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I Lunedì di LuccAutori – Cent’anni di troppo – Dora Argento
Se non avessi avuto le bretelle rosse, quelle fosforescenti che mi hanno regalato per Natale, quest’ora sarei -bello tranquillo!- nel mio nascondiglio, sotto il letto della camera degli ospiti, che è sempre vuota.
Papa’ e Mamma sarebbero partiti soli , con quella lastima di mio fratello Nuccio e io me ne sarei potuto andare a fare la gara in pace.
“ …e ci giocherai un’altra volta” dice Mamma.
Certo, che ne sa lei che non era una gara qualsiasi, per lei sono tutte uguali, non distingue manco un monopattino da un triciclo, figuriamoci…
”Leva di mezzo quel “coso” con le ruote, Nonò!”
E Papà mi ha pure infilato in macchina arrabbiato senza farmi prendere le figurine di Dragon ball che almeno ci passavo tempo invece di stare qua, chiuso in macchina , con quel frignone di Nuccio che vuole tutto lui e che ha già vomitato una poltiglia verde, come sempre quando è in macchina!
Lo sapevo che non me le dovevo mettere oggi, mannaggia…
Papà le ha viste, anche se eravamo al buio, e mi ha trascinato fuori da sotto il letto, tirandomi per le bretelle che poi, quando le ha lasciate, mi hanno dato una schioppettata sulle spalle che mi fa ancora male .
Aveva la faccia da “teledosenonlafinisci” e quando c’ha quella faccia, severa e scura, non dico niente, ma se nò glielo dicevo che io non ci volevo andare, che avevo la gara più importante di tutta l’estate e che se non ci andavo io avrebbe vinto Peppe, sicuro, sicuro!
Tutto per colpa di una vecchiaccia, di cent’anni poi!
A quest’ora hanno già iniziato, sono le quattro; a quest’ora sono già in cima alla salita, tutti e tre: Lorenzo con lo skate rosso, Nello con quello che usa per le gare, verde e giallo, e quel cornuto di Peppe col suo “mitico” blu; a quest’ora si stanno lanciando giù come pazzi; a quest’ora vedono gli alberi che gli passano accanto velocissimi che manco si capisce che sono proprio alberi, sembrano macchie verdi che si allargano e si stringono, che si rincorrono, una dietro l’altra e che invece poi quando ti fermi, che sei arrivato e ti giri, sono tornati al loro posto, anzi non si erano mossi mai.
Invece io sono legato come un salame con la cintura di sicurezza e Papà pure che si lamenta se metto i piedi sullo schienale
“Stai fermo coi piedi…che così sporchi la macchina nuova”.
La riempirei di calci io questa stupida….non poteva fare che non partiva così ce ne potevamo restare qua?
A quest’ora stanno risalendo dopo la prima discesa – perché la gara finisce dopo dieci discese libere – e a quest’ ora sarà arrivata Susanna, tutta rosa, col cerchietto in testa, e con quelle altre sceme delle sue compagne, rosa pure loro, sempre con le borsette in mano. Ma che ci mettono poi in queste borse microscopiche che non ci entra manco una pistola ad acqua, bleah! E, a quest’ora, di sicuro mi stanno prendendo in giro: “…Nonò se l’è squagliata, Nonò è un fifone…tanto si sa che perdeva…”. A quest’ora.
Se c’ero altrochè se perdevo… ma “quella”, da quando le ho detto che fidanzarmi con lei mi fa schifo si vendica parlando male di me! Con quella bocca tutta inserragliata , con la gabbia metallica che quando ride pare la finestra del convento delle suore dell’asilo , quelle che non escono mai!
E tutto per andare a trovare una vecchia decrepita.
Ma che me ne frega a me di una vecchia rincretinita, senza denti, anzi coi denti tutti cariati, che quando parla sputa a raggiera, mezza ceca, senza capelli, tutta curva col bastone e i piedi con cento calli tutti rattrappiti che manco può camminare, anzi forse la portano sulla barella perché è paralitica e c’ha tutti i fili che escono da tutte le parti come nel telefilm dei medici che si vede la Mamma! Che ci stiamo andando a fare? “Una festa per la prozia che fa cento anni e l’andiamo a festeggiare”.
Ma che c’è da festeggiare quando hai cento anni, sei vecchia stravecchia, non capisci più niente e non ti ricordi manco come ti chiami. Come la nonna di Gino che gli chiede ”E tu chi sei?” ogni volta che quel mischino attraversa la stanza.
Hai fatto cent’anni? Va bene, brava, adesso muori e ci lasci in pace.
Però, che idea…e se morisse ? Subito però, all’inizio della festa, cosi’ ce ne torniamo e magari sono ancora in tempo per rifare la gara…?
Se torno prima delle otto posso dire che avevo capito che la gara si faceva di sera, alla rinfrescata. Devo pensare ad un modo sicuro però.
Ecco, se la trovassi che dorme come in questo momento Nuccio, con la bocca aperta, potrei infilarle un imbuto con un veleno potentissimo che la stecchisce subito. Tanto quando uno è vecchio si sa che può morire da un momento all’altro, non si stupisce nessuno . Non è che chiamano la Polizia per un morto di cent’anni!
Oppure, se cammina ancora, potrei farle uno sgambetto mentre scende le scale. Pure che non muore, anche che va all’ospedale…a me basta che la festa non si fa e ce ne torniamo a casa in tempo. E se non ci sono scale in quella casa? Potrei tendere un filo da una parte all’altra della stanza. Quando sono vecchie , che sono incartapecorite, si rompono subito, non ci vuole niente. Come i grissini, tac!
Miii! Mi sto ricordando della zia di un mio compagno che è morta “perché aveva troppi zuccheri”. Questa sarebbe facilissima: potrei comprare tanti pacchi di zucchero e regalarglieli e dirle “Questo è un regalo per te, sono tutti tuoi”. Lei li prende e muore.
Ma tanti quanto? Non è che si muore per un pacco di zucchero. Quando con la mamma andiamo al supermercato ne compriamo almeno tre e non è morto mai nessuno…ce ne vorranno centinaia…
No, questo non va bene, Papà mi metterebbe in croce e forse pure la Polizia: “…e tu perché le hai regalato tutto ‘sto zucchero?”, “Per il suo compleanno”…ma figurati, lo sa che manco ci volevo venire, sarei il sospettato numero uno. No, farla cadere è la cosa migliore, magari con una spinta.
“ Nuccio finiscila! Mamma lo fai finire a Nuccio, mi tira il cravattino di Batman! Me lo rovina!”
“E dai Nonò lo sai che è piccolo, un po’ di pazienza…”.
E certo, solo io la devo avere. Quando le vomita sul vestito nuovo, come l’altra volta che doveva uscire con Papà per fare pace dopo la litigata che si erano fatti e si era messa tutta scollata , allora la pazienza la perde pure lei…
E’ che Nuccio non è un bambino , è una “macchina del pianto con vomito automatizzato”, premi: “wuah”, premi: “wuah, premi……..Che idea! E se raccogliessi il vomito di Nuccio e lo versassi addosso alla prozia, tutti penserebbero che sta male e chiamerebbero subito l’ambulanza: ua ua ua ua ua ua uauaua …
E vai! Questa mi piace.
“Mamma, lo posso conservare il vomito di Nuccio? Così mi ricorderò sempre di quando era piccolo…”
“Nonò non dire scemenze, scendi, siamo arrivati.”
Papà, tenendomi dal collo “così non scappi”, mi spinge verso un grande portone di legno scuro e inciampo sulla soglia di un pavimento bianco e nero che pare una scacchiera gigantissima! Mentre Mamma consegna alla cameriera il regalo, un pacco piccolo, che forse sarà una dentiera per la prozia, io immagino di essere il mio pezzo preferito – il cavallo nero- e mi ingrugnisco, cercando di allungare il mento e i denti in fisionomie cavalline ma papà, pensando che faccio il verso alla cameriera -che di equestre però non ha niente assomigliando più a un panda grassoccio, per le occhiaie stratosferiche che si ritrova! – mi stringe il collo accompagnandolo da un “finiscila!”, sibilato fra i denti, che pare una lama ghiacciata.
Entriamo in un salone che se non è grande come il campetto dietro la scuola poco ci manca. Un sputo -di quelli buoni- di Saro, non arriverebbero al tetto e per una partita a calcetto l’unica cosa che si dovrebbero eliminare sono queste quattro colonne in mezzo – tutte a righe!- assolutamente inutili. Si vede che chi ha costruito questa casa non ha pensato alle cose più elementari!
Vedo subito quello che cercavo per il mio piano: una scala che porta al piano di sopra con un corrimano tanto largo che potrei scivolarci con tutti e due i piedi uniti. E’ fatta! Con una bella spintarella la prozia i gradini se li fa tutti, sicuro sicuro! Appena arriva…
Questo salone è gigantesco, pieno di cose strane: in centro c’è una tavola lunghissima con una tovaglia tutta buchi come la groviera, di quelle che mamma dice che si mettono ogni morte di Papa perchè costano un sacco.
Oggi di Papi mi sa che devono esserne morti almeno due!
Dal tetto poi, pende una specie di ancora, forse un lampadario, con cui verrebbero benissimo gli arrembaggi sulla nave nemica. Insomma se qui ci venissi con tutta la banda saprei bene cosa farci .E la vecchia… la leghiamo al lampadario e ci giochiamo a freccette! Forte!
Siamo i primi ad essere arrivati e della prozia neanche l’ombra, magari è già in fin di vita e fra poco scenderà uno di quei medici col naso a becco, gli occhiali tondi e i vetri spessi come le biglie che ci darà la notizia con voce da gufo , guardandoci con lo sguardo inquisitore e sperando che magari qualcun altro si senta male.
Mamma lo dice sempre che sono come i vampiri, che è meglio starne alla larga!
Papà, tenendomi sempre stretto il collo, mi spinge verso un divano “sprofondoso” di una stoffa rossa a fiori neri un po’ vecchia, con le molle rotte .
C’è n’è una specialmente che mi preme proprio sul culo e sento la punta che mi buca i pantaloni. Cerco di spostarmi ma papà, pensando che voglio alzarmi, mi spinge verso il basso con la sua mano forte. Sono fregato, non mi posso muovere da qui e l’unica cosa che posso fare è guardarmi i piedi, stretti nelle scarpe nuove, che si muovono dondolando avanti e indietro, tutti ci annoiamo a morte! Con la mano però seguo i disegni della tappezzeria che sono più in rilievo e che mi portano ad una scucitura dove infilo facilmente il mignolo. La scucitura è ruvida,come se ci fossero fili metallici ma, dentro, il dito sprofonda nel vuoto e finalmente trovo la molla fastidiosa. Cerco di allargare il buco per poterci infilare almeno due dita e ci sto lavorando bene quando un pizzicotto caldo e doloroso mi fa venire la scossa. Mamma se n’è accorta. Non posso fare manco questo.
La cameriera-panda si avvicina , portandosi dietro l’odore di fritto dalla cucina, e offrendoci un vassoio d’oro con degli orribili pasticcini a forma di cuore tutti zuccherosi – fatti da una cuoca femmina, sicuro!- che si appiccicano uno sull’altro. Sicuramente ne avrà mangiato qualcuno perché le sue dita grasse, con le unghia tutte mangiate come quelle della mia compagna Geppa, hanno tracce di zucchero sulle punte dei polpastrelli. Secondo me se li è anche sleccazzatitutti e poi li ha rimessi sul vassoio –come faccio io, ma solo con quelli di cioccolato però!- perché vicino alla bocca c’è traccia di unto misto a zucchero in polvere . Quando passa da me la fulmino:“Non ne voglio!” e mamma mi comincia una predica -di quelle che sono come quando catturi un ragno, che più lo allontani e più lungo è il filo di bava- sull’importanza dell’educazione, che si dice sempre grazie, che bisogna stare al proprio posto bla bla bla… e mentre parla aziono il dispositivo che ho nel timpano per disinnescare l’udito e la guardo mentre apre e chiude la bocca come un luccio fuori dall’acqua – tutta brillante con il vestito nuovo argentato- e le sopracciglia che si arcuano o arrotondano a seconda che mi implori di fare il bravo o che mi minacci.
