365 giorni, Libroarbitrio

Tram per Shanghai: viaggio tra i ricordi e i racconti di Zhang Ailing – Fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

La malinconia ha le sue leggi, ti viene a trovare quando meno te lo aspetti e ti resta attaccata come il sale dopo un tuffo in mare. Per me è una presenza costante, mi accompagna dovunque vada, solo che a volte tace, seguendomi in punta di piedi, e allora mi illudo che non ci sia. Oggi, invece, mi ha colpito in pieno petto mentre, aspettando il tram, mi ero persa con lo sguardo fra gli altissimi cipressi del Verano, custodi di lacrime e memorie. Il mondo intorno a me faceva tanto rumore: imprecazioni varie per il ritardo, chiacchiere impastate di fumo, scampanellii e clacson rabbiosi, eppure in quell’attimo mi sembrò di non sentire nulla, o meglio, di riuscire solo a percepire quel suono quasi ineffabile della brezza leggera che fruscia tra i bigliettini rossi traboccanti desideri appesi qua e là nei templi buddhisti cinesi. La prima immagine che mi tornò in mente fu quella del tempio del Buddha di giada a Shanghai, un luogo fuori dal Tempo e dalla metropoli, nonostante poco al di sopra delle mura si possano scorgere i grattacieli che invadono la città.

Shanghai, la “Perla d’Oriente”, è una signora elegante, vecchia e modernissima al tempo stesso. Situata sul delta del Fiume Azzurro, può permettersi il lusso di affacciarsi sul Mar Cinese Meridionale, mentre al suo interno è percorsa da un’arteria pulsante, meglio nota con il nome di fiume Huangpu. Salita sul tram, vedo scorrermi davanti il Bund di Shanghai con la Pearl Tower abbellita da migliaia di luci al neon, a fare capolino dal lato opposto. Dopo un attimo, ecco passare una via di cui non so il nome, ma larghissima e affollatissima: mi vedo schiacciata tra la gente come una formica, e allora, esausta, esco dalla laboriosa calca e mi dirigo verso una viuzza grigia per riprendere fiato. Qui la città sembra silenziosa, mi chiedo se sia ancora la stessa di un secondo fa. Che abbia attraversato qualche confine che ignoravo? No, è sempre la “Parigi d’Oriente, ma della Concessione Francese c’è ben poco qui: non ci sono bar alla moda né forzati accenti inglesi, ma ci sono signore che cucinano su carretti ingialliti dal tempo e dalla frittura, e tanti, tanti operai, con i caschetti gialli e i pantaloni macchiati. Forse vanno a costruire nuovi palazzi in centro o magari qualche albergo di lusso che nemmeno gli “stranieri” più ricchi riescono a permettersi.

Prima fermata, Via dei Sardi, però quando le porte si aprono, mi sembrano quelle del negozio di ravioli dove, dopo un’ora di fila, sono riuscita finalmente ad assaggiare uno di quelli tipici della città, con la zuppa dentro che ti esplode in bocca come uno tsunami di sapori infuocato. Le cuoche avranno la mia età, sono timide ma si lasciano fotografare volentieri dai turisti e ridacchiano tra loro mentre con le dita, velocissime, chiudono un raviolo dopo l’altro. I negozi di souvenirs hanno tutti le stesse cose: nodi rossi portafortuna, monete antiche, calamite della Grande Muraglia, bracciali con perline di legno per le preghiere e chi più ne ha più ne metta. La parte migliore, però, è contrattare con i negozianti in una battaglia all’ultimo Yuan solo per divertirsi a fingere di andar via per farsi rincorrere con l’ultima offerta, che non è mai l’ultima, si sa.

L’umidità di Shanghai, nel frattempo, ha assalito i finestrini del tram e dentro si inizia a sudare, proprio come quel giorno al Giardino del Mandarino Yu (Yu Yuan) dove mi sono ustionata il naso prendendo il sole, seduta sulle pietre del lago Tai incastonate fra le piante più disparate. Una vera oasi, un luogo incantato, nel centro di una delle città più all’avanguardia d’Asia, fra le architetture orientali e l’equilibrio perfetto tra il mondo umano, la casa, e la natura tutta intorno con fiori, alberi, rocce, e laghetti colmi di pesci. In Cina, sin dall’antichità, vige un pensiero per il quale gli opposti non vengono praticamente mai contemplati, tutto è complementare, e così il microcosmo, il mondo umano, è parte integrante e fondamentale del macrocosmo, il mondo naturale e i suoi prodigi.

Ecco la mia fermata, Scalo San Lorenzo. Scendo senza pensarci nemmeno, e mi siedo sulla prima panchina che incontro. Lascio che il sole mi riscaldi il cuore mischiandosi a quella malinconia che già da un po’ stava facendo il suo lavoro, regalandomi di nuovo le sensazioni indimenticabili di quel soggiorno a Shanghai, ormai lontano. La vita scorre veloce al ritmo frenetico della tecnologia e del PIL che cresce a dismisura, ma di Shanghai ho apprezzato soprattutto il fascino antico dei Longtang, vie d’altri tempi che danno vita a veri e propri blocchi di abitazioni dette Shikumen, letteralmente “porta di magazzino in pietra”, che fondono architettura cinese e occidentale in due o tre piani, decorati dalla quotidianità più disarmante, quella che ti riempie gli occhi di una bellezza tutta famigliare che sa di domeniche e pasta fatta in casa. 

