono facendo caos nel caos.
E tu invece sei solo Mezzo. Mezzo nella terra degli Uno che vive nella caotica città di Intero.
E fa male.
Fa male nella mezza mente, tra le mezze parole che non ti escono, come le lacrime che non piangi, forse perché il cuore non è come il pisello, non lo puoi ripiegare da un lato, lui sta tutto a sinistra, e forse tu neanche ce l’hai un cuore, o forse è solo nebulosa trasparenza.
Passi mezza nottata in bianco ad arrovellarti su questo quesito, ma quando spunta mezza alba, per carità, basta, e mezzo eccitato infili la chiave. Ne mandi un giro. Trac. E mezzo. Ac. Osservi la tua “LCE CASA” , pensi alle forbici, ai coltelli, alle accette, alle seghe e che grazie al “Servizio della Dolce Morte” non ne avrai più bisogno. Poi mezzo sorridi, di nuovo, perché il pensiero che tutto stia per finire indolore è così leggero e confortante da sognare che la “Dolce Morte” sia una bella ragazza, e sempre sorridendo pensi che con la iella che hai sarà Una-Stronza, ciononostante sei pronto per la partenza. E t’incammini alla stazione del volatreno…

“Volevo solo morire e invece sono morto” di DuediRipicca – – Gianluca Pavia e Lié Larousse – è al Pisa Book Festival allo stand di Nottetempo con amici scrittori e lettori!
On line potete trovarlo qui:
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