Ma te, cosa sai te,
te che così sicuro
sciogli la vita all’orlo
e del cuore logoro
non te ne curi, come il fiato grosso
che fa il vento al fogliame,
cosa ne sai di questo cargo
d’assoluto che insabbia
la rena d’un fondale,
di questa povera rabbia
d’angelo e d’animale?
Tag: dialetto
“Er Natale de un Babbo” scritto da Lollo & illustrato da Enrico Riposati
Er ventiquattro, ‘na città piena de luci
tratteneva er fiato aspettanno er redentore,
regazzini a festa pieni de gioia e de fervore
pe’ na serata de magnate e piatti truci.
Se svejò de botto in un brutto vicoletto,
n’occhio nero er sangue sur petto,
‘no strano alone sur cavallo dei carzoni
pure ‘n sorcio lo guardava da ‘n cantone
co’ n’aria schifata, de disapprovazione…
Arzasse ‘n piedi fu un tripudio de dolori,
finta barba de lato e beretto rosso rincarcato,
e strambi ricordi: de fumo e bicchierate de liquori,
nun je riccontavano dove diavolo era stato,
solo i carci ricordava, de’ n’infame buttafori.
Se fece forza butannose pe’ strada,
a vedè l’ora fra poco doveva riattacare,
arrivò davanti ar centro commerciale
pieno de festoni e famije alla sfilata:
er principale l’aspettava lì all’entrata,
quanno lo vide co’ n’arai assai schifata
je fece “Fatte ‘na doccia e cambiete er costume,
che puzzi e fai schifo sei pieno de lordume!”
S’aritrovò da Babbo Natale arivestito,
su un trono, circondato da balocchi
‘na torma urlante in fila de marmocchi
e un mar de cranio a dir poco inferocito.
E mentre li regazzini accontentava
pensava alla paga della sera,
mezza fella per quer tipo de cariera:
l’unica cosa che su quer trono l’incollava
Era solo, senza nisuno: peggio de ‘n cane
ad aspettallo nessun cardo focolare,
solo du’ cartoni in croce e un freddo vento
a ricordaje ‘na bastarda vita in fallimento.
Così staccanno chiamò sora Carmela,
trent’anno d’onorata professione:
“Posso venì? C’ho sordi e abnegazione!”
Je disse senza ombra de cautela.
Carmela, la sera de Natale era da sola
arispose: “Vieni pure raggiugime ora!”
E s’incontrorno du anime rejette e sole
e fecero l’amore in silenzio, senza parole
come solo du pazzi disperati sanno fare,
che danno e prendono senza manco ringraziare
Babbo cadde poi addormentato,
dall’arcol, dalle botte e da troppo amore frastornato
russava come ‘n treno alla stazione,
solo je mancava lo sbruffo de vapore…
Carmela invece arimase aggrapata a quella panza,
come ‘na naufraga sur legno, in cerca de speranza,
che la solitudine è ‘na bestia brutta, de più a Natale
anche un po’ d’amore inaspettato può bastare.
Stette immobile quasi senza respirare,
speranno de dilatà quer momento all’infinito,
e in quer silenzio interiore, ancestrale,
se godeva l’attimo de pace conquistato
sapenno che quell’istante così ambito,
nun sarebbe più de tanto mai durato.
La vigilia der Natale era finita
‘na città stanca dai bagordi s’era assopita,
la luna irradiava un ber lucore,
e io nun ve so dì, se in quella sera tanto ambita,
Olindo Guerrini : “verista, eversivo, crepuscolare”
Roma 5 luglio 2013
Ma quando il dubbio mi risveglia, quando
via per la nebbia del mattin tranquille
sfuman le larve che segui sognando,
colle man mi fo velo alle pupille
e mi guardo nel core e mi domando:
sono un poeta o sono un imbecille?
Anticipatore del Crepuscolarismo, anticonformista, di fede socialista, Guerrini nacque a Forlì nel 1845.
Visse a Bologna come bibliotecario dell’università e in questa città ebbe l’opportunità di conoscere e stringere amicizia con Carducci e Panzacchi.
Nel 1877, con il titolo Postuma e il nome di Lorenzo Stecchetti, il poeta finse di pubblicare i versi di un cugino morto di tubercolosi.
La raccolta suscitò scandalo e polemiche per l’audacia dei suoi contenuti erotici e satiri.
Successivamente Guerrini riunì le sue poesie in lingua italiana nei volumi Le Rime e Nova Polemica, le liriche in dialetto in Sonetti Romagnoli.
In tutta la produzione poetica ostentò la sua adesione letteraria al Verismo, la posizione anclericale ed eversiva, una vena comica di origine popolaresca.
A domani
LL
Luigi Zanazzo: “Vox populi”
Roma 3 luglio 2013
Il poeta Zanazzo nacque a Roma nel 1860. Studioso del dialetto e delle tradizioni popolari della sua città, nel 1880 pubblicò una prima raccolta di poesie dialettale intitolata Vox populi e nel 1887 fondò la rivista dialettale “Il Rugantino”.