Mentre gusto queste dolcissime memorie all’aroma di tè, ripenso alla Shanghai che non ho conosciuto, quella degli anni ’40 che però ho immaginato tante volte grazie alle parole della scrittrice Zhang Ailing (1920-1955) che, cosmopolita come la sua città, ha saputo ritrarre soprattutto le donne di questa ormai megalopoli, con tutte le loro emozioni ed immerse nel loro mondo, costellato di eleganti qipao, tradizionale abito femminile, e vivaci salotti. Mi sembra di sentire il rumore delle tessere di majiang che vengono spostate e rimischiate continuamente nella speranza di trovare la giusta combinazione, un po’ come si fa per la vita. Zhang Ailing in racconti come “Lussuria” – da cui l’omonimo film- ci racconta la Shanghai della guerra antinipponica, dello spionaggio e degli intrighi, dei tradimenti e degli ideali ma soprattutto degli amori che, spesso, si rivelano fatali soprattutto per le donne che mettono sempre un po’ di cuore in più. L’autrice guida il lettore per le vie più distinte e gli anfratti più deprimenti, passando sempre per i fitti pensieri dei suoi personaggi e dedicando ampie pagine descrittive agli oggetti, a tutti quei piccoli dettagli che contribuiscono a costruire in maniera credibile l’atmosfera di un’epoca.

Sperando di avervi invogliato a compiere questo viaggio nel tempo e nello spazio vi lascio un estratto da “Lussuria”:
“Sopra il tavolo da majiang la luce resta accesa anche di giorno e, quando si mescolano le tessere, gli anelli di diamanti sprizzano bagliori a destra e a manca. La tovaglia bianca, i cui angoli sono fissati alle quattro gambe del tavolo, è così perfettamente tesa da sembrare ancora più bianca, d’un candore niveo, quasi abbacinante. L’intenso contrasto tra luci e ombre mette in risalto i seni ben modellati di Jiazhi, e il suo viso, che regge bene anche la spietata illuminazione dall’alto.”

(Zhang Ailing, “Lussuria”, trad. it. M. Gottardo e M. Morzenti, 2007)

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

La conoscenza rende l’essere umano libero – Fiori di pesco e pagine scritte – Martina Benigni

“Considerate la vostra semenza: 
fatti non foste a viver come bruti, 
ma per seguir virtute e canoscenza”

(Dante Alighieri, “La Divina Commedia” – Inferno: C. XXVI)

È appena trascorso il 25 marzo, giornata che dal 2020 è dedicata al Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321) prendendo il nome di “Dantedì”. Una giornata che rimette al centro senza dubbio la cultura, la poesia, il meglio della nostra identità nazionale, come in molti hanno affermato in questi giorni. Sarebbe bello se queste giornate non solo si moltiplicassero, ma che venissero dedicate ad altre artiste ed altri artisti da tutto il mondo, per ricordarci l’universale e innegabile importanza della Bellezza e della Cultura, tra le grandi vittime di questo periodo, considerate inutili orpelli e nulla più.

Fra i canti della Divina Commedia, quello dedicato ad Ulisse (Canto XXVI dell’Inferno) è forse uno dei più noti e amati dai lettori di ieri e di oggi, non solo per via dell’emblematica figura di Odisseo, perenne viaggiatore e sognatore, ma anche per l’esaltazione, attraverso la sua figura, dell’umanità stessa e della sua insaziabile voglia di Conoscenza, quella voglia che, per fortuna, a mio dire, avrebbe spinto Eva a cogliere la mela, proprio perché il desiderio di conoscere è vitale quanto il sangue che ci scorre nelle vene. In una Commedia che sembra tutta rivolta al divino, Dante, uomo di mondo politicamente impegnato, non smette di guardare agli esseri umani, ed è proprio nell’Inferno che troviamo i ritratti più celebri e splendidi di un’umanità che, se liberata dal pesante fardello del peccato originale, ormai inaccettabile, potrebbe splendere in tutta la sua “imperfetta” beltà, come l’amore, ormai eterno, di Paolo e Francesca.

Uno dei grandi temi del XXVI canto dell’Inferno è proprio quello della Conoscenza che Dante decide di celebrare attraverso Ulisse il quale, fraudolento, si trova nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, condannato ad essere avvolto da una lingua di fuoco che divide con il compagno Diomede.  “Lo maggior corno”, Ulisse, racconta al Sommo Poeta la vicenda della sua morte partendo dal ritorno ad Itaca, patria tanto agognata dalla quale, però, decide di dividersi nuovamente perché come scriverà il cretese Nikos Kazantzakis (1883–1957): “Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!”.


L’ardore di “diventare esperto del mondo” è più forte di tutto e non gli lascia altra scelta che quella di rimettersi in viaggio. Raduna così, i suoi compagni “vecchi e tardi” su un’imbarcazione e inizia una navigazione di cinque mesi volta a raggiungere le Colonne d’Ercole (l’attuale stretto di Gibilterra) che all’epoca segnavano il limite oltre il quale era proibito spingersi. Prima di oltrepassare lo stretto, cogliendo la difficoltà dell’impresa, Ulisse incoraggia i suoi compagni con un’orazione breve ma persuasiva, diventata una delle terzine più celebri della Commedia: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Sembra quasi di sentirglielo gridare con le lacrime agli occhi ed il volto imperlato di sudore, mentre le onde tartassano la nave, che nonostante tutto trova il cuore e il coraggio di andare avanti.