Un suono improvviso mi stappa automaticamente le orecchie e interrompe mia madre dalla predica , lasciando il ragno dondolante appeso al labbro, incerto se tornare indietro. E’ il campanello, una specie di clacson gracchiante a volume altissimo – la prozia deve essere assai sorda- che preannuncia l’entrata di una comitiva di “Decrepiti in visita al Museo dei Fossili”, gli amici della prozia, come mi spiega la mamma.
Entrando consegnano i loro regali al solito panda che se ne va traballando come un equilibrista. Il più giovane avrà circa 200 anni.
Tutti insieme sembrano una ragnatela gigante. Il primo gruppo di rughe inizia sulla prima vecchia, una signora con una gobbetta che muove il collo in avanti e indietro come le tartarughe e, attraversando pance sballonzolanti, vene varicose che sembrano i fiumi di una carta geografica, doppiomenti cascanti come lenzuola stese al sole sbattute dal vento, passi zoppicanti, dentiere traballanti, chiome sparute ed elettrizzate come una foresta dopo un incendio e piedi deformati con le dita tutte litigate fra di loro, finiscono sulla nuca di un vecchio tanto magro che la giacca sembra vuota,come appesa a una gruccia.
Ma poi -dico io- in mezzo a tutti questi nonni, neanche un bambino con cui giocare ! Fortunatamente , dalla porta della cucina, entrano una fila di vassoi odorosi di forno con un sacchissimo di cose da mangiare, il tavolo si riempie in un baleno ma, per prima, avvisto una montagna di patatine fritte croccanti su cui mi piombo. Il panda le avrà sleccazzate? Ma dai! ci vorrebbe un mese a sleccazzarsele una per una…me ne frego e , infatti, sono buonissime.
Vedo il passeggino di Nuccio in movimento, si sarà svegliato e avrà fame e Mamma non se n’è accorta – è impegnata con un fossile che deve aver preso la scossa perché trema tutto- forse è arrivato il momento di fargli assaggiare qualcosa di buono. Preparo una merenda super con patatine, maionese , marmellata, olive, caponata- tutto ben mescolato- fette di limone e una spruzzata di aranciata sopra e la porto a mio fratello che mi aspetta con la bocca già aperta, infilo un boccone del miscuglio e mi diverto a vedere la sua faccia che pare un fumetto: si contorce tutta quando becca il limone aspro o si bea a succhiare la maionese dal pane. In mancanza d’altro anche mio fratello può essere divertente e gli faccio leccare anche una patatina dal mio piatto, altro che pappine, per questo le vomita! .
Ce ne stiamo tranquilli a mangiare in un angolo e faccio in tempo a togliere tutto e pulirgli la bocca prima che torna mamma.
“Due piatti ? Ti sei abboffato Nonò, non è che poi ti senti male?”
Con la bocca fatta di sale , pregusto le altre cose che mangerò: panelle, pizzette e una montagna di dolci al cioccolato, il resto lo lascerò alla comitiva che intanto si è trasformata in uno sciame di cavallette affamate.
Evidentemente lo stomaco funziona a tutti.
Mi parlano di sopra , tutti un po’ gridando e molti non sentendo e, da una parte all’altra del tavolo, sfrecciano tanti “come-cosa- che hai detto?” che , anche se non raggiungono il bersaglio giusto, vanno bene un po’ per tutti , e comunque non si fermano e continuano a riempirsi il piatto e poi… ridono, ridono tutti.
Che c’hanno poi da ridere? Forse quando uno sa che sta per morire è contento perché è ancora vivo…
Mio nonno , l’anno scorso, quando mi ha chiamato che voleva vedermi subito era a letto da diversi giorni ma mi disse di correre, che aveva urgenza di raccontarmi una barzelletta -che lo sapeva che io ci faccio la collezione- e me la raccontò facendo le facce buffe, come sapeva fare lui, e non riusciva a finire perché ridevamo tutti e due come scemi. E poi è morto. Si chiamava Antonio, come me.
“Nonò, non mi senti? ma che fai, dormi? Guarda , c’è una cosa per te!”
Alzo gli occhi e lo riconosco subito: uno skate con le ruote pluridirezionali, le testine di acciaio cromo e gli ammortizzatori con le doppie molle che ci puoi saltare pure gli scalini della Madrice! Il disegno poi è…bellissimo! Una lancia di fuoco inizia dalla punta su uno sfondo nero e poi, salendo, si trasforma in frecce colorate che bucano uno scudo! Noooo è pure firmato da Niki , il campione americano di skate!
Ma… è impossibile da trovare in Italia, come hanno fatto?
Non vedo più niente, ho gli occhi annebbiati dalle lacrime e mi vergogno di piangere ma oramai sono un fiume di muco dolciastro che mi riempie il naso e non riesco a fermarmi, è il regalo più bello che potevano farmi Mamma e Papà.
Sento un fazzoletto profumato che mi struscia e mi graffia un poco la faccia ma mi asciuga il muco e gli occhi che si snebbiano.
Forse che sono svenuto per tanto tempo?
La faccia che vedo è quella di mamma ma …più vecchia!
Mamma mia, non è che le rughe sono contagiose? Cerco subito Papà e lo vedo uguale, menomale, e dietro di lui mamma, è lei, pure uguale e allora, di chi è questa faccia?
“Sono tua hold zia. Non ti puoi arricordare perché vivo in America ma sapevo di te, di un nipotino bello assai e ca ti piace troppo lo skate. Io nu ne capiscio niente ma il negoziante mio amico told me che è un modello very beautifull. Ho indovinato, Nonò?”
Mi passarono davanti tutte le torture che avevo immaginato per lei e dallo stomaco qualcuno mi diede come un cazzotto.
La prozia è vecchissima e assomiglia ad un ghiacciolo un po’ squagliato, ma ha una voce dolce e un sorriso buono e allegro come quello del Nonno…
Ah già, giusto, è sua sorella… e anche la dentiera deve essere americana -è bianchissima !- e poi… è venuta in aereo dall’America, forte!
Magari fa quelle cure americane ed è indistruttibile, come Batman .
Forte questa zia! Già me la immagino, col vestito giallo di “Dragon ball terza evoluzione”, quando la presenterò a quegliscimuniti coi loro skate che sembrano carriole, altro che skate!
E poi come dice “skate” con la “ kappa” e la “a” che fanno tutto un rimbombo: skate, skate…
La guardo e le faccio l’occhiolino.
“Zia posso provarlo sulle scale?”,
“Oh yes. Ma you attento ok?” mi schiaccia l’occhio e guarda i Fossili
“ Non cadiri su questi “vecchi birilli”, si rumpinu subito, comu grissini, ok ?”
E ride, con una risata squillante e rido pure io, e mi dà una pacca sulla spalla e io la spingo , ma piano, e ci diamo il “cinque” e ridiamo ancora, come scemi…
Non è che adesso mi muore pure lei?
Racconto “Cent’anni di troppo” scritto da Dora Argento
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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I Lunedì di LuccAutori – Lo strano caso della signora Jay – Roberto Perina
Avrei voluto dare la mia versione di quello che accadde quella mattina. Non ne potevo più di vedere poliziotti, medici e infermieri girare per casa.
Rientrato in casa dopo avere effettuato una telefonata in giardino, il detective D’Altri chiamò il suo collega.
<< Francis, Francis, dove diavolo sei finito?>>
<<Eccomi capo, ero in cucina ad aiutare il medico e gli inservienti a portare via il cadavere della signora Jay>>
<<Povera donna, ci vorrà ancora tempo per la versione ufficiale. Sai che idea si è fatto il medico?>>
<<Certamente>> rispose fiero Francis, <<la lama del coltello è penetrata nell’addome provocando una grave emorragia. E’ morta dissanguata capo!>>
<Cazzo!>> disse il detective.
Odiavo le parolacce.
E ancor meno mi piaceva vedere il Signor Hop seduto sul divano, immobile, con gli occhi lucidi a fissare un vaso, enorme, appoggiato su un tavolino incredibilmente piccolo.
E’ sempre stato gentile con me il Signor Hop. Mi ha sempre cambiato l’acqua più volte al giorno e quando c’era il sole, ma non troppo caldo, mi metteva all’aria aperta con un bell’osso di seppia nella gabbia. Il loro figlio Jeremy invece non mi ha mai degnata di uno sguardo.
<<Tra quanto arriva il Sergente Moses con quel dannato corriere espresso?>> esclamò il detective.
<<Mi ha chiamato dieci minuti fa dicendo che stava per arrivare. Vedrà, a momenti sarà qui.>>
Il corriere era venuto quella mattina per portare un pacco indirizzato al signor Hop. Mentre la Signora Jay prendeva il portafoglio e lo posava sul mobile vicino alla porta, squillò il telefono. Non doveva essere nessuno di importante perché dopo pochi secondi riattaccò. Poi ho sentito la signora urlare, dicendo che era sicura di avere i soldi nel portafoglio e che qualcuno doveva averglieli rubati. Il corriere si spazientì molto, dicendo che non aveva tempo da perdere.
<<Lei mi ha derubato>> urlò rivolta al corriere, che intanto faceva retromarcia e uscì di casa.
<<Io non ho fatto niente, ma tornerò più tardi a prendere i soldi che mi deve. E veda di non inventare scuse!>>. Chiuse la porta violentemente e tornò in cucina. Non provò nemmeno a rincorrerlo.
Francis si accese una sigaretta. Odiavo quell’odore. Anche Jeremy ogni tanto ne fumava qualcuna, solo che le sue sanno un odore diverso, più forte.
<<Se vuole fumare, le chiedo di andare in giardino. Non sopporto l’odore del fumo.>> Erano le prime parole che sentivo pronunciare dal Signor Hop da un paio d’ore. Era stato lui a trovare sua moglie in quelle condizioni. Deve essere stato terribile. Tornava sempre a casa a mangiare a pranzo. I poliziotti hanno escluso subito fosse lui il colpevole. Io non avevo dubbi. Era rimasto tutta la mattina in ufficio, come hanno confermato i suoi colleghi a i poliziotti.
Il signor Hop si alzò, prese i miei semini da uno dei mobili del soggiorno e mi riempì la mangiatoia.
<<Sei rimasta senza semi Melina>> mentre li versava lo guardai. Mi sorrise. Era tutta mattina che facevo notare, a modo mio, alla signora Jay che avevo finito i semi. Ma lei non mi degnava di uno sguardo.
<<Sei riuscita di nuovo ad aprirti la gabbietta, devi stare attenta ad uscire!>>. Già, aveva ragione. Sono un canarino giallo in un mondo dove il resto dei volatili è grigio, marrone o nero.
Il detective D’Altri chiamò con un gesto Francis. Si misero a parlare sotto lo stipite della porta della cucina. <<Ascoltami Francis>> sussurrò <<vai a chiamare il ragazzo. Dobbiamo farci raccontare la sua versione, ora che la madre è stata portata via. Era in casa a quell’ora e può aver sentito qualcosa.>>
Passarono alcuni minuti e si sentì un trambusto provenire dalle scale. Francis lo stava, letteralmente, trascinando.
<<Come si permette! Lo lasci andare subito! E’ mio figlio! Lo lasci!>> urlò il signor Hop.
<<Detective, l’ho beccato mentre stava fumando dell’erba in camera sua>> ecco cos’era quell’odore che sentivo dalle sue sigarette.
<<Jeremy quante volte ti ho detto che non devi fumare quella roba!>> esclamò stizzito suo padre.
<< E non è tutto Detective, guardi quanti soldi stava contando!>> Francis diede al suo superiore un mucchietto di banconote colorate.