La sua vena creativa e popolaresca si espresse anche in alcune opere teatrali, quali E’ re Gobbetto e Li maganzesi a Roma, che riscossero un certo successo di pubblico. La professione di bibliotecario gli permise di approfondire la passione e lo studio del folklore e lavorare alla pubblicazione di varie raccolte di novelle, favole, proverbi, usi, costumi e canti romani:
Era notte…
Era notte. Una notte tanto bella
con un celo e na luna che incantava.
E io stavo a vardà na finestrella,
che luccicava tanto, luccicava.
E vedevo apparì na capoccella
che arzava la tennina, se n’annava,
poi ritornava indietro e s’affissava
coll’occhi fissi come su na stella.
Allora io je cantai: “Fior de fortuna:
io spasimo pe voi, ciò er core in pena
e voi ve state a contemprà la luna”.
S’uprì la finestrella adacio adacio
e in quer silenzio, appena appena appena,
m’intesi fa un sospiro e mannà un bacio.
A domani
LL
“Eppure er mare” di Cesare Pascarella
Roma 27 giugno 2013
Eppure er mare
Eppure er mare…er mare, quann’è bello,
che vedi quel’azzurro der turchino,
che te ce sdraj longo lì vicino,
te s’apre er core come ‘no sportello.
Che delizia! Sentì quel ventarello
salato, quer freschetto fino fino
dell’onne, che le move er ponentino,
che pare stieno a fa’ a nisconnarello!
Eppure, sotto a tutto quel celeste,
ma, dico, dimme un po’, chi lo direbbe
che ce coveno sotto le tempeste?
Cusì uno, finché non ce s’avveza,
che te credi che lui ce penserebbe
si fino a dove arriva la grannezza?
di
Cesare Pascarella
Cesare Pascarella poeta dilettale fu anche pittore specializzato nel disegno di figure animali. Protagonista dei suoi scritti è il popolano patriottico e liberale, de La scoperta de l’America, da cui è tratto il passo di Eppure er mare è in esso è ben rappresentato, così come in Storia nostra, che racconta a suon di battute e comici spropositi la storia d’Italia dall’inizio del Risorgimento.
A domani
LL
“Er giorno der giudizzio” del poeta Belli
Roma 26 maggio 2013
Cuattro angioloni co le trombe in bocca
se metteranno uno pe cantone
a ssonà: poi co ttanto de voscione
cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca.
Allora vierà ssù una filastrocca
de schertri da la terra a ppecorone,
pe rripijjà ffigura de perzone,
come purcini attorno de la bbiocca.
E sta bbiocca sarà ddio bbenedetto,
che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera:
una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo usscirà ‘na sonajjera,
d’Angioli, e, ccoma si ss’annassi a lletto,
smorzeranno li lumi, e bbona sera.
di
Giuseppe Gioacchino Belli
A domani
LL
Giuseppe Gioacchino Belli e la sua Roma spietata
Roma 25 maggio 2013
Nato a Roma nel 1791, Belli ha un’infanzia difficile. Rimasto presto orfano, conosce miseria e umiliazioni, ma si fa largo da solo ottenendo un impiego pubblico e segnalandosi nell’Accademia Tiberina.
Negli anni quaranta del primo Ottocento si dedica all’unico figlio, Ciro, facendolo studiare a Perugia perché non ama l’educazione romana impartita dai gesuiti. Ha gran rispetto per la moglie ma molti altri amori lo coinvolgono soprattutto coinvolgono la sua produzione letteraria: per la marchesina Vincenza Roberti dedica un canzoniere petrarchesco, ispirandogli anche piccantissimi versi in dialetto.
Dopo la morte prematura della moglie, ha un trasporto sentimentale per l’attrice Amalia Bettini, corteggiata da letterati come Stendhal, lei si appassiona ai suoi scritti esortandolo, invano, di proporli all’editoria.
Amatore del teatro, Belli, concepisce i suoi sonetti per la dizione vocale. Il secondo matrimonio gli permette economicamente maggiori svaghi, inizia così un periodo di viaggi per l’Italia e ricerche. L’unica città che lo appassiona è Milano che si presenta con i suoi intellettuali impegnati e una forte sensibilità del popolo nell’essere civile, doti che a Roma con i suoi pettegolezzi, l’essere cialtrona e spietata, certamente mancano.
Nella capitale lombarda approfondisce i suoi studi autodidattici, legge le Poesie milanesi di Porta, si dimette dall’Accademia, commenta Dante con gli amici e fonda ” società di lettura” per aggiornarsi sulle riveste europee; legge ossessivamente i Canti di Leopardi e il romanzo di Manzoni avvicinandosi alle idee liberali.
Tra il 1830 e il 1849 il Belli compone oltre duemila sonetti romaneschi, importante documento sul dialetto romanesco, folclorico e antropologico, una poesia maestra per la forma e la metrica vivace e caparbiamente espressiva.
Prepara testi introduttivi e note esplicative ma non riuscendo a pubblicarli li legge solo agli amici tra cui Gogol’ che ne resta entusiasta ma fortemente impressionato, tuttavia, la mole di scrittura supera i 45.000 versi, ed egli pubblica solo due piccole antologie nel 1837 e nel 1843.