In questa memorabile terzina leggiamo, dunque, come la conoscenza sia all’origine stessa della natura umana: “la vostra semenza”, appunto, un seme piantato nel nostro cuore, sempre pronto a far sbocciare nuovi, splendidi, fiori, se ben accudito. Il desiderio di conoscere è sinonimo di vita ed Ulisse è il personaggio più adatto per simboleggiare questo nostro intimissimo aspetto, questa cosa chiamata Conoscenza senza la quale non saremmo veramente Liberi.

Conoscenza e Libertà camminano mano nella mano: l’una è condizione dell’altra.
Dove saremmo oggi se l’essere umano non avesse superato ogni volta le sue conoscenze? Se non si fosse posto delle domande? E se non avesse ricercato a fondo per darsi delle risposte?
La conoscenza è ricerca, è informazione, è coraggio, è saper mettere in discussione se stessi e gli altri. È una navigazione a vele spiegate in mare aperto. È sentirsi vivi e liberi, è avere la possibilità di realizzarsi e di sconfiggere l’ignoranza dalla quale non nascono altro che violenza e ingiustizie.

Solo la Conoscenza potrà farci uscire “a riveder le stelle”.

Articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

“Il racconto dell’Isola sconosciuta” José Saramago – la nostra infinita ricerca – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Ogni libreria è un mondo a sé: c’è chi ama ordinare i libri per genere, chi per autore, chi per copertina e chi per niente. I libri, per me, sono sempre stati, e sono, una sorta di calamita, o, forse, una bussola, con la quale orientarmi e perdermi infinite volte. Se vi mostrassi la mia libreria, perennemente in costruzione, notereste subito la presenza di un signore silenzioso, con gli occhiali spessi e le parole giuste sempre a portata di mano. I suoi libri, a mio dire, non sono per nulla semplici, eppure c’è una forza, una profondità luminosa, capace di tenerti incollato alle pagine sino a notte fonda.

José Saramago (1922-2010) è uno di quegli scrittori che tutti dovremmo leggere almeno una volta nella vita: non importa quale libro scegliate, vi troverete sempre grandi verità, anzi, grandi dubbi e spunti di ricerca, soprattutto interiore. Chi conosce l’autore, sa quanto fitte siano le sue pagine: la punteggiatura segue regole proprie, i periodi sono lunghissimi, e spesso, si arriva al punto senza fiato, boccheggiando. I dialoghi devono essere intuiti, non c’è alcuna virgoletta a segnalarne l’inizio, una foresta di virgole che si fondono le une sulle altre, fino al punto e al nuovo capitolo, spesso privo di nome. Tutto ciò richiede un certo coraggio, non solo per via della forma non sempre scorrevole, ma anche per le tematiche universali che l’autore tratta con la dolcezza, e la crudezza, del poeta, quale fu. Richiede quel coraggio che lo stesso Saramago metteva in ogni singola parola, in quel suo portoghese che, come pochi prima di lui, ha saputo riscoprire e rivoluzionare.

Lo scaffale dedicato a Saramago sta lentamente crescendo, unendosi a libri di scrittori di altri paesi ed altre epoche, che mi piace immaginare si parlino muti nella lingua dell’inchiostro. Ad ingrandire le fila di questo scaffale, qualche tempo fa, è arrivato un libricino di circa quaranta pagine, ma di grande significato: quasi una sintesi di un pensiero che si lascia sfuggire a qualsiasi semplificazione, ed infatti Saramago non semplifica mai.

“Il racconto dell’isola sconosciuta” (1997) è una favola moderna, un sogno che echeggia nella brezza marina dell’alba, è un inno alla ricerca di sé, perché l’Isola, si intuisce subito, siamo noi stessi. La storia si muove sulle gambe di due protagonisti: un uomo che vuole una barca, e una donna delle pulizie che passa per la “porta delle decisioni”, che “viene usata di rado, ma quando viene usata, lo è per davvero”.
L’uomo chiede una barca al re per andare alla ricerca di un’isola sconosciuta, il re lo prende per pazzo perché di “isole sconosciute non ce ne sono più, ma l’uomo non si scoraggia. Alla fine, il re che non vede l’ora di tornare alla sua “porta degli ossequi”, si decide a dare la barca all’uomo. Arrivato al molo, scopre che la donna delle pulizie che lavorava per il re, lo aveva seguito per mettersi con lui in mare, costi quel che costi. Diventa chiaro da subito che è la donna il personaggio positivo del racconto, proprio come in “Cecità” ed in altri romanzi dello stesso autore, è lei infatti a spronare l’uomo a mettersi in viaggio nonostante le difficoltà perché non ci si può “perdere d’animo alla prima contrarietà”.


Il viaggio alla scoperta dell’isola, e dunque di sé stessi, è un viaggio inesauribile, bisogna essere pronti a tutto con la nostra caravella, il mare non è sempre calmo, spesso è “tenebroso”, ma proprio allora si diventa veri navigatori, perché non c’è miglior insegnante del mare stesso. Dalla riflessione dei due sul senso dell’Isola e dell’Essere, scaturiscono meravigliosi versi che narrano di Noi e che ci invitano a continuare il viaggio, o a salpare, di nuovo e sempre: “Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi.”