D’Altri iniziò a contarle <<Sono più di cinquecento euro! Vendi Marijuana Jeremy?>>
Il ragazzo impallidì. Forse era colpa dell’erba. <<No…. Non sono stato…. Non faccio quelle cose….>> Balbettò altre due o tre parole poi fu interrotto dal suono del campanello. Francis aprì la finestra per vedere chi aveva suonato. Forse non lo avevano avvisato che era stato inventato il citofono. Meglio così comunque, un cambio d’aria era quello che ci voleva.
<<E’ il sergente Moses, detective. Assieme al corriere espresso>>
<<Falli entrare cosa aspetti>> tuonò D’Altri.
Mentre i due nuovi arrivati percorrevano il vialetto per entrare in casa, Jeremy si accomodò vicino a suo padre.
<<Ben arrivato Sergente>> esordì il detective, <<lei è il signor?>> disse rivolgendosi al corriere.
<<Sono Osvald Pachino e faccio il corriere espresso da 12 anni presso la WPS>> tremava come una foglia.
<<Immagino sappia perché l’abbiamo portata qua>> non attese la risposta <<Francis porta un bicchiere d’acqua al nostro corriere.>>
<<Questa mattina sono venuto a fare una consegna per il signor Hop, intorno alle 10 massimo 10.30, in casa c’era sua moglie che….>> il detective lo interruppe << non può essere più preciso con l’orario? Avrà stampato la ricevuta del pagamento, spero!>>
<<E’ proprio questo il punto. La signora non aveva soldi per pagare, era convinta di averne nel portafoglio, ma era vuoto. Mi ha accusato di averli rubati mentre lei rispondeva al telefono. Ciò che ho detto mentre stavo uscendo non volevo suonasse come una minaccia.>>
<<Sia più preciso>> esclamò il sergente Moses. D’Altri lo fulminò con lo sguardo. Voleva essere lui a condurre l’interrogatorio.
<<Le ho detto che sarei tornato più tardi e di trovare i soldi. Ero arrabbiato, è vero, ma voi non sapete quanto tempo perdo in casi come questi. Se mi fate parlare con la signora Jay le chiederò scusa, a patto che paghi per la consegna.>>
<< La signora Jay è morta>> esclamò D’Altri.
Rimasero tutti zitti e immobili per qualche secondo.
<< Ieri sera, mentre cenavamo, avevo avvisato mia moglie che oggi sarebbe arrivato quel pacco e dopo cena le diedi i soldi per pagare il contrassegno al corriere>> intervenne il signor Hop.
<<Quanti soldi le aveva consegnato? E cosa c’è nel pacco?>> chiese D’Altri.
<<C’è un tablet della Onion, costa 500 euro.>>
D’Altri si spostò in mezzo al soggiorno, voleva essere al centro dell’attenzione.
<<Allora cerchiamo di fare il punto della situazione>> esordì il detective, <<la signora Jay aveva certamente nel portafoglio 500 euro che le erano stati consegnati ieri sera dal signor Hop. Avete cenato tutti tre assieme ieri sera?>> Il signor Hop annuì.
<<Vi dirò cosa penso: non credo che Jeremy sia in grado di spacciare; credo sia rimbambito da tutte le canne che fuma, ma non così tanto da non fare caso che nel portafoglio di sua madre è entrata una bella somma; dico bene Jeremy?>>
Il ragazzo rimase impassibile.
<<Bene, chi tace acconsente. Chissà quante cose avresti potuto fare con tutti quei soldi, vero Jeremy? Erano così tanti che avresti potuto far del male a qualcuno per averli.>>
<<Adesso basta! Lei sta accusando mio figlio ingiustamente!>> esclamò, alzandosi, il signor Hop.
<<Io non accuso nessuno, sto solo vagliando delle ipotesi! Certo che tutti quei soldi che suo figlio stava contando in camera sua……. D’altro canto è assolutamente possibile che il nostro corriere, il signor Pomodorino>>, <<si chiama Pachino>> lo corresse Moses, << mi scusi, il Signor Pachino, nell’istante in cui la signora Jay si è allontanata per rispondere al telefono, notando quelle banconote che uscivano dal portafoglio si sia preso la briga e il gusto di “prelevare” una bella somma a spese altrui, e poi quando la signora se ne è accorta…….>>
Era il secondo discorso che lasciava in sospeso. Chissà, magari era il suo metodo per incentivare i delinquenti a finire la frase e dichiararsi colpevoli. Di certo quella volta non funzionò.
<<Ho solo una colpa, quella di essere stato poco cortese con la signora, ma non ho rubato e soprattutto non ho ucciso nessuno!>> cercò di scandire bene quelle ultime parole.
<<Di una cosa sono certo>> riprese a parlare D’Altri, <<in questa stanza c’è chi ha ucciso la signora Jay>>.
L’atmosfera era molto tesa. Iniziai a colpire col becco la mia gabbietta.
<<Proprio adesso deve farsi il becco quel canarino?>> esclamò infastidito il detective.
Squillò il cellulare del detective che lo estrasse dalla tasca della giacca e rispose <<Salve dottor Scalpel, come dice? Beh, si, se non sbaglio la signora stava preparando il pranzo. Attenda un attimo che la metto in viva voce. Ha ragione, mi rendo conto che non dovrei, aspetti mi faccia spiegare, abbiamo i sospettati in soggiorno… bene sono felice che abbia capito, attenda un attimo… ecco ora la sentono tutti>> mise il telefono sul tavolino, vicino al divano e annunciò chi stava per parlare.
<<Buongiorno a tutti, in qualità di medico legale vi comunico che la signora Jay è morta per dissanguamento dovuto alla penetrazione di un coltello da cucina nella parete addominale fino allo stomaco, provocando una emorragia molto estesa. Questo evento ha provocato in primis la perdita di coscienza e conseguentemente la morte.>> Il dottore prese fiato.
<<Ci sono due particolari che mi hanno incuriosito, ma prima ditemi, cos’è questo rumore che sento, simile ad un ticchettio?>>.
<<E’ il canarino che sbatte il becco sulla gabbia>> spiegò Moses.
<< Interessante. Il primo è della cipolla sotto le unghie. Se la stava tagliando poco prima di essere colpita è probabile che abbia avuto la vista annebbiata e non si sia accorta dell’arrivo del suo assassino. Il secondo particolare curioso sono dei segni simili a dei graffi appena sopra la fronte, vicino all’attaccatura dei capelli. Ah quasi dimenticavo, c’era una piuma gialla infilata tra i capelli>>.
Ho avuto la percezione che si siano tutti girati contemporaneamente a guardare la mia gabbietta. Rimasta vuota. Ero volata sulla finestra aperta. Il detective D’Altri quasi riuscì a prendermi, ma io uscii e iniziai a volare. Che bella sensazione. L’ultima cosa che sentii fu il mio nome pronunciato dal signor Hop. Mi spiace tanto per lui. Avevo ucciso sua moglie, ma non volevo farlo. Almeno credo. Non avevo più semi nella mangiatoia e continuavo a farle notare questa mancanza fischiando e sbattendo il becco sulla gabbia. Ma lei non mi degnava di uno sguardo. Poco dopo che se ne andò il corriere, ho aperto la gabbia e le sono volata in testa. Non mi ha vista arrivare, si è dimenata e muoveva le braccia per cacciarmi, tenendo in mano quel coltello così grande. Poi è scivolata cadendo in avanti, colpendo il forno con la testa mentre la mano che teneva il coltello rimase sotto il suo corpo, finendo col ferirsi da sola. Mi spiace signor Hop, mi spiace davvero. Le vorrò bene per sempre. Anche se, per un canarino giallo in un mondo di volatili poco colorati, sempre, durerà poco!
Racconto “Lo strano caso della signora Jay” scritto da Roberto Perina
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
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I Lunedì di LuccAutori – L’angelo – Gino Dondi
Quell’estate, quella maledetta estate, Cesco e Lucia andarono al mare pochissime volte. In agosto la tradizionale crociera verso sud con gli amici era saltata.
Ormai era l’ultima settimana di ottobre, l’estate finita da molto, gli alberi perdevano le foglie ma in quei giorni non era ancora freddo. Il meteo quel sabato prometteva tempo variabile. Cesco voleva prendersi una pausa: “Lucia che ne dici, ci facciamo due giorni in barca? Soli, io e te. Potrebbe aiutarci a…”
“No”, l’interruppe “mi dispiace, non me la sento. Hai chiesto a Denis e Luca?”
“Hanno impegni. Potresti…”
“Non insistere”, ribatté e lo fissò come se il suo sguardo lo volesse avvertire di ovvi significati, ma che lui non volle cogliere.
“Ti spiace se vado io?”
“No. Va’ pure.”
“Tu?”
Lei non rispose.
Cesco fece per andarsene poi si girò: “Le cose succedono. Non serve…” Lei l’interruppe: “Non mi va’ di parlare. Cerca di capirlo,” lo disse con voce dura, astiosa.
Lui non aggiunse altro. Non c’era altro da aggiungere. Diede un fugace bacio sulla guancia della moglie, salì in camera, si cambiò e prese lo zainetto, sempre pronto, e partì.
Entrò in autostrada a Fornovo, il traffico era abbastanza intenso.
Viaggiava spedito, ma sempre entro i limiti di velocità: a volte i centotrenta, oppure meno.
Superato Borgotaro, forse casualmente, guardò nello specchietto e vide arrivare veloce una Bmv X6. Cesco accelerò.
‘Non farlo’, si disse.
Con quel mostro non c’era gara, ma sapeva che i successivi dieci chilometri di salita erano di curve strette e gallerie, e lì avrebbe potuto dire la sua..
‘Non farlo’, si ripeté. Nella sua mente risuonò la voce di Lucia: quante volte avevano discusso, e lei si era arrabbiata, e aveva ragione.
‘Qualche chilometro poi rallento’, si disse sapendo di mentire.
Non era solo il gusto della sfida, l’istinto della competizione, che pure aveva sempre avuto. Era di più. Era la Bestia Nera dell’aggressività. Tenuta dentro, in una gabbia di rispetto degli altri, di educazione ricevuta. Ma la Bestia Nera c’era e doveva sfogarsi in qualche modo. Negli ultimi tempi era cresciuta, diventata ingombrante.
Il cuore gli batteva violento nel petto. Le mani artigliate al volante. Gli occhi che saettavano dalla strada allo specchietto. Le gomme che gemevano sull’asfalto. A volte l’X6 lo sorpassava e subito dopo Cesco lo metteva dietro. ‘Sei uno stronzo’, si ripeteva: e lo diceva a se stesso.
Due idioti che mettevano a repentaglio la loro stessa incolumità e quella degli altri: lo sapeva.
‘Smettila’, si diceva.
Ma la Bestia Nera ora ruggiva la sua rabbia. Le gomme che stridevano era la sua voce.
Sapeva anche che dopo si sarebbe pentito, si sarebbe dato dello stupido. Sì, gli sarebbe venuto il magone a pensare quanto era stato infantile; ma questo sarebbe successo solo quando avrebbe ripreso il controllo di se stesso. In quel momento l’aggressività imponeva la sua violenza.
All’entrata della galleria del valico Cesco rallentò vistosamente, come a dire: vattene pure, io vinco nella parte ‘guidata’ non in rettilineo.
Quando sbucò sul versante toscano piovigginava.
Cesco era deluso da se stesso, doveva digerire il boccone amaro di sentirsi uno stupido.
Ma non solo quello: un dolore infinito aveva devastato la sua vita e da allora sfidava il destino con aggressività, forse con il desiderio inconsapevole di farla finita.
All’area di servizio di San Benedetto si fermò. Sentiva di doversi sciacquare la mente dalle
tossine che lo ammorbavano. Con l’auto andava lento, cercava uno spazio vuoto per parcheggiare, d’un tratto, dall’altra parte del piazzale gli parve di vederla. Il cuore si fermò, poi si mise a martellare violento. “Chiara!”, urlò. E subito si rese conto dell’assurdità di quel grido. No, non poteva essere lei. Doveva mantenersi razionale: lo sapeva. I suoi pensieri potevano diventare relitti sballottati in un mare di irrazionalità. Doveva evitarlo.
