365 giorni, Libroarbitrio

Antonia Pozzi: perché dovremmo tutti avere un “Desiderio di cose leggere” per la rubrica – Di fiori di pesco e pagine scritte di Martina Benigni –

Il porto

Io vengo da mari lontani –
io sono una nave sferzata
dai flutti
dai venti –
corrosa dal sole –
macerata
dagli uragani –

io vengo da mari lontani
e carica d’innumeri cose disfatte
di frutti strani
corrotti
di sete vermiglie
spaccate –
stremate
le braccia lucenti dei mozzi
e sradicate le antenne
spente le vele
ammollite le corde
fracidi
gli assi dei ponti –

io sono una nave
una nave che porta
in sé l’orma di tutti i tramonti
solcati sofferti –
io sono una nave che cerca
per tutte le rive
un approdo.
Risogna la nave ferita
il primissimo porto –
che vale
se sopra la scia
del suo viaggio
ricade
l’ondata sfinita?

Oh, il cuore ben sa
la sua scia
ritrovare
dentro tutte le onde!
Oh, il cuore ben sa
ritornare
al suo lido!

O tu, lido eterno –
tu, nido
ultimo della mia anima migrante –
o tu, terra –
tu, patria –
tu, radice profonda
del mio cammino sulle acque –
o tu, quiete
della mia errabonda
pena –
oh, accoglimi tu
fra i tuoi moli –
tu, porto –
e in te sia il cadere
d’ogni carico morto –
nel tuo grembo il calare
lento dell’ancora –
nel tuo cuore il sognare
di una sera velata –
quando per troppa vecchiezza
per troppa stanchezza
naufragherà
nelle tue mute
acque
la greve nave
sfasciata –

Le poesie della Pozzi sono di una luce abbacinante: ci fanno andare al di là delle vette dei suoi amati monti lombardi per poi farci ripiombare nelle Radici della terra dove “sfacendosi/ dolorano le cose.” Questo per darvi solo un assaggio della bellezza e della profondità delle immagini che la sua penna, di nuvola e di roccia, sanno dipingere. Sono rapporto così intimo da considerarla una parte di sé, forse la più viva e pulsante, ecco perché nella poesia Bellezza (1934) nel donare se stessa dona anche i suoi “meriggi/ sul ciglio delle cascate, / i tramonti/ ai piedi delle statue, sulle colline, / fra tronchi di cipressi animati/ di nidi.” Altro tema importante è sicuramente l’amore verso l’altro, il diverso da sé che all’inizio è il tragico amore per il suo professore di greco e di latino, il quale, una volta finito, lascia nella poetessa un senso d’amaro e d’ingiustizia che si porterà dietro per tutta la vita, persino nella sua Vita sognata (1933). C’è, insomma, nell’opera della Pozzi, un mare infinito di immagini da cogliere con delicatezza e sensibilità, c’è una semplicità di stile e di scelta delle parole che rende al lettore la poesia accessibile e segreta al tempo stesso, quasi fosse un canto ancestrale che abbiamo la sensazione di aver già sentito, come un’eco lontana, forse di millenni fa. C’è, infine, la consapevolezza della pienezza della vita che, però, la poetessa non sa reggere !no in fondo, le trabocca dalle vene e lo sa: “Per troppa vita che ho nel sangue/ tremo/ nel vasto inverno”. Un inverno gelido che deve aver provato in alcuni dei rapporti umani, probabilmente in quelli fondamentali, che segnano irrimediabilmente. E a quell’inverno spaventoso, credo, la Pozzi abbia saputo rispondere con una splendida estate di poesia. In molti hanno tentato di dare delle etichette alla sua poesia: “crepuscolare”, “ermetica”, “d’amore”, “descrittiva”, “autobiografica”, ed altre, ma noi abbiamo una missione in quanto lettori nonché destinatari di questa bellissima eredità che è la sua poesia, e cioè quella di scavalcare le definizioni da “libro di matematica”, per assumerci l’onere e l’onore di leggere le parole nude, così come sono, così come le ha concepite l’autrice che solo nello scrivere riusciva a sentirsi Viva davvero, a stare al centro, in mezzo alla vita e non più in Riva ad essa “come un cespo di giunchi/ che tremi/ presso l’acqua in cammino.”

Spero che in questo 2020 che ha pesato e ancora pesa come un macigno sulle spalle di tutti noi, siate comunque riusciti a trovare quelle cose leggere che rendono più rosso il cuore e più dolce il cammino. E seppure non ci siate riusciti, consolatevi e gioite nella certezza di averci provato fino in fondo, sempre. Perché la ricerca non è mai vana.

articolo di Martina Benigni