La meravigliosa “favola” di Saramago, però, non avrebbe potuto avere luogo senza il rapporto tra i due: un rapporto di desiderio reciproco, rispetto e riconoscimento dell’identità dell’altro. Sebbene la ricerca dell’isola sia personale e per tutti diversa, essa non potrebbe avere luogo senza il rapporto con gli altri, proprio come scrisse il poeta inglese John Donne (1572-1631):  “No man is an island entire of itself”, nessun uomo- essere umano- è un’isola, siamo tutti parte di un insieme più grande, di un mondo unico, un universo, verrebbe da dire, di cui facciamo parte e nel quale nessuno potrebbe essere completamente senza l’altro, senza il rapporto, appunto.

Che possiate, dunque, più che trovare l’isola, avere il cuore di salpare, mollare gli ormeggi, di mettervi in viaggio e di ricostruire la caravella tutte le volte che vi sarà necessario, di rinnovarla e abbellirla, di invitarvi altri viaggiatori e di navigare a lungo con i sogni nelle vele.

“L’uomo e la donna andarono a dipingere sulla prua dell’imbarcazione, da un lato e dall’altro, a lettere bianche, il nome che ancora bisognava dare alla caravella. […] L’isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca di se stessa.”

Buon viaggio.

articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Vita sulla Terra – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

Due giorni fa la NASA ha inviato con successo il rover Perseverance su Marte per cercare tracce di vita passata presso il bacino di un antichissimo lago, ormai arido. Una missione ambiziosissima che ci lascia già sognare ad occhi aperti, come le prime immagini della rossa superficie del pianeta inviate a noi terrestri, inguaribili curiosi, bambini che non si fermano mai al primo “perché”.

Proprio qualche giorno fa, un pensiero si era infiltrato silenzioso nella mia mente, quasi non fosse mio, proiettandomi in una frazione di secondo al centro dell’Universo, circondata da silenzio e stelle: in realtà ero davanti ad un rossissimo tramonto sul mare, le coppie si abbracciavano sul molo mentre i pescatori lasciavano che l’esca scendesse in profondità, nella speranza di tirar su qualcosa e di far passare il tempo. Un nonno ed una nonna si tenevano stretti su di una panchina e ridevano di cuore; alzai lo sguardo e vidi che la luna era già alta, pronta per dare il cambio al sole che, mai stanco, si preparava ad una nuova alba dall’altra parte del mondo. Una bambina ammirava lo spettacolo dal suo passeggino, persa nei colori del cielo sbavato nel mare, intanto il papà si godeva lo spettacolo di quelle manine allegre, lo spettacolo del suo amore infinito che non sarebbe mai tramontato. In quel momento, con gli occhi pieni di vita, pensai a che idea si sarebbe fatto di noi esseri umani un ipotetico alieno di passaggio. Me lo immaginai incuriosito, incollato all’oblò del suo disco volante, incredulo nel vedere gesti che non significavano niente, azioni fatte per niente, gente imbambolata davanti alla voce del mare, che per lui, forse, non era più che un grande ammasso d’acqua salata. Avevo esagerato? Forse.

Pensai, però, che quella sarebbe stata un’immagine bellissima da trasmettere nello Spazio, un’immagine vera che ci avrebbe reso giustizia: un tramonto, il profumo del mare, la gioia che lentamente si scioglie nel cuore, ed un abbraccio che nasce spontaneo cullato dalla fresca brezza della sera in arrivo, il volersi bene senza una ragione. Ecco. Siamo così, cari alieni, irrazionali e sognatori, amanti delle piccole cose.

Khalil Gibran (1883-1931), poeta libanese e Profeta scrisse:  “ Perché è nella rugiada delle piccole cose che il cuore trova il suo mattino e si ristora.” Sono sempre più convinta che sia così, che davvero nei dettagli delle piccole cose si trovi l’essenza e la chiave per capire e capirci, il senso dello stare al mondo.

Quel giorno al molo, la mia chiave erano un profilo noto stagliato sull’orizzonte e una mano sempre pronta ad accogliere la mia tenendola stretta, anche ad anni luce di distanza. Quella chiave è ogni giorno nuova: oggi un sorriso, domani un caffè in compagnia. Ognuno di noi ne possiede infinite, basta solo farci caso.

Durante il lockdown scrissi nero su bianco:

Delle piccole cose

Vorrei essere
la voce delle
Piccole cose,
poetessa
dei quaderni
di prima elementare,
della tovaglia
che hai scelto
per apparecchiare.

Vorrei essere
il suono del
libro che
sfogli
la sera,
l’odore della
pelle di chi
Ami.

Cantare
l’immensità
degli abbracci sinceri
e del tuo primo sorriso.
Che bello sarebbe
Scrivere
un’ode alla
tua Mano
che prepara la cena.

Che poi la Vita
non è forse tutta qui?
Nell’Infinità delle
Piccole cose
di cui non so dire,
come il miracolo
del cielo al tramonto
e dei tuoi occhi
al mattino.