Ripartì.
Dopo Aulla il sole stava comparendo lentamente, quasi controvoglia.
Ancora mezz’ora e arrivò a Fezzano. Il porticciolo era quasi deserto. Percorse il pontile lentamente guardando barche bellissime di dodici, quindici metri, le ammirava sì, ma senza invidia: lui era legato alla sua non più giovane e neanche tanto appariscente Aziza. No, non l’avrebbe mai cambiata. Mai.
Poi eccola, finalmente. Si fermò sul pontile, posò lo zainetto e la guardò.
Sentì la memoria retrocedere, davanti ai suoi occhi riaffioravano in un unico sguardo le veleggiate tranquille nel mare buono, l’adrenalina col mare cattivo, le dormite sulla tuga con il sole che ti cuoce la pelle. Il Gps che ti dice dove sei e dove andrai: Punta Bianca, le secche della Meloria, San Vincenzo, il golfo di Baratti, l’Elba, poi Capraia e la Corsica. E le sere alla luce morbida della lanterna a mangiare pesce pescato e intanto parlare di letteratura, discutere di politica con Luca, Denis, Willy, Patrizia. Raffiche di passato lo sconquassavano. Con un balzo salì a bordo e si sedette. Con la mano carezzò il timone, tiepido di sole, e rivide Lucia che portava la barca con sicurezza, i capelli scompigliati dal vento. Anche a Chiara piaceva timonare.
Un magone pesante gli attanagliava la gola. Decise di partire, subito. Aprì il boccaporto, prese il salvagente di poppa, il Gsp e risalì in coperta, aprì il rubinetto della nafta e accese il motore. Sganciò le cime di ormeggio e diede gas. Aziza partì lenta e sicura, percorse il breve tratto di porto poi, fuori.
L’aria era pulita, frizzante. Un po’ di onda la faceva dondolare, pareva fosse contenta di andare. Superata la diga foranea ecco il mare aperto. Cesco mise la prua al vento e aprì la randa. Spento il motore, aperse anche il fiocco. Un leggero maestrale gonfiò subito le vele. Direzione sud. Alla destra l’isola Palmaria, poi il Tino. Poi dritto verso la linea dell’orizzonte dove mare a cielo si confondono. Veleggiò per diciotto miglia, e per quelle quattro ore si concesse il lusso di non pensare.
Il sole alto gli disse che era tempo di tornare. Virò, ora il maestrale lo aveva di poppa, virò ancora e sentì il vento graffiargli la sinistra del volto. Direzione 340 gradi.
Un’ora dopo vide affiorare dalla linea incerta dell’orizzonte la sagoma ingobbita di Montemarcello. Ora Aziza avanzava veloce con un maestrale rinforzato. L’ombra delle vele sul mare si faceva via via più lunga, ed ecco Punta Bianca, Tellaro.
Il giorno se ne stava andando, la luce smagriva lentamente, ostinata a non finire. Non gli andava di tornare, non voleva farsi inondare la mente dai fantasmi. Virò a sinistra, senza dirigersi verso il varco della diga foranea. Avrebbe gettato l’ancora in una rada.
Telefonò a Lucia: “Questa notte rimango qui, sono ancorato alla Palmaria, tranquilla va tutto bene. Torno domani.” Cesco fece per spegnere poi non seppe resistere all’impulso di aggiungere: “Oggi…?”
“Oggi come ieri”, disse Lucia con tono scontato, ma il dolore non era difficile da scorgere.
Avrebbe voluto dirgli che rintanarsi in se stessa non era il modo per superare la disperazione, ne avevano già discusso, invece disse solo: “Va bene. A domani.”
La luna galleggiava in un cielo blu intenso che di lì a poco sarebbe diventato nero.
Con il buio l’aria rinfrescò, ma non gli andava di chiudersi dentro. Rimase lì a guardare in lontananza le luci di Lerici che bucavano l’orizzonte. Scese sottocoperta, cercò qualcosa da mangiare, trovò solo una scatoletta di tonno e dei grissini. Nel frigorifero una bottiglia di vermentino di Sardegna. Tornò in coperta. Senza preparare il tavolino aprì la scatoletta e sturò la bottiglia. Mangiò qualche boccone e trangugiò un bicchiere di vino, poi un altro e un altro ancora. La rada era imbevuta di silenzio. Le stelle ora si vedevano nitide. Piccolissime macchie di luce. Si chiese se in quella profondità ci fosse un dio. Improvvisamente, come se i pensieri tenuti compressi nel fondo del cervello per tutta la giornata volessero esplodere nella sua mente, si sentì sommergere da uno strano sgomento. Rivolse lo sguardo su in alto e bisbigliò: “Dove sei Dio? Dove?” Avrebbe voluto gridare, ma aveva la gola attanagliata da un nodo inestricabile. Poi lo fece. Si alzò in piedi e gridò: “Dove sei Dio giusto e misericordioso? Perché mi hai dato la felicità, mi hai concesso quella creatura angelica per poi strapparmela via. Con quale logica, per quale castigo?” La notte nera gli fece udire solo lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo. Dentro di sé nessuna risposta. Solo una domanda: ‘Perché?’, si ripeteva. Senza usare il bicchiere, alzò il fondo della bottiglia e trangugiò finché il respiro lo consentì. Prese fiato, e ancora il vino scorreva dentro il suo corpo come se volesse lavar via il magone che lo mordeva.
‘Non ho strumenti capaci di capire, non ho parole capaci di consolare’, si disse. Una sottile rabbia gli stava montando dentro, riuscì solo a chiedersi: ‘Dio, se è vero che esisti da qualche parte, perché lasci sprofondare in questo abisso di disperazione questa tua creatura? Eh? Perché?’, protestò. Ma Lui, Dio, non gli rispose, allora Cesco pensò di maledirlo. Restò qualche momento immobile, il suo corpo fermo, la sua mente ferma. No, non riusciva ad amarlo, non più, ma nemmeno a imprecarlo.
“Chiara!!”, gridò al cielo, come se lei potesse sentirlo. Poi Cesco si accasciò sul pagliolo, raggomitolato in una posizione fetale. Sentì le lacrime scendere sulle guance. Come un coltello affilato quelle lacrime squarciarono la sua corazza e il suo pianto si fece dirotto, infantile.
Aziza dondolava dolcemente, cullando nel suo grembo quel corpo che sussultava squassato dai singhiozzi di un pianto liberatorio. Lentamente la coscienza di Cesco si sciolse, vinta dal vino e dalla stanchezza.
Più tardi il freddo intenso della notte lo svegliò. Aveva gli arti rigidi, la bocca impastata. La testa girava. Scese sottocoperta, si buttò sulle lenzuola della cabina di prua, lì dove con Lucia aveva parlato, riso, dormito, e anche fatto l’amore.
Lì avevano concepito Chiara.
Sì, proprio lì era iniziata la sua breve fantastica vita. Da allora anche quella dei genitori era diventata fantastica.
Dopo qualche mese il matrimonio, poi la sua nascita, poi quell’angelo che era tutta la loro vita. Poi un giorno un saluto rapido e qualche passo di corsa, poi lo stridore delle gomme sull’asfalto, poi un tonfo sordo, poi l’urlo lacerante della sirena, poi i passi in corsia.
Poi l’attesa.
Il tempo che rallentava. Si fermava.
Poi lo sguardo muto di un medico a dire tutto.
A dire che tutto era finito.
Racconto “L’angelo” scritto da Gino Dondi
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Opera pittorica – Creatività, libertà – Umberto Verdirosi
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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VERSILIA LIBRI – POKER D’INCUBI – intervista a Lié Larousse e Gianluca Pavia – DuediRipicca
VERSILIA LIBRI – Sabato 18 marzo alle ore 12 su Radio Versilia fm 103.5 va in onda la rubrica “Versilia Libri” a cura di Demetrio Brandi. Ospiti DuediRipicca con “Poker d’incubi” (Alter Ego Edizioni). In replica mercoledì alle 12. Il programma si può ascoltare in diretta streaming suwww.tgregione.it .
Tempo da lupi, si direbbe, e da mostri − tutti troppo umani. Fremiti, brividi, respiri che si spezzano. I personaggi di questa raccolta − un inconsueto prosimetro contemporaneo − hanno paura o fanno paura. Qualcuno potrebbe tirare fuori la parola noir, ma forse a sproposito − perché se c’è qualcosa di nero in questi (guarda caso) 17 poesie più 17 testi perturbanti, è il nero che è già nelle cose. Gli autori lo fanno risaltare giocando con l’idea di incubo, ma si tratta in molti casi di incubi fatti da svegli. Dalla prefazione di Paolo Di Paolo
DuediRipicca sono Gianluca Pavia e Lié Larousse, autori di racconti, romanzi e poesie, a due e a quattro mani. Vincitori del Premio “Racconti nella Rete 2016” e di altri importanti titoli singolarmente, creano la prima mostra itinerante di poesia su tela; collaborano con riviste letterarie, pittori, musicisti, e registi. A livello nazionale promuovono e organizzano eventi artistici culturali.
Attualmente in tour per la promozione di POKER D’INCUBI
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DuediRipicca
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I Lunedì di LuccAutori – La prova ardimentosa – Antonio Fresa
Non mi bagna questa pioggia; cade leggera, come a coprire il mio dolore e a fondersi con le mie lacrime.
Mi avvolge, come la coperta di una notte di mezz’estate in cui ci cullammo, fratello mio speciale, vicini, tu ed io.
Era bello il cielo quella sera, e veniva giù amore dalle stelle, quell’amore che non ho mai più ritrovato, così semplice come allora.
Le traiettorie nel cielo sono sempre ordinate e nette; le nostre, sulla terra, sono assai più complesse. Anche la mia vita ha percorso strade contorte che, però, mi hanno riportato qui, al punto di partenza. In fondo si dice che la meta è l’origine.
Sono seduta, qui, in questo giardino che conoscevi bene; qui, dove abbiamo vissuto forse gli unici veri momenti di serenità della nostra esistenza.
In ogni angolo ho celato un ricordo e una voce; conosco le ombre e non ho paura, anche se sono desolatamente sola, qui. Adesso tu non ci sei più e non ho più da portarti a spasso spingendo la carrozzina su cui la malattia ti aveva costretto.
* * *
Tutto è iniziato nel tardo pomeriggio. Dopo una giornata di sole, all’orizzonte il mondo si è chiuso in una morsa grigia e i colori sono cambiati.
Folate di vento ci hanno urlato che l’estate volge alla fine, ed è tempo di chiudere la casa e tornare in città.
Un rito che un tempo ci faceva intristire, ricordi? Era il segnale che la scuola si avvicinava e che la libertà estiva sarebbe stata sostituita da giornate ordinate e ripetitive. Tu amavi questa vita senza troppi orari che la casa di campagna ci concedeva; non ti sono mai piaciuti gli orari e le scadenze. Per svegliarti abbiamo inventato tanti trucchi e riti, E ti arrabbiavi, sempre.
Poco prima che la pioggia scatenasse la sua ira caricando il mondo a testa bassa, c’è stato quell’attimo di sospensione che tu avevi battezzato con un nome aulico e pomposo: “la prova ardimentosa”.
La “prova ardimentosa” era la tua; poi divenne la mia, quindi di nostro padre e infine della mamma.
La “prova ardimentosa” è la differenza fra quelli che portano tutto dentro perché “tra poco pioverà a dirotto”, e quelli che restano lì, in attesa di incontrare la pioggia e il vento, senza paura, senza tremare.
La “prova ardimentosa” finì con l’unire tutta la famiglia, in un colossale, universale, meraviglioso abbraccio: tutti sapemmo per un istante di essere te.
Noi eravamo perché tu eri, perché tu eri un essere speciale che ci riconsegnava alla gioia della vita. Il mio fratello perduto che accompagnava la mia vita: occhi aperti sulla mia anima.