In quegli stessi anni la nuova politica ecclesiastica lo spaventa a tal punto da dover affidare alcuni sonetti alla figura di monsignor Vincenzo Tizzani,che si occuperà della loro edizione antologica tra il 1865 e il 1866.
Rientrato nella sua odiata Roma sempre più depresso e solo, si dedica alla lettura dei suoi versi ai pochi amici rimasti, restando egli serissimo tra le loro risa.
Muore nel 1863.
A domani
LL
Il Meo Patacca
Roma 21 aprile 2013
Il Meo Patacca è il poema più singolare e fortemente significativo del movimento culturale dialettico letterario di fine Seicento. Scritto da Giuseppe Berneri legato allo scrivere di curia romana, il suo personaggio Meo Patacca è verosimilmente un classico capopopolo romanesco circondato dai suoi sgherri, prepotente, smargiasso, ma insieme protettore delle donne e dei deboli, buono negli schemi ideologici aristocratici, ma violento e servile in quello popolano.
Egli decide, coinvolto positivamente dalle notizie provenienti da Vienna assediata dai Turchi, di partire nel 1683 con cinquecento suoi seguaci in soccorso dei cristiani contro la volontà di Nucia, la sua donna.
L’annuncio della liberazione della città risolve tutti i problemi che questa spedizione aveva posto cosicché le risorse economiche e le energie vengono spese in spettacolose e crudeli feste popolari sino a una delle solite cacce all’ebreo e a un violento assalto al ghetto che non finisce in una strage solo grazie all’intervento, tardo, ma comunque tempestivo, del ” buon” Meo.
Il linguaggio romanesco nel racconto in ottave viene privato delle sue punte e italianizzato oltre i momenti seri o solenni nei quali i protagonisti, lo stesso Meo e più spesso la sua donna, parlano in un toscano leggermente parodistico.
Il dialetto non serve per conoscere il mondo popolare, ma per ridurlo a un aspetto pittoresco e nel posto subordinato e definito che occupa nella società: ciò viene sottolineato con il rapporto tra Meo Patacca e i nobili che finanziano il progetto di spedizione e che assistono alla rassegna e ai giochi. Meo si comporta , pur nella sua dimensione minore e comica , come un nobile con lo spirito e il senso dell’onore feudale: secondo una produzione che diviene addirittura rigida nel suo ripetersi tanto che una gran parte delle vicende incentra sulla bravura dignitosa con la quale il protagonista ottiene che i vari personaggi, da Marco Pepe, suo antagonista, a Titta Scarpellino, gli chiedano scusa e si facciano perdonare.
A domani
LL
La comicità dialettale nella poesia II parte
Roma 20 aprile 2013
“Io canto quanto belle, e vertolose
so’ le Vaiasse de chesta cetate;
e quanto iocarelle, e broccolose
massema quanno sogno ‘nnamorate…
Ma non faccio li vierze ‘ntoscanese
azzò mme ‘ntenna onnuno a sto paiese.”
La Vaiasseida, come abbiamo già letto nei post precedenti, racconta le vicende e i costumi delle donne di servizio napoletane, parla dei loro amori, dei loro congressi e delle loro rivolte contro i padroni.
Il matrimonio di Renza, i consigli delle comari, la nascita di una bambina, intrighi di fattucchiere, tutto si riaggiusta in una gran mangiata al Cerriglio per il propizio intervento di Micco Passaro.
La misura del modello letterario e la presenza del ritmo italiano impediscono in queste prove in ottava rima nella forma del poema quella più sicura possibilità di distinzione che la prosa può offrire agli scrittori italiani.
In questo processo di riduzione dell’eroico e insieme risoluzione e integrazione del popolaresco nella cultura e negli schemi della poesia e della società neo-feudale sino agli estremi del Seicento.
A domani
LL
La comicità dialettale nella poesia
Roma 19 aprile 2013
Nella nostra letteratura e maggiormente in certi periodi storici ci sono dei momenti nei quali una spinta originaria sembra esaurirsi e fermarsi dopo l’inizio, come ce ne sono altri nei quali le opere si limitano e si consumano in loro stesse.
La scoperta e la conseguente ricerca degli effetti comici, il bisogno di continuare e di sviluppare la tradizione buffonesca o burlesca si innesta nella poesia dialettale.
Come abbiamo letto nel post precedente, in Giulio Cesare cortese, una coscienza orgogliosa e quasi una sfida in difesa della lingua napoletana, quella stessa che sarà poi continuata dal Basile e dal Sarnelli nella prosa.
Questa scelta unisce insieme le glorie e i diritti del dialetto con i motivi di un realismo popolare.
il cortese nel 1621 pubblica il Viaggio di Parnaso poema in sette canti in ottave dove si mescolano motivi critici ben precisi come la difesa della lingua napoletana con spunti autobiografici, fiabe e racconti popolari in una trama filamentosa che il Croce ha definito degno dell’umorismo romantico.
L’eroicomico nei poeti, in special modo in quelli napoletani, nasce da un bisogno di conciliare la dignità letteraria e le possibilità del nuovo strumento linguistico attraverso soggetti e temi legati al mondo del dialetto.
A domani
LL
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.