Poesia ed articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Fare spazio e Sognare – Di fiori di pesco e pagine scritte – Martina Benigni

La tartaruga rossa ( studio Ghibli)

Le cinque e trenta di pomeriggio: le ultime luci del tramonto si erano infiltrate nella stanza sciogliendosi come un liquido dolce su ogni superficie, fino a inumidirmi gli occhi e la mente. Avevo passato l’intera giornata al computer lasciandomi distrarre soltanto dallo scambio di e-mail e dal suono acuto delle notifiche non richieste; ero satura, provata, staccata da me. Fu un attimo: sentii la necessità di chiudere tutto, di distogliere i pensieri e di aprire gli occhi per davvero, sebbene li avessi aperti da almeno otto o nove ore, era come se dovessi ancora svegliarmi e farvi entrare una luce vera, che non mi ferisse, diversa da quella dei display. L’unico rumore a cui prestai attenzione, allora, fu quello dello schermo che si chiudeva sulla sudata tastiera sancendo davvero l’inizio della mia giornata.

I pensieri viaggiano alla velocità della luce infrangendo le barriere dello spazio e del tempo, così mi ritrovai in Cina a cavallo tra il quarto ed il quinto secolo, nella poesia di Tao Qian (365-427), anche noto come Tao Yuanming, che in un’epoca di disordini e violenza decise di abbandonare le cariche ufficiali per dedicarsi ad una vita semplice e felice che valesse la pena di essere vissuta, riscoprendo il senso delle piccole-grandi cose di ogni giorno: “In queste cose si trova/ l’essenza del Vero. / Ad esprimerlo/mancan le parole” (dalla traduzione di Giuliano Bertuccioli di Yin jiu, Bevendo il vino).

Il poeta mi porse un filo rosso invitandomi a fidarmi e a seguirlo: lo afferrai e di colpo attraversai altre epoche, altri luoghi, famigliari e sconosciuti, luoghi che avevo lasciato con noncuranza, immagini sulle quali non mi ero soffermata abbastanza e che ora mi chiedevano di riemergere. Mi ritrovai in uno spazio indefinito fatto di sfumature in cui distinguevo appena la forma delle cose che, però, sentivo note, vicine. Ero già stata lì e ci sarei tornata altre volte. Di nitido c’era, oltre alle sensazioni, quel filo rosso al quale mi tenevo aggrappata con forza, non sapevo più chi ci fosse dall’altra parte, ma continuai a fidarmi e a lasciarmi guidare, senza una ragione.

“Tieni aperta la porta del cuore, e anche tu troverai la tua Spiaggia dei Sogni.”

Erano anni che non mi tornava in mente questa frase de “L’onda perfetta” di Sergio Bambarén, anzi, a dir la verità credevo quasi di averlo dimenticato quel romanzo, ma lui non si era dimenticato di me, per fortuna. Ci sono momenti, emozioni, frasi, immagini, mani e occhi che rimangono dentro di noi ed agiscono segretamente, anche se non ce ne accorgiamo, ci levigano dolcemente come il vento e la pioggia fanno con le montagne. Quante albe hanno, inconsapevolmente, illuminato i nostri cammini? Bussole magiche che ci tengono saldi alla vita quando meno ce lo aspettiamo.

Il filo rosso, dunque, mi aveva fatta approdare sulla “Spiaggia dei Sogni” dove poter “disincagliare il cuore” e riprendermi il “tempo per vivere”. La “Spiaggia dei Sogni” è un luogo profondamente democratico, senza frontiere, dove pur parlando lingue diverse ci si capisce senza sforzo, è una dimora marina comune a tutti gli esseri umani, anche a chi non se ne ricorda o pensa di non sapersene più ricordare. La “Spiaggia dei Sogni” è paziente come il suo mare che di onda in onda si fa più profondo e limpido, sa aspettare, non ha fretta mentre conta le impronte dei sognatori erranti sulla sabbia dorata.

Oggi siamo tutti più smart: smartworking, smart TV, smartphone, ma la cosa più smart che potremmo fare davvero sarebbe staccare la spina, donarci il tempo di farlo, il tempo “di vivere”, appunto, di uscire, di scoprire di che blu si è tinto il cielo e di respirare. Ci insegnano l’importanza di accumulare ma, forse, dovremmo imparare soprattutto a fare spazio e a lasciar andare, a sgomberare la mente, a dire addio alle cose superflue per far entrare un pensiero nuovo, e recuperare, così, i sogni che aspettano di essere ripescati da anni, forse da secoli, per imparare a farne di nuovi, ogni giorno.

“L’onda perfetta”

articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

Una vita senza esigenze sarebbe davvero poco umana- Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni

“Il cibo e gli abiti sono dei bisogni fondamentali, l’umanità da quando esiste si dà da fare ogni giorno per procurarseli. Ma limitarsi a questi, sarebbe davvero poco umano.”

(Acheng, “La trilogia dei re”, trad.it. 2018)

Il racconto “Il re degli scacchi” dello scrittore cinese Zhong Acheng (1949-), meglio noto come Acheng, fa parte della “Trilogia dei re” insieme al “Re degli alberi” e al “Re dei bambini”. Le sue opere comparvero per la prima volta in Cina fra il 1985 e il 1986 e vengono associate a quella corrente narrativa della “Ricerca delle radici” (in cinese, xun gen wenxue 寻根文学). Dopo il trauma della Grande Rivoluzione Culturale (1966-1976, secondo gli storici cinesi) si sentì il bisogno di ridare spazio alla penna ferita, di liberare una lingua che per troppo tempo era stata soffocata e piegata dalle direttive di Mao Zedong. Per troppo tempo la voce degli scrittori aveva dovuto unificarsi a quella del “Partito” e delle “masse” di contadini, soldati e operai, nessuno spazio era consentito alla soggettività unica e irripetibile degli scrittori.