* * *
La prima volta che ti vidi sotto l’acquazzone, che quasi senza avvisaglie si era scatenato sulla villa, non compresi subito quello che facevi.
Ti vidi, a mani aperte e a bocca spalancata, bere l’acqua e cibarti dell’aria fresca. Sembravi un pazzo, un pazzo bellissimo che attinge alla vita, mentre tutti intorno a lui fuggono per mettere in salvo cose e averi. Tu eri quello diverso da tutti noi, che ti guardavamo quasi con disperazione.
Sulle prime, con l’arroganza di quelli che non conoscono il dolore, pensai che stavi lì, perché non eri in grado di muoverti da solo e che, per mettere in salvo tante cose, avevamo dimenticato proprio te. Mi preoccupavo di quello che poteva accaderti.
Poi vidi quel sorriso che conoscevo, nascere sul tuo viso; quel sorriso che tu solo mi hai saputo mostrare; il sorriso perduto e bellissimo di chi accetta la vita fino in fondo senza se e senza ma.
I capelli incollati alla testa, le mani alzate a imbuto e il tuo gracile corpo rilucevano come un arcobaleno mistico. Tu mi stavi guidando a te e accettai la sfida. Tu non eri stato dimenticato; tu avevi scelto di restare ad attendere la pioggia.
Tu eri lì magicamente enorme, in quel tuo corpo piagato dal male che ti costringeva sulla tua carrozzina; eri un eroe moderno che urla il suo atto d’amore alla vita.
Finalmente compresi. Corsi da te e ti abbracciai e divenimmo una cosa sola, come solo un fratello e una sorella possono essere: e capii di amarti, di non vergognarmi più di te, di non aver più paura degli sguardi degli uomini stupidi e cattivi.
Bagnati, ci incollammo l’uno all’altro, e sperammo che potesse essere per sempre così; e lo comprese nostro padre; e lo comprese nostra madre, che, dopo urla inutili per farci rientrare, vennero verso di noi e si strinsero a noi. Benedetta fu quella pioggia.
* * *
Mi guardo intorno e vedo la siepe e gli alberi che nostro nonno aveva piantato e poi nostro padre aveva curato; guardo quelle linee colorate di fiori che la mamma amava rimpiazzare e rinvigorire; risento il correre frenetico di noi bambini con i cugini nelle lunghe giornate estive.
Questa grande casa di campagna, legata al nome di qualche avo assai ricco, è stato per noi un luogo mitico; oggi è pieno di ricordi, e di persone e situazioni perdute.
In nome di tutto ciò, siedo oggi, ancora una volta almeno, sotto questa pioggia che mi avvolge.
Ti ricordi quando capitavano tutti qui, gli zii, le zie e i cugini? Sorridevi sereno allora. O almeno così ricordo oggi, perché allora non capivo o non sapevo capire il tuo stato d’animo. Allora ero distratta; forse semplicemente non pensavo a te come a una persona particolare.
Eri mio fratello e basta; lo eri da sempre, lo eri per sempre.
Forse era il compleanno di nonna l’occasione migliore per stare insieme, qui, in questa casa che ci conteneva tutti, accogliente e avvolgente; ci sentivamo davvero a casa e davvero una grande famiglia. I preparativi per la festa ci sono sempre piaciuti e ci siamo sentiti tutti uniti nel custodire il segreto con la nonna che fingeva di non capire quello che stavamo preparando.
Ricordi le risate franche e coinvolgenti di zia Marisa quando, con il solito ritardo, capiva le battute di Gino e Lanfranco?
E i goffi movimenti di nostro cugino Piero, bambino di città, come lo chiamava la mamma?
Ricordi quante volte è caduto? Quante volte ha avuto bisogno dei punti al pronto soccorso? Quante volte lo abbiamo trovato piangente per qualche semplice ammaccatura?
A quell’epoca era lui quello strano non certo tu e la tua carrozzina. Tu eri e basta; eri mio fratello.
E ora piango, piango e piango ancora. Le lacrime mi rigano il volto e scendono aiutate dalla pioggia.
Ora piango perché tu non ci sei più. Ora piango perché sei morto ed io sono sola, davvero sola adesso, senza di te, senza il tuo sorriso, senza il tuo corpo speciale e unico, senza il tuo attaccamento alla vita.
Non avevamo più un padre e una madre, ma eravamo ancora insieme ed eravamo una famiglia, come sempre; un po’ più soli, ma eravamo l’uno con l’altro.
Tu non ci sei più e solo adesso capisco quanto tu sia stato sempre più di me, più per me, più per la vita: tu eri la vita, lo eri in modo particolare e più vero. Tu sì, tu davvero, tu unico, tu mio fratello, quello con la carrozzina.
Ho vissuto la mia vita come sai. Mi sento, in fondo, serena delle mie scelte, anche se oggi sono sola in questo enorme prato che un tempo fu pieno di volti cari.
Non ho creato una mia famiglia; non ho scelto qualcuno con cui vivere. Eppure ho vissuto e ho viaggiato; sono andata perché sapevo dove tornare.
Ho sfiorato appena un amore come quello di un tempo e non l’ho saputo afferrare come avresti fatto tu.
La mia prova ardimentosa l’ho fallita per un pelo, perché non ho avuto il tuo coraggio e non ho voluto rischiare le mie poche certezze. E così che accade, potresti farcela, ma ti metti al riparo alle prime gocce di pioggia e non fai in tempo a sentire la voce di chi ti chiama. Hai avuto paura e hai già chiuso la tua finestra, la finestra della tua casa. Così ho fatto io, fratello mio. Oggi quest’immensa casa sembra perdere senso; sola non ho modo di viverla.
* * *
Tu, come disse il piccolo Lamberto, eri il ragazzo magico che non lasciava orme; tu lasciavi solchi con le tue ruote.
E in quei solchi si stendevano le mie impronte nel prato e poi nella terra: c’ero io dietro di te, perché ti spingevo e andavamo; andavamo verso il fiume a guardare i pescatori e i barconi; ti spingevo e andavamo verso le radure a guardare il tramonto. Eravamo tanti cugini; tanti bambini, poi adolescenti, e infine adulti.
Le mie orme erano lì, fra i solchi delle tue ruote; un piede dopo l’altro, ti spingevo.
E oggi, sotto questa pioggia che non bagna, piango perché ho perso i tuoi solchi, ho perso i miei solchi e non so più, dove le mie orme camminano.
Racconto “La prova ardimentosa” scritto da Antonio Fresa
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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I Lunedì di LuccAutori – La lezione di Yoga – Maria Giulia Benini
Arrivò in anticipo di un quarto d’ora. La palestra era al piano terra di un palazzo di periferia. Sulle quattro vetrate si ripeteva una decalcomania inquietante: un essere umano attorcigliato in una contorsione innaturale.
“Sono ancora in tempo” pensò, “adesso vado via”.
Aveva appena ripreso in mano le chiavi dell’auto quando arrivò una tipa dall’aria sognante e con un pallino in fronte che le sorrise.
“Sei nuova, vero? Io mi chiamo Cecilia e sono l’insegnante di yoga. Vieni dentro che apriamo la palestra e ti mostro lo spogliatoio”.
Sospirò e si rassegnò, consolandosi al pensiero che in fondo era solo una lezione di prova.
La colpa era tutta di quella sua amica fanatica di discipline orientali: le aveva fatto una gran ramanzina ricordandole che a trentacinque anni una donna inizia ad invecchiare, che tutto il grasso accumulato non si elimina più e che l’equilibrio della mente e del corpo vanno di pari passo, blandendola infine con la promessa che un po’ di yoga le avrebbe fatto perdere i chili di troppo senza sudare.
Nel frattempo arrivavano gli altri allievi, perlopiù signore cinquantenni, un uomo dall’età indefinibile coi capelli bianchi ma l’aria giovanile, una ragazzina anoressica e poi, un tipo incredibilmente bello, con la faccia di Paul Newman e il fisico di Rudolph Nurejev, inguainato dentro una pantacalza-body aderentissima. Le parve dal modo in cui parlava che non fosse italiano.
L’insegnante le indicò lo spogliatoio femminile, dove le signore avevano iniziato a ciarlare mentre si svestivano.
Inorridì quando vide che tutte rimanevano a piedi nudi, ma fece finta di nulla e si tenne i calzini: dopo una giornata di lavoro i suoi piedi non erano certo fragranti.
Notò che le altre avevano body e tute aderenti. Lei invece aveva rispolverato una vecchia tuta a colori fluorescenti, con banda laterale sulle gambe e sulle braccia, comperata senza neanche provarla a una svendita di articoli sportivi; infatti era come minimo una taglia in più.
Intanto la palestra aveva preso vita.
Una musichetta di sottofondo sembrava prenderla in giro, con tamburelli e strumenti pizzicati, che evocavano leggerezza e agilità, cose che lei non possedeva nemmeno a sette anni.
Nurejev e gli altri erano già seduti a gambe incrociate sopra tappetini dall’aspetto gommoso e fissavano il vuoto davanti a loro.
Starnutì quattro volte di seguito a causa di un odore pungente che le ricordò le canne che si facevano i suoi compagni del liceo, quando vide che la maestra stava accendendo dei bastoncini di incenso negli angoli della stanza.
Qualcuno le disse di sedersi come gli altri.
“Togliti i calzini” le sibilò la sua vicina di posto, ma fece finta di non sentire. Aveva già difficoltà a incrociare le gambe senza sentire un dolore maledetto alle ginocchia.
“Ora, nella posizione del loto, come ringraziamento per quello che stiamo per fare, canteremo l’Om”, fece l’insegnante.
“Inspirate, poi espirate, e…. Oooooooooommmmmmmmm”.
Un coro di voci gravi, acute e stonate riempì la stanza.
Improvvisamente sentì un prurito pungerle la gola. Le capitava sempre così nelle situazioni che trovava ridicole: diventava paonazza finchè non scoppiava a ridere sguaiatamente.
L’insegnante prese il suo rossore per imbarazzo.
“Non devi vergognarti di cantare con noi, vedrai che dopo le prime volte ti verrà naturale. Senti l’energia che si sprigiona dalle nostre voci? La puoi percepire intorno a te!”
Tenendo gli occhi chiusi, mentre quel suono continuava, cercava di pensare a qualcosa di serio o di triste: le tasse, il giorno del funerale della nonna, la bocciatura in quarta ginnasio, i pantaloni taglia quarantotto che non si chiudevano più…
Poi tirò un gran sospiro e l’attacco di ridarella passò.
I primi venti minuti scivolarono via veloci, con una serie di respirazioni e movimenti rilassanti, e stava già esultando, convinta che lo yoga fosse proprio la disciplina che faceva per lei, quando i nodi vennero al pettine.
L’insegnante pronunciò un nome irripetibile, e tutti si capovolsero a testa in giù, con la fronte appoggiata sul pavimento e le gambe per aria. Alcuni lo facevano in mezzo alla stanza, altri appoggiati alla parete o appesi alle spalliere con delle cinghie, come grossi pipistrelli.
Lei rimase immobile, pensando a un modo per fuggire.
Sentì un tocco leggero sulle spalle.
“Adesso anche tu provi. Io aiuto te”.
Era Newman-Nurejiev, scultoreo nella sua pantacalza, che le sorrideva cameratesco. I suoi muscoli erano tonici, vedeva nitidamente i bicipiti che erano proprio all’altezza dei suoi occhi, e aveva un buon odore, forte e selvatico, che le ricordò il muschio.
“No grazie, è la prima volta per me e del resto io ho il terrore di stare a testa in giù, e questa poi è solo una lezione di prova….”
“Tu no avere paura, io tengo stretta, Cecilia fa sempre aiutare principianti perchè io più forza per tenere strette persone pesanti”.
“Non fa una piega” pensò “Mi ha appena dato dell’obesa”.
“Ora metti gomiti appoggiati a terra e fronte in mezzo a mani intrecciate. Io sollevo”.
Fece come le diceva e non ebbe il tempo di pensare che si sentì agguantare per le natiche e dopo un capogiro folle si rese conto di essere a testa in giù, con il nerboruto che la teneva per le gambe.
