365 giorni, Libroarbitrio

I Lunedì di LuccAutori – Agata – Eleonora Angelini

Chagall, Traum der Liebenden (sogno d'amore)

Ti guardo mentre dormi, le tue palpebre a coprire come un velo roseo e fragile i tuoi occhi verdi.
Una sottile vena bluastra pulsa leggermente, pian piano, come il battito d’ali di una farfalla, sulla tua tempia, lì dove amavo baciarti, all’attaccatura dei capelli.
Così, sdraiata tra le lenzuola di un bianco feroce, con le mani che si incrociano sul tuo grembo, sembri sospesa nel vuoto, una ninfa preraffaellita cinta da nuvole. Guardo i tuoi occhi chiusi, e in silenzio t’imploro di darmi ascolto. Svegliati, Agata.
La notte sta svanendo, cedendo il passo a un’alba nebbiosa. Dalle tende filtra una luce gialla, che ti accarezza di sbieco e colora le ombre di un nero più denso di quello notturno.
Ho bevuto tre caffè, mi brucia lo stomaco e il ticchettio dell’orologio mi penetra nella testa frantumando i miei pensieri. Non so più da quanto tempo sto vegliando, Agata, ho perso il conto delle ore.
Respiro il tuo fiato implorando che qualcosa di te mi resti impigliato dentro.
Vorrei che ti svegliassi, ma ho timore a interrompere il tuo sonno. Sei così bella. Ieri ho spazzolato i tuoi capelli, lasciando che i denti del pettine li dividessero in ciocche piccolissime, tutte uguali.
Ricordi? A uno dei nostri primi appuntamenti, ti dissi che avevano il colore dell’autunno. Sorridesti imbarazzata per quella frase leziosa. Ti copristi il viso con una mano e mi dicesti: — Smettila di guardarmi! — e ti giurai che anche volendo non avrei potuto. Ridesti tanto quella giornata. Forse mi innamorai per quel sorriso timido, che nascondevi sempre tra le dita.
Ancora dormi. Chiudo gli occhi, cercando di incrociare il tuo sguardo nel buio. Il tempo è scandito dal tuo respiro. Va e viene come le onde del mare, riempiendomi e svuotandomi.
Svegliati, Agata! Guarda come è caldo e roseo il sole al di là dei vetri. Guarda come le rondini salutano la primavera. Ascoltami. Non ho il coraggio di parlarti, ma il battito del mio cuore parla al tuo. Vorrei allungarmi su di te, abbracciare il tuo corpo fragile come una crisalide, ma non ne ho la forza. Rimango immobile, come una sentinella cieca, mentre i minuti ti allontanano