La reazione, alla fine di questo dolorosissimo silenzio forzato, fu un periodo di grande vivacità letteraria, di voglia di leggere e di scrivere, di vivere attraverso la riconquista dei sentimenti, degli affetti e della parola, che ora poteva finalmente tornare a descrivere le esperienze umane in tutta la loro pienezza. Ognuno provò a fare i conti con i traumi della Rivoluzione Culturale a modo proprio, dando voce alla propria sofferenza, alla propria delusione e al proprio rammarico. Ci fu anche chi, come reazione a questo passato lacerante, decise di non parlarne in maniera diretta descrivendo, al contrario, realtà “altre” attraverso un linguaggio violento come l’epoca trascorsa, e chi, invece, iniziò a guardare indietro, a guardarsi dentro, a ricercare, appunto, le proprie Radici.

Il nostro Acheng ha un modo tutto suo di risalire alle Radici: quelli che lui ricerca sono soprattutto i semi dei valori tradizionali piantati chissà dove e dimenticati per anni. Cerca, dunque, di ritrovare questi semi per farvi nascere, finalmente, degli alberi rigogliosi e carichi di frutti. Ognuno dei suoi re rappresenta un valore diverso: il rispetto per la natura, l’importanza del linguaggio e del significato profondo ed intrinseco delle parole, ed infine quelle che lui chiama “esigenze spirituali”, ovvero quel sentire tutto umano che ci porta a dipingere, a leggere un libro, ad ascoltare una canzone o a stringerci in un abbraccio.
 

Il re degli scacchi è un “giovane istruito” – uno di quei ragazzi inviati nelle campagne per ri-educarsi durante la Rivoluzione Culturale- che sembra avere due grandi passioni: il cibo e gli scacchi. Man mano che si legge il testo si colgono non solo i tanti riferimenti alla tradizione cinese, in particolare a quella taoista, ma si colgono anche riferimenti a quei “valori universali” quali l’amicizia, il desiderio, la capacità di resistere e di reagire, senza perdere il contatto con il proprio io più intimo e profondo e con le proprie esigenze: in una parola, il proprio sentire.

Coltivare le proprie esigenze e, dunque, la propria resistenza interiore diventano chiavi imprescindibili per superare momenti di crisi come quelli che si trovarono ad affrontare questi giovani costretti ad abbandonare le proprie case, o come quello che stiamo vivendo noi da quasi un anno. In un mondo che sembra rispondere solo alle regole del mercato e del Dio Denaro, dove il fine utilitaristico è l’unico che conta, penso sia ancor più importante parlare di “cose inutili” come i libri, l’arte, il colore del cielo al tramonto e il suono di una carezza. Forse, la più grande responsabilità che abbiamo oggi è proprio quella di ricordarci delle nostre esigenze e di affermare con forza che un altro modo di pensare è possibile. La mia responsabilità, oggi, è quella di sostenere che una poesia e un bacio possono davvero cambiare il mondo.

A tal proposito, ho trovato di grande ispirazione questo passo del libro che voglio riportarvi perché possiate anche voi ripensare alle vostre esigenze e per invitarvi ad unirvi a me in questo continuo “domandarci”:

“Già, che altro andavo cercando? Non stavo bene? Non dovevo preoccuparmi di dove mi sarei procurato il prossimo pasto; il letto, anche se rotto, era il mio, non dovevo sbattermi in cerca di un rifugio per la notte. E, allora, perché ero insoddisfatto? Perché questa voglia di leggere un libro? O di vedere un film, quando, una volta accesala luce, tutto svanisce? Cosa potevano darmi? Però avvertivo nel fondo dell’animo un desiderio vago, difficile da esprimere ma che, sapevo, aveva a che fare con la vita.”

(Acheng, “La trilogia dei re”, trad.it. 2018)

di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

AVVERTENZE PER SCRITTORI DELUSI – Lié Larousse

Lié Larousse & Sigmund Freud

Al giorno d’oggi molte opere letterarie di un secolo fa sono considerate dei capolavori, e con esse la bravura dei loro autori, quasi nessuno sa, che queste opere ai tempi della loro pubblicazione non venivano comprese, addirittura nemmeno prese in considerazione dal pubblico lettore e quindi abbandonate sugli scaffali, o peggio negli angusti magazzini e mai giunte in libreria. Altre venivano accolte negativamente dalla critica, a volte, se si era proprio dei grandi scrittori accadevano tutte queste cose assieme, e lo sconforto e la depressione ne erano le indegne conseguenze di anni di studi e lavori di scrittura.
Ora, per carità, non voglio dire che tutte le opere contemporanee che vedono la poca luce di occhi e bocche affamate di leggerle siano tutti dei capolavori, ma, molto spesso so di libri che meriterebbero più interesse da parte del pubblico lettore, ormai assuefatto e sterilizzato mentalmente, ineducato allo sperimentare con la propria testa la piacevole scoperta di un nuovo autore e il suo libro.