Le guance le bruciavano e sentiva chiaramente l’odore dei piedi di Nurejev, che le ricordarono immediatamente il provolone piccante; una fila di facce, quelle di tutti gli altri capovolti come lei, la fissava sorridendo.
Respirò, cercando punti di riferimento nello spazio sottosopra.
Poi, improvvisamente, la tragedia.
Il suo intestino, da trentasette anni abituato ad una sistemazione comoda e stabile all’interno di quella pancetta, ebbe forse paura di perdere il posto.
E infatti si ribellò, ribollì, cercò di lottare con la gravità, ma non ci fu nulla da fare, perchè quando lei si accorse di cosa stava per accadere era già troppo tardi.
Fu come un barrito, anzi un coro di barriti, il rumore dell’enorme peto che scaturì da quelle povere viscere capovolte.
Inutile dire che tutti ne furono attoniti, e più che imbarazzati stupiti, ma quello che accusò lo sgomento maggiore fu proprio Nurejiev, che dallo spavento fece un balzo indietro, dimenticando che la poveretta si reggeva dritta solo grazie al suo sostegno.
Un’altro capogiro e piombò sul pavimento battendo forte le ginocchia.
Pensò prima che avrebbe voluto morire, poi, dato che questa non era una possibilità concreta, decise di svenire. E non ci fu verso di farle aprire gli occhi.
Rimase impassibile agli schiaffetti, agli schiaffoni, alle spruzzatine e alle bicchierate d’acqua.
Alla fine chiamarono un’ambulanza.
La caricarono in barella che non dava segno di vita, e si guardava bene dal farlo.
Sentì le voci preoccupate di Nurejiev e della maestra che chiedevano ai barellieri le indicazioni per raggiungere l’ospedale, poi le portiere si chiusero e la sirena iniziò ad urlare.
***
Accese un bastoncino di incenso, tirò le tende per schermare il rosso violento del tramonto che invadeva la stanza da letto e si sistemò sulla stuoia nella posizione del loto.
C’era una calma perfetta. Bussarono piano.
“Non disturbo te se faccio yoga anch’io?”
Era vergognosamente bello anche in pantaloncini e canottiera, sensuale e selvaggio come quel primo giorno che l’aveva visto.
“Ma no Rudy, entra”.
Dopo un anno le era ancora difficile pensare senza imbarazzo a quell’incidente che aveva portato importanti novità nella sua vita.
Lo guardò mentre silenzioso come un felino, con pochi gesti aggraziati appoggiava la fronte sul pavimento e si capovolgeva nella posizione sulla testa. Ci sarebbe rimasto come minimo venti minuti.
Giunse le mani davanti al petto, chiuse gli occhi e assaporò il profumo della felicità, fatto di muschio selvatico, incenso e provolone piccante.
Racconto “La lezione di Yoga” scritto da Maria Giulia Benini
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Opera pittorica – Lasciati andare, ridi – Davide Cocozza
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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I Lunedì di LuccAutori – La palla nel deserto -Stefania Paganelli
Il capo-cammello si fermò di colpo, anche il vice capo-cammello, dietro di lui, si fermò di colpo e quindi anche il vice vice capo-cammello si fermò di colpo, tutti i cammelli incolonnati si fermarono di colpo.
“Perché si saranno fermati?” chiese il capo-carovana al vice capo-carovana, “non so” rispose il vice capo-carovana e si girò verso il vice vice capo-carovana, ma neanche lui lo sapeva.
Il capo-carovana andò davanti al capo-cammello per vedere cosa l’avesse fatto fermare e la vide…
Vide una palla marrone a pochi centimetri dal muso del capo-cammello.
“Cosa ci fa una palla nel deserto? Qui tra le dune infuocate?” si chiesero tutti.
Se c’è una palla ci deve essere un bambino, magari più di un bambino; dove c’è una palla di solito c’è anche un bambino e poi le palle non finiscono mica da sole tra le dune nel deserto.
Quindi cercarono dietro le dune, cercarono davanti alle dune, cercarono a destra e a sinistra delle dune, ma di bambini nemmeno l’ombra.
“Forse è una palla da adulti” ipotizzò il capo-carovana. Eh sì, sembrava proprio una palla da adulti, infatti non era proprio rotonda, era un po’allungata. Solo agli adulti può venire in mente di usare palle allungate, i bambini lo sanno bene che le palle devono essere rotonde.
Che ci puoi fare con una palla allungata, non rotola mica bene!
Quindi cercarono dietro le dune, cercarono davanti alle dune, cercarono a destra e a sinistra delle dune, ma di adulti nemmeno l’ombra.
“Questo è un bel dilemma” si dissero l’un l’altro, un quesito con i fiocchi, c’era da perderci la testa.
Mentre gli adulti confabulavano tra loro, i figli del capo e del vice e del vice vice capo-carovana si avvicinarono: “Papà possiamo tenerla noi questa palla?” chiesero ai loro padri.
“Non se ne parla nemmeno” risposero all’unisono i tre.
“Dobbiamo trovare il legittimo proprietario e chiedere a lui. Non vorrete mica rubarla?”
Erano un popolo fiero loro, certe cose non le facevano!
“Come facciamo a sapere chi è il proprietario?” chiesero i bambini.
“Aspettiamo. Se qualcuno l’ha persa, la starà cercando e arriverà fino a qui”.
“Rompete le file! Accampiamoci e aspettiamo”. Cosi la carovana si preparò per la notte.
Si stava alzando un forte vento e quando nel deserto si alza un forte vento…
Il capo-carovana prese la palla e la portò nella sua tenda: “non si sa mai” pensò “non è proprio rotonda, ma con questo vento forte, forse potrebbe riuscire a rotolare via anche lei”.
La mattina dopo, tutti si svegliarono presto e si prepararono per partire.
Nessuno era venuto a cercare la palla e la carovana non poteva aspettare ancora per molto.
Non volevano portarsi via la palla, così come se niente fosse e non potevano nemmeno lasciarla lì con il rischio che arrivasse ancora un vento molto forte.
Pensa tu che penso anch’io, al vice vice vice sette volte vice capo-carovana venne un’idea: “piantiamo un bastone con attaccato un cartello con scritto: “Caro proprietario della palla non preoccuparti, abbiamo preso la tua palla, ma non te la vogliamo rubare, solo proteggere dal vento. Vieni alla piccola città che sta qui vicino, a est, la troverai lì, chiedi del signor Capo Carovana!”
“Bellissima questa idea, bravo! D’ora in poi sarai vice sei volte”. E così fecero. Piantarono un cartello bello grosso e partirono.
Arrivarono alla piccola città e ognuno andò per la sua strada: un vice di qua e un vice vice di là.
Il capo-carovana avrebbe custodito la palla in attesa del proprietario.
La portò a casa sua, la pulì per bene e la mise nella sua cassaforte, poi se ne andò al mercato per certi suoi affari.
Alcuni giorni dopo, quando ormai nessuno pensava più alla palla, il vice sei volte capo-carovana, quello del cartello, se ne andava bighellonando qua e là, nel centro della cittadina. Stanco di camminare si fermò al chiosco che vendeva bibite fresche. Salutò il proprietario e si sedette ad un tavolo con un bel bicchierone di bibita fresca. Poi prese uno dei giornali che stavano lì in bella vista e cominciò a sfogliarlo.
Un titolone bello grosso attirò la sua attenzione: “Chi ha visto la mia palla?” diceva il titolo.
“Toh! Qualcuno ha perso una palla e noi abbiamo trovato una palla, sarà mica la stessa?” si chiese.
Cominciò a leggere con attenzione l’articolo, era l’intervista ad un giocatore di rugby.
“Rugby? E che gioco è il rugby?” si chiese. Non lo sapeva e allora lo chiese al proprietario del chiosco: “scusa signor proprietario, tu sai che gioco è il rugby?”
“E’ un gioco che si gioca lassù al nord dove fa sempre freddo e piove molto”. “E’ un bel gioco?”
“Non saprei, si gioca con la palla, ma è una palla strana non è rotonda”.
Il vice sei volte fece un balzo sulla sedia. Una palla non rotonda?
Continuò a leggere l’articolo, il giocatore raccontava che qualche giorno prima stava giocando una partita importante e la squadra vincitrice avrebbe vinto una coppa importante.
Purtroppo però nessuno aveva vinto quella partita e quella coppa importante.
“Non abbiamo potuto finire la partita perché non si può finire una partita se non si ha più la palla. Prima noi la palla ce l’avevamo e anche bella, ma ora non l’abbiamo più”.
“Perché non l’avranno più?” si chiese il vice sei volte.
“Perché non l’avete più?” chiese l’intervistatore.
“Perché un giocatore l’ha lanciata così forte, ma così forte, così in alto ma così in alto, così lontano ma così lontano che… nessuno l’ha trovata più” rispose il giocatore.
“Per favore se qualcuno trova la palla, ce la può riportare? E’ importante, dobbiamo finire quella partita molto importante”.
“Per mille dune infuocate!” esclamò il vice sei volte “qui la faccenda è seria”. Si alzò all’istante
e uscì in fretta e furia, prima però chiese al padrone del chiosco se poteva prendere in prestito il giornale. “Te lo riporto appena posso, è per una faccenda molto importante”.
Corse, veloce come una gazzella, a chiamare il capo carovana e anche il vice e il vice vice. “Venite presto. Ho trovato il padrone della palla” urlò, senza più fiato in gola ai tre, sventolando il giornale.
“Aspetta, ritrova il fiato e poi ci racconti” suggerì il capo carovana. Appena il vice sei volte si calmò e ritrovò il fiato per parlare, fece vedere il giornale ai tre. Il capo carovana lesse ad alta voce l’intervista al giocatore.
“Per mille cammelli assetati! E adesso che facciamo? Dobbiamo restituire la palla al più presto o quella partita importante non finirà mai! Le cose importanti bisogna sempre finirle!” continuava ripetere il capo-carovana.
Per prima cosa decisero di tornare nel punto dove avevano trovato la palla, là nel deserto. Andarono a prendere la palla e i cammelli, sia il capo-cammello che il vice capo-cammello che il vice vice. Il sei volte vice prese il suo sei volte vice capo-cammello e tutti insieme partirono.
Vollero partire con loro anche i figli del capo carovana e di tutti i vice. Quando c’è da correre di qua e di là, magari con una palla, tutti i bambini vogliono esserci.
“Che cos’è il rugby?” chiese il vice vice mentre camminavano nel deserto “è un gioco con la palla e si gioca lassù al nord dove fa sempre freddo e piove molto” spiegò il vice sei volte, che l’aveva appena saputo dal proprietario del chiosco.
“E dov’è lassù al nord” “beh, lassù al nord è… è lontano. E’ lassù al nord, appunto”.
“Andiamoci, prepariamo la carovana e partiamo”; il vice vice la faceva facile, ma il capo carovana che la sapeva lunga, spiegò che lassù al nord era troppo lontano per andare a piedi o con il cammello e poi c’era il mare e pure qualche monte alto.
“Per far prima dovremmo prendere l’aereo”.
“Io non ci posso andare, l’aereo mi fa paura” disse il vice, “neanch’io ci posso andare, il freddo mi fa paura” disse il vice vice.
“Ci vado io” disse il vice sei volte “io non ho paura di niente”.
“E bravo il nostro vice sei volte; d’ora in poi sarai vice cinque volte” si complimentò il capo-carovana.
Intanto arrivarono al punto preciso, c’era ancora il cartello ben piantato tra la sabbia.
“A questo punto non serve più, il proprietario l’abbiamo trovato noi”.
“C’è un problema però” disse il capo carovana “non sappiamo dov’è il posto della partita importante. Il giocatore non ha scritto l’indirizzo. Dove gliela porti la palla se non sai dove portare la palla?”
Davanti a questo nuovo problema, che sembrava davvero troppo grosso, tutti gli adulti ammutolirono. Non sapevano cosa fare, avevano trovato il proprietario della palla e non sapevano dove fargliela avere.
“Potremmo cercare anche noi un giornale e scrivere: “signor proprietario della palla, la tua palla l’abbiamo noi, ma noi non sappiamo dove sei, adesso scriviamo dove siamo noi, così tu puoi venire a prendere la palla” disse il vice cinque volte.
“Ma sei proprio un genio” disse il capo carovana, d’ora in poi sarai vice quattro volte.
“E’ vero, sei proprio un genio” dissero il vice e il vice vice. Il vice propose addirittura che lui diventasse subito vice al posto suo “sono troppo vecchio per essere vice e tu sei giovane e intelligente. Prendi il mio posto” “No signor vice, stai lì tu al tuo posto io sono troppo giovane diventerò vice tra un po’”.
Mentre stavano discutendo su come fare a trovare un giornale dove scrivere il messaggio per il proprietario della palla, si sentì un “Oooooh”. Subito gli adulti si girarono verso i loro figli.
Si erano dimenticati di loro, immersi nelle loro chiacchiere, ma i figli non si erano dimenticati della palla, l’avevano presa piano piano e l’avevano guardata per un po’.
“Non vi sembra che voglia giocare questa palla?” “Si sembra anche a me; è stata chiusa troppo tempo nella cassaforte di mio padre. Le palle sono fatte per giocare, se non giocano stanno male, soffrono”.
“Anche i bambini sono fatti per giocare con le palle, se non ci giocano stanno male, soffrono”.
Capito ciò, avevano deciso che non era bello soffrire e non era bello fare soffrire una palla così bella. Quindi avevano iniziato a giocare.
Anche se era una palla poco rotonda e molto allungata non era poi male, non rimbalzava perché nel deserto nessuna palla rimbalza, ma quando la colpivi sapeva volare molto in alto.
Ad un certo punto c’era stato bisogno di tirare un rigore (i ragazzi non sapevano se nel rugby ci fossero i rigori, perché loro non conoscevano il gioco del rugby, però a loro i rigori piacevano quindi…) quindi, il figlio del vice capo-carovana, che era il giocatore migliore di tutta la carovana, aveva messo la palla per terra, fatto una lunga rincorsa e colpito forte la palla.
L’aveva colpita così forte ma così forte, l’aveva tirata così in alto ma così in alto, così lontana ma così lontana che… nessuno la vide più.
Nessuno di loro lesse il giornale il giorno dopo. Peccato! Se l’avessero letto avrebbero saputo che finalmente la palla era stata ritrovata, la partita importante era stata finita e una delle due squadre aveva potuto vincere la coppa importante.
Racconto “La palla nel deserto” scritto da Stefania Paganelli
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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I Lunedì di LuccAutori – Turning point – Filippo Cartosio
Gli appuntamenti di lavoro schedulati in giornata dal Fiz erano tre, alle 10 un centro media, alle 12 un cliente toiletries da 300k e alle 15 lo staff meeting settimanale per ribaltare i suoi sales pericolosamente in ritardo sugli obiettivi del terzo quarter. Poi alle 18 una sessione di 70 minuti alla BodyVip col nuovo personal Herculano da Silva e infine alle 20 un momento business/leisure allo Spazio Hangar Design, dove lo aspettava l’evento di WoboGodoDigiMedia, l’editrice all digital del Bigetti, suo vecchio amico a cui fra l’altro aveva in animo di proporre una partnership veramente dirompente. Per quell’incontro serale si era preparato un’irresistibile selling proposition, ma ora, al volante del Road Killer nero di 5 metri e 60 con cui stava scannando in Melchiorre Gioia diretto al primo appuntamento, non c’era verso di metterla a fuoco: lo distraevano le continue notifiche di matching che gli piovevano sullo smartphone, con gentili suoni orientali, da Pantegana.com, la app di dating per fare ons con donne brutte, di cui per motivi commerciali era stato early adopter, hard user e top ambassador, causa ed alibi di una vergognosa schiavitù.
“Questo” pensò Orto quasi sciogliendosi. E guardando con fastidio oltre la finestra dell’ufficio il grigiore nefasto dei tetti di Semolinia, mandò in stampa la pagina Linkedin. Lo sfolgorante job title della vacancy era ‘head of digital happyness’ e a lanciare una call così disruptive, così challenging, infrangendo ogni vetusta convenzione di senso, era WebRocket, una go-to-web agency la cui elettrizzante mission era, se aveva ben tradotto il company profile, cambiare i paradigmi, contaminare le culture professionali, smaterializzare i processi, trasformare aziende in ‘lovebrands’. Fra i requirements – 27 voci una più demanding dell’altra, una specie di SuperIo persecutorio in forma di elenco puntato che lo minacciava dall’alto di un trono con occhi divampanti e mento virile, ma vellicava il suo amore per le sfide impossibili – lo avevano colpito la disponibilità a lavorare ‘around the clock’, la capacità di seguire un progetto ‘womb to tomb’ e l’attitudine ad essere naturalmente ‘eye-to-eye’ con la brand equity del cliente. Ma più del job title parossistico ai limiti del dadaismo, più del fervore evangelizzatore del company profile, più dell’estremismo sfidante dei requirements, a mandarlo in visibilio, spingendolo a precipitarsi a fare l’application, era stata la fantasmagorica location della dot.com: WebRocket infatti era in 47SkySpace, 900 metri di co-working disseminato di startup digitali al 47° piano dell’Isozaki Building in CityLife, lassù, nel cloud, dove lo spirito rovente della creatività si slancia nel cielo cristallino dell’innovazione, e si muovono freneticamente su decine di progetti eserciti di jeans skinny, frangette, occhiali grossi, ciuffi spettinati e camice optical abbottonate fino al mento. L’eden.
Erano le 20.45, il planning della giornata era stato quasi rispettato e il Fiz, che aveva scaricato tensione facendosi massacrare per oltre un’ora sulla panca da Herculano, diede un’occhiata distratta all’invito su cartoncino glossy, sul quale era pinzato un braccialetto di gomma bianca con chip, imprescindibile vip-area pass.
WoboGodoDigiMedia Experience
Upfront e Party
25 maggio 2016
Spazio Hangar Design 71
Fulvio Testi 71, Milano
8 p.m. Registrazione ospiti
8.30 p.m. Fusion finger food by Germando Chef
9.30 p.m. Upfront
10.30 p.m. till late Djset by Romiro De La Vigne
*Vip area: Open bar by Milano Lounge (white bangles only)
Dress code: young urban creative
La ghiaietta del park dell’Hangar scricchiolava con suono allegro sotto gli pneumatici oversize del suo 6 metri, mentre lui si guardava attorno alla ricerca di un posto. Ma l’enorme piazzale dell’ex fabbrica di aerei era overbooked: non ci entrava più uno spillo. “Dov’è che la appendo?” ripeteva fra sé sempre più spazientito. Alla fine trovò un cumulo di terra alto un metro in fondo all’immensa spianata polverosa e diede potenza alle 4 ruote motrici. Solo un Road Killer poteva garantirgli certe prestazioni, pensò sorridendo mentre scendeva calandosi dal finestrino. Rassettandosi il vestito, guardò con attenzione le ordinate file di auto parcheggiate sulla ghiaia dell’Hangar. “Ueilà.. niente niente male…”. Erano migliaia. E continuavano ad arrivarne. Quella sera, dentro, doveva esserci l’intera business community mar/com e adv, tutto il digital, i centri media, la case di produzione, i top spender, e una miriade di millenials e di giovani graziose fanciulle alla ricerca della propria chance: fashion blogger, creative free lance, video maker a partita Iva, web designer, video reporter, conduttrici wannabe. E vippame di vario calibro, as usual.
Immaginando se stesso seduto a gambe incrociate su un tatami al 47° piano dell’Isozaki intento a sprigionare mentorship e good vibes su un staff di giovani creativi alle prese con la campagna di digital pr worldwide di un lovebrand, Orto si diresse trasognato verso la stampante piazzata all’estremità opposta del lungo e angusto corridoio degli Uffici Centrali Unificati. Mentre avanzava, non vedeva le piastrelline color crema sul pavimento, la sequenza di neon giallini, la teoria di grosse e pesanti porte di legno verniciate di bianco nel 1953, né, incastonate su ogni porta, le solenni targhe di metallo con lunghe iscrizioni in corsivo voluttuoso: ‘Direzione Erariale, Servizio Annona ed Economato, Ufficio Protocollo Contratti”. Vedeva solo l’immensa lieve luminosità degli open space dell’Isozaki. A riscuoterlo bruscamente dalle sue fantasie di evasione fu il clangore di ferriera della stampante, dal cui ventre rovente eruttava convulsamente un torrente in piena di fogli A4, che straripavano sul pavimento accatastandosi in immensi cumuli. Impossibile per Orto ritrovare la sua pagina Linkedin stampata. Ed era tutta colpa di Ignazio Sella, il suo attempato collega di scrivania all’ufficio ‘Relazioni con le Amministrazioni Rurali e con gli Uffici Distaccati Sotto-circondariali di Terza Classe’, una mansione di latta che solo la smodata ambizione di Orto, unita a una creatività di sopravvivenza, gli consentiva di tramutare alchenicamente, senza esitazioni morali, nell’oro sfavillante del job title Linkedin ‘Head of Global Communication & Government Relations’. Audacia che non sfiorava invece Sella, uomo senza curiosità e senza ambizione, refrattario a qualsiasi possibile innovazione. Ancora una volta, aveva lanciato in stampa IL file. Trattavasi del file di word su cui lavorava ininterrottamente dal 1997, non avendo mai neanche sospettato l’esistenza del comando ‘Salva con nome’. IL file di Sella, 12.740 pagine, conteneva la qualunque: testi di comunicati ufficiali esecutivi da diramare agli Uffici Distaccati, lettere diplomatiche per i Direttori di Sotto Divisione, discorsi ufficiali dei Secondi Capi di Servizi e di qualche Primo Capo di Servizio, bozze di delibere di Giunta Esecutiva, determinazioni dirigenziali di primo, secondo e terzo grado, appunti sparsi, liste di proscrizione compilate con zelante acribia per il Partito, messaggi romantici per colleghe ormai defunte da anni. Una vertiginosa stratificazione archeologica della vita dell’Ente, per il cui possesso archivisti e filologi avrebbero potuto uccidere.
In cinque anni di lavoro disumano, in cui non aveva fatto distinzione fra il giorno e la notte, fra i lunedì e le domeniche, il Bigetti, un ex YouTuber di 34 anni che sembrava averne vissuti 48 ma ne dimostrava 23, aveva messo su un colosso da 180 videotestate online verticali che coprivano tutti i target immaginabili, con alcuni digital leader come EstinzioneUmana.it (pet lovers), Carestia.com (vegan friends), Sbiottate.net (teens esplorative) e Dentiera.tv (video divertenti nelle Rsa). Si era arricchito a dismisura anche grazie a un imbattibile business model: il contratto ‘JobForFame’ remunerava le prestazioni di redattori e contributors non in banale denaro, ma in ben più ambita ‘viewability’, ovvero in minuti di apparizioni in video di Wobo: per esempio un mese di segreteria di redazione o di editing digitale valeva 1 minuto di presenza su un video di Bullismo.com, testata con una reach del 91% sul target ‘tweens disadattati’, dove era normale raggiungere views a 6 zeri.
Ma al Bigetti il denaro non bastava più: voleva il successo. E quella sera avrebbe celebrato il suo trionfo. Non solo nella business community mar/com, digital e adv, dove ormai era blandito e temuto, ma oltre, sulla ribalta scintillante dell’economia e dello showbiz nazionale. L’obiettivo dell’upfront night di Wobo non era quindi soltanto impressionare definitivamente i clienti pubblicitari e seppellire le residue velleità dei competitor, ormai boccheggianti dopo essere stati implacabilmente vampirizzati di inserzioni, non era solo sancire il più brutale takeover dell’azienda sul mercato, promuovendone l’immagine da semplice leader ad over the top. No, il Bigetti voleva uscire dal suo mondo di nerd e marchettari digitali, che sentiva ormai angusto, e scalare il ranking dei grandi imprenditori nazionali e globali, voleva le prime pagine dei quotidiani, sì quelli di carta tanto vituperati, voleva entrare nei titoli dei tg della sera, sì quelli generalisti che negli anni della sua scalata aveva paragonato al Medioevo, al Male e alla Morte.