Lettori attenti non vi offendete, non è per tutti così, ma siamo sempre gli stessi, quelli che alla fine facciamo già parte del favoloso mondo della lettura, a volte facciamo parte del rarefatto mondo dell’editoria e quindi, forse, abbiamo più di un motivo per voler sperimentare. Ma tra il pubblico lettore quanti di voi sono disposti ad investire quindici euro in un romanzo d’esordio? In una raccolta poetica di un non Gio Evan? Insomma in una lettura al buio di cui non sappiamo nulla a priori dell’autore, nemmeno il profilo instagram?

Mentre a tutti gli autori che si sentono di aver fallito vi dico – non fate così!
Non ha a che fare con il fallimento, né propriamente con voi, ha a che fare con l’apparire e il marketing spietato che sta caratterizzando quest’epoca, un’involuzione umana e tutto ciò che ne concerne, il naturale decorso della vita che si percorre e ripercorre sempre uguale. Magari tra cento anni sarete dei Bestsellers come L’interpretazione dei sogni (1899) e ne godranno i vostri nipoti, economicamente, forse.

Tuttavia se hai pubblicato il tuo libro, e magari non è nemmeno il primo, e nessuno ne parla, e sono sempre troppo pochi a leggerlo, tu continua lo stesso con il tuo lavoro quotidiano per la scrittura, con la lettura, la ricerca, il volere bene e fare del bene, ridi, magia, vivi una vita il più possibile normale, passeggia, scopri un barlume di luce mentre dentro tempesta, abbraccia la notte, ogni tanto lasciati stare e lascia stare le ansie, e di nuovo leggi e di nuovo scrivi, e chi vivrà vedrà, e se sarai letto e venderai tanto e andrai in ristampa sii felice, e se invece arrivi sullo scaffale e vendi dieci copie, nove agli amici e una ad un perfetto sconosciuto, vivi, leggi, scrivi, e sii ancora più felice.

Dal diario di Sigmund Freud:
“Sono stato come tagliato fuori dal mondo; non una foglia si è mossa per dimostrare che l’Interpretazione dei sogni significhi qualcosa per qualcuno. L’ accoglienza che ha avuto il libro e il silenzio che ne è seguito hanno di nuovo distrutto il mio nascente rapporto col mondo” E ancora qualche giorno dopo “Nelle molte ore tristi mi è di conforto pensare che lascio almeno questo libro. In verità il modo come è stato accolto, perlomeno finora, non mi ha recato alcun piacere. Esso ha incontrato la comprensione più avara, le lodi che gli sono state concesse sono misere come la carità; evidentemente non piace alla maggioranza dei lettori e ancora non ho avuto sentore che qualcuno si sia accorto di tutto il suo valore. Mi faccio una ragione di ciò pensando di aver anticipato i tempi di quindici o venti anni. Poi, inevitabilmente, mi assale il dubbio tormentoso che si tratti invece di un giudizio in propriis”

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365 giorni, Libroarbitrio

“Che ogni giorno sia un nuovo anno” – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni



Il taccuino ingiallito dei buoni propositi ammicca per farsi notare. Dirigo, allora, lo sguardo altrove imbattendomi nella solita finestra che sempre mi regala un quadratino di cielo fra i palazzi abusivi del mio quartiere. Abusivo sembra anche lui adesso: blu con pennellate di bianco, rapitore di pensieri e che oggi mi distare dai buoni propositi per l’anno nuovo. Sono, in realtà, quelli di settembre, tutto quello che ho rimandato a dopo l’estate e che ora rimanderò al fatidico gennaio che a pensarci bene, allora, di nuovo avrà ben poco. Se c’è una cosa che la sudata lista mi ha insegnato è che la Vita va sempre dove dice lei: la sento ridere mentre fa a brandelli quei fogli pasticciati di punti e obiettivi inutili come la prossima prova costume o l’iscrizione al corso di campana tibetana.
Nell’impegno del procrastinare, però, ho scoperto una grande verità che un poeta spagnolo, Antonio Machado (1875-1939), aveva cantato in una splendente poesia prima che io venissi al Mondo: “Viandante, sono le tue orme/ il sentiero e niente più;/ viandante, non esiste il cammino, / il cammino si fa camminando.”


Capodanno è un giorno come un altro, in fondo, ma nel cuore di tutti noi c’è una speranza feroce appesa all’uno che sostituirà lo zero di quest’anno che, per ovvietà, non nominerò. Mai come adesso, forse, non vediamo l’ora di cambiare il calendario, le prospettive, le parole…
Il tempo è fuori e dentro di noi, ognuno lo scandisce come meglio sente, ma davvero penso che stavolta sia stato diverso, sia stato un po’ più “simile” per tutti.
Il taccuino si sta avvicinando, vorrebbe che lo sfogliassi e che lo accarezzassi con la mia penna per goderne di nuovo, ma ho deciso che voglio provare ad imitare la Vita, lui ancora non sa che brutta fine farà: strapperò pagina per pagina fino all’inizio dei fogli bianchi, nuovo mare dove tuffarmi. Forse, quando vedrà il nuovo titolo, mi perdonerà per aver frantumato tutti quei buoni propositi.
Si chiamerà “Il taccuino della Viandante” e per prima cosa vi scriverò una citazione, un augurio che voglio rivolgere a tutti quanti, prendendo in prestito le parole di Antonio Gramsci (1891-1937), grande uomo in un tempo piccolo, che già mie, spero possano ricordarvi che la vita va celebrata ogni giorno e che il Tempo e il Cammino, alla fine dei conti, li facciamo noi, viandanti di questa terra eterna come i nostri attimi.

“[…] Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse.”

-Antonio Gramsci, 1° gennaio 1916, “Avanti!”

articolo di Martina Benigni

365 giorni, Libroarbitrio

LA LISTA DEGLI STRONZI – JOHN NIVEN Recensione di Gianluca Pavia

        

Sarà capitato anche a voi di stilare una lista di dieci cose da fare prima di morire, ecco, Frank Bill ne ha una con cinque nomi da uccidere prima di godersi il riposo eterno. Sembrerebbe il tipico personaggio di Niven, uomo bianco e privilegiato, ma questa volta non ci sarà una parabola di caduta e redenzione, crocifissione e risurrezione. E’ il 2026 negli Usa guidati da Ivanka Trump, succeduta al padre quasi per diritto feudale senza scostarsi dalla sua politica conservatrice, portandola, anzi, agli estremi, fino a mettere al bando l’aborto  o incentivando l’acquisto e il possesso d’armi da fuoco, che da diritto diventa quasi un dovere. E’ un’America avvelenata dall’odio, violenta, che preferisce urlare per arrogarsi la ragione piuttosto che parlare e capire, quella in cui Frank Brill accetta in silenzio la diagnosi del tumore che lo sta divorando da dentro. Niente drammi né urla disperate, eppure “silenzio” non è la parola giusta, perché dentro Frank qualcosa si smuove, e no, non è disperazione, bensì euforia. Frank è finalmente libero di mettere in atto un piano studiato alla perfezione negli ultimi anni della sua rancorosa solitudine. Un aborto illegale gli ha portato via una figlia, morta dissanguata in una stanza di motel, una sparatoria in una scuola gli ha strappato anche la seconda moglie e il figlio più piccolo; Frank non ha più nulla oltre la vendetta.
Così parte per un ultimo viaggio che lo sbalzerà da un lato all’altro di un’America che non riconosce più, intenzionato a sbarazzarsi di quelle cinque persone che hanno rovinato la sua vita, e quella delle persone che amava. Un viaggio tra il thriller e l’ironico ad un ritmo incalzante che getterà in faccia al lettore tutte le contraddizioni della società moderna: la brutalità della stessa polizia che dovrebbe “proteggere e servire”, l’informazione che ha sacrificato la propria libertà in favore di una funzione di terrorismo mediatico e manipolazione, l’istigazione all’odio verso il diverso fino a militarizzare l’antimmigrazione, la paura di un nemico invisibile che fagocita i diritti sociali.
E’ tutta fantasia, ma neanche troppo.
Il viaggio di Frank non lo porterà solamente da un obbiettivo al prossimo, lo spingerà per forza di cose a guardarsi dentro, passare in rassegna ciò che ha fatto e non ha fatto per contrastare la becera deriva a cui si è abbandonato il paese che amava tanto, partendo da quel giorno di dieci anni prima in cui votò Trump quasi per scherzo. Una lucida autoanalisi che si appiccica al lettore come un insetto fastidioso, un prurito che spinge a riflettere su quanto stiamo facendo in realtà per combattere un sistema che va sempre più stretto, di cui amiamo lamentarci per poi accettarne ogni perversione e bruttura.
Un romanzo crudo, diretto, certo ironico ma che non salva nessuno quando affronta temi come la vendita di armi, la violenza, l’odio razziale, la pedofilia, la vendetta, l’ingiustizia sociale, l’istintivo autoproclamarsi giudice e boia di ogni vita. Un romanzo imperdibile che tra una lacrima e una risata vi lascerà nello stomaco la brutta sensazione di averci appena preso un bel colpo.

di Gianluca Pavia

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L’autore Gianluca Pavia durante un reading – Torino

Gianluca Pavia autore di romanzi, racconti e poesie, vincitore del Premio Racconti nella Rete 2016, e di altri importanti titoli come Bukowski e Holden, collabora con riviste letterarie, e artisti dello spettacolo. Dal 2016 ha pubblicato i libri Poker d’incubi (Alterego Edizioni), Spietate speranze (Miraggi Edizioni), Black-out (Ned Edizioni), WHISKEY & SODA CAUSTICA d’amore, vita, morte e altri casini (Bestseller Books & Co.), in questi giorni in libreria con il nuovissimo romanzo UCCIDERO’ L’EDITORIA NAZIONALPOPOLARE (Bestseller Books & Co.)

365 giorni, Libroarbitrio

8 ANNI DI LIBROARBITRIO – AUGURI!!!

Il 15 ottobre di 8 anni ho iniziato a credere in me stessa e nei miei sogni dando vita al mio Libroarbitrio , e con lui ho dato il via ad una ricerca e una raccolta infinita che è la vita della letteratura, della pittura, della musica, insomma, dell’arte in ogni sua forma, scoprendo e ritrovando straordinari personaggi che vivono per il creare e con il creare, ho conosciuto tanti artisti e tanti artisti hanno conosciuto me, ad oggi posso solo rendere grazie a questo giorno di otto anni fa, di cui ricordo ogni istante, e ringraziare tutti voi 169,889 amici e followers per accompagnarmi quotidianamente in questa avventura bella che è una parte importante della mia vita.

CREDETE IN VOI STESSI, CREDETE NEI VOSTRI SOGNI!

Auguri LIBROARBITRIO 🔥🔥🔥🥳🍻

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