Il progetto di cui il Fiz voleva parlare al Bigetti era una partnership fra WoboGodoDigiMedia, che ormai si stava mangiando tutto il mercato, e la WebbaWabbaAdvertising, di cui lui era Head of Sales e Vp Marketing: poiché Webba aveva un’expertise unica nella vendita di formati speciali a clienti premium, che Wobo non aveva mai saputo o voluto costruire nonostante la propria raggiunta egemonia, era naturale collaborare in una logica win win. Gli scocciava un po’ fare la prima mossa, che in affari è spesso segno di debolezza, ma dopo mesi di annusamenti reciproci col Bigetti, suo vecchio amico dai tempi dello Iumc, era arrivata l’ora dello showdown, come quando a scuola a un certo punto le occhiate languide con la compagna carina non bastano più e tutti e due si lasciano andare al primo selvaggio limone, desiderato e sognato sin dal primo giorno.
Col suo braccialetto bianco, quindi, entrò in Area Vip alla ricerca del padrone di casa, che trovò subito, appoggiato al bancone del bar: fra una corona di sgamati executive, trepidi assistenti e incantevoli junior pr, il Bigetti stringeva mani a tutti con larghi sorrisi e mimica partecipe, enfatizzata dal volume altissimo della musica. Vide l’amico e con una strizzata d’occhio complice gli fece intendere che l’avrebbe raggiunto non appena fosse riuscito a liberarsi da giornalisti, adulatori e wannabe. Il Fiz ordinò un drink all’open bar e si accomodò in attesa nell’ultimo angolo di divanetto rimasto libero, innaffiando l’invidia col black russian. “Carissimo!” escalmò il Bigetti materializzandosi dopo neanche dieci minuti. “E così hai fatto il botto, eh? Bravo”. “Così dicono, Fiz, ma lasciali parlare gli invidiosi, qui si lavora giorno e notte. I risultati arrivano col sacrificio, lavorando 24/7”, il che gli diede modo di picchiettare il quadrante di un Patek Philippe da 6k. Il successo lo aveva reso tracotante, ma business as usual, il Fiz illustrò la sua proposta, col dovuto entusiasmo. L’altro lo guardò sardonico e strafottente: “Arrivi un po’ tardi amico, ho il pacchetto di controllo di Webba, guarda qui, deal fatto proprio oggi”. Era un contratto di vendita. Firmato dal Grassani, founder e socio di maggioranza della società col 75%, a cui il Bigetti aveva riconosciuto un prezzo fuori misura. “Sai – spiegò il nuovo padrone toccandogli il braccio – il Grassani è vecchio, si era stancato. Ha figli, nipoti, i soldi li ha fatti, e da questa sera ne ha più di quanti ne abbia mai avuti prima. Ora tocca a noi. Abbiamo idee, forza. E ho già uno strepitoso direttore vendite. Ma parliamo del nostro futuro! Forse sai che qualche settimana fa ho lanciato un nuova start up, un’iniziativa ancora molto piccola, ma promettente, dove voglio sperimentare nuove figure professionali, uno spazio per chi cerca avventure sfidanti che proiettino la remunerazione nel futuro”. Il Fiz taceva, pallido, disorientato, cercando una way out. Ma non ne aveva. Game over. Ecco arrivato il primo grande turning point della sua vita. Nessuno gli aveva mai spiegato come ci si sente. E come se ne esce.
Mentre il tecnico riparava la stampante, che non aveva superato il forte stress del grande File, Orto, tornato alla sua scrivania, getto un’occhiata all’anziano Sella, che serio e compunto imbeveva il timbro nell’inchiostro per protocollare una minuta, e poi aprì il documento Excel con l’elenco delle application fatte nell’anno solare ormai terminato. Erano state 132, e la colonna ‘follow up’ era desolatamente bianca: zero chiamate, zero e-mail, nessun feedback, neanche una gelida risposta automatica. Fu preso da scoramento. Decise di sospendere la ricerca di un nuovo lavoro, del suo turning point che sbloccasse una vita incagliata. Anche l’entusiasmo più acceso non resiste all’accanirsi degli insuccessi. Fu in quel momento che ricevette una chiamata. Il Fiz! Incredibile! Erano 3 anni che non lo sentiva, da quando aveva lasciato Milano per Semolinia ed era sprofondato nello spleen della società semolinica, un popolo di età media spropositata composto esclusivamente da dipendenti pubblici di estrema sinistra sociopatici gravi, le cui attività preferite, sostitutive del lavoro, erano lamentarsi di tutto, sminuire chiunque, criticare le persone positive col fine di demotivarle, guardare tutto e tutti con sospetto e fastidio, odiare il successo degli altri, temere in modo fobico la socialità esplorativa non allontanandosi mai dalla cerchia di amicizie stabilita nei primi 11 anni di vita, evitare ogni forma di nightlife spegnendo le luci della città alle sette di sera, boicottare l’impresa privata con ogni arma di vessazione burocratica disponibile, vestirsi con agghiacciante trasandatezza come forma di protesta passiva-aggressiva, tenere il muso e usare espressioni il più possibile plebee per marcare con compiacimento la propria veracità popolare. Rispose quindi con gioia, certo di essere investito da una ventata di vitalità e di managerial-dinamismo padano un po’ spaccone, ma l’aspettativa andò imprevedibilmente delusa. Il vecchio amico era tutt’altro che spumeggiante, anche se non sembrava aver voglia di dilungarsi in confidenze personali. “Quando torni a Milano?”, gli chiese senza troppi preamboli nonostante il lungo intervallo trascorso dal loro ultimo contatto. “Ci provo da un anno, ma è impossibile”. “Non buttarti giù. C’è una nuova startup a Milano, si chiama WebRocket, è un piccolo spin off di WoboGodo, si dedicheranno a progetti speciali di digital adv. Cercano figure nuove, ad esempio un head of digital happyness e se non sai che mestiere è non farti troppe domande perché domani ti chiameranno per un colloquio. Questa è la tua giornata fortunata amico, il tuo grande turning point”.
Racconto “Turning point” scritto da Filippo Cartosio
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Opera pittorica di Antonio Nunziante – Viaggio Nel Tempo
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
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I Lunedì di LuccAutori – Bevomangiofumo – Michela Tognotti
Questa ve la devo proprio raccontare. A voi, sì, a voi che state leggendo.
Mi presento, sono George. Nessun cognome, un George come tanti.
Bene, dicevo… Ah, scusate, mi accendo una sigaretta, in questo bar ci sono solo amici, chiudono un occhio.
Ahhhh! Che meraviglia! Era da un po’ che non ne fumavo una. Esattamente da un’ora, da prima che arrivasse qui mia madre. Sì, avete capito bene: quella santa donna di mia madre.
Non l’avete vista? Ma come? Era qui, fino a dieci minuti fa, se n’è appena andata…
E allora vi siete persi uno spettacolo di donna. E’ già vecchiotta, sui cinquantacinque, ma si tiene bene.
Ve l’avevo detto che ho trent’anni? No, mi sa che non ve l’avevo detto.
Comunque, mia madre, dicevo, non approva che beva e che fumi, quindi mi sono dovuto trattenere fino a che è stata qui. Mica che abbia paura di lei, no, però mi dispiace se pensa male di me. E’ una salutista, è sempre stata fissata con l’igiene. Per lei sono astemio e non fumo.
E’ chiaro che fa finta di non sapere.
Pensavo che non mi avrebbe mai trovato in questo bar un po’ nascosto, da pokerino, ecco, non da happy hour come quelli che è abituata a frequentare lei con le sue amiche. Sono rimasto a bocca spalancata quando me la sono vista arrivare qui dentro. Una come lei qui, in questo, diciamocelo, letamaio! Non dovrebbe neanche passarci davanti.
Lì per lì ho pensato che ci fosse arrivata tramite una delle sue associazioni benefiche. E’ fissata, quella santa donna, fissata! Ha la mania di voler salvare tutti, soprattutto quelli che non conosce. Però la gente non sempre vuol essere salvata. C’è chi vuole sprofondare nella melma per scelta, non per sfortuna. E lei, no, si sente tanto angelo custode.
Ma così mi sto allontanando dalla storia che vi volevo raccontare.
Ho bisogno però di bere qualcosa: vi dispiace se ordino un bicchiere di vino rosso?
Insomma, dicevo, mia madre piomba qui, a colpo sicuro. Sapeva di trovarmi qui. E sapeva che mi avrebbe trovato in compagnia.
Come dite? Non l’avete vista la persona che era con me? E’ andata via cinque minuti prima che se ne andasse mia madre. Possibile? Oh, ma non avete visto niente, allora! Ok, finisco il racconto, manca poco, ormai. Prima sarà meglio che mi faccia portare due stuzzichini e l’intera bottiglia di questo miele rosso.
Vedete, io sono un attore. Sissignori, un attore di teatro. Off. Molto off. Però me la cavo, ho di che vivere, ho di che mangiare, ho di che bere. E mi diverto. Anzi, me la godo proprio. Ho un buco al Greenwich, un buco che più buco non si può, ma chissenefrega! Non ci sto mai. Mangio fuori, e spesso dormo fuori. Serve solo per cambiarmi la biancheria intima, quando salto tra un letto e l’altro.
Dicevo, dunque: mia madre. E’ venuta qui per dirmi che disapprovava. Oh, beh, detto da lei, non è una novità: disapprova tutto, a prescindere. Voleva che facessi l’avvocato. Ma ci pensate? L’avvocato io, come il mio imbalsamato padre! Da scompisciarsi dalle risate… No, non fa per me. Comunque sia, quella santa donna, senza neanche salutarmi ha cominciato tutta una sequela di rimproveri: e il tuo lavoro, e il tuo appartamento, e le tue relazioni sentimentali, bla bla bla…
Ha battuto soprattutto su quel punto. E naturalmente ne ha avute da dire anche per la persona al tavolo con me. Ora, l’amico in mia compagnia, di cui mi sfugge il nome, Michael? Gabriel? Raphael?, un Arcangelo, insomma, è un amico, ma con moderazione. No di certo fino al punto di sorbirsi le fisime di mia madre. Abbiamo passato la notte insieme, e basta. Di sicuro non lo rivedrò domani.
Insomma, lei pensava che fosse una specie di fidanzato, e intendeva fargli capire che non sarebbe mai stata la remissiva suocera di un gay, come si vedono nelle fiction in tv. Così se n’è andato velocemente.
In realtà di Michael o come si chiama non me ne frega niente. E’ carino, abbiamo fatto sesso.
Chiuso.
Ho dunque cercato di farlo capire a mia madre, che non ho un fidanzato fisso, e che li cambio tutte le sere, o quasi.
Pensavo svenisse, stecchita, qui, su questo pavimento. Il suo Chanel si sarebbe sciolto, al contatto del suolo lercio.
Se n’è andata senza salutarmi, come era venuta.
Starà già pensando a quale Associazione rivolgersi per salvarmi.
Beh, che volete che vi dica, lei è fatta così.
Io sono fatto così. E non voglio essere salvato.
Dovrà farsene una ragione.
E meno male che non avevo ancora ordinato il vino.
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Racconto “Bevomangiofumo” scritto da Michela Tognotti
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”
Opera pittorica “Alcuni cerchi”- Wassily Kandisky -1926
Potete acquistare il volume dei racconti vincitori del Premio
“Racconti nella Rete 2016” edito da Nottetempo, a cura di Demetrio Brandi, in tutte le librerie a distribuzione nazionale oppure on line al link di seguito:
http://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/racconti-nella-rete-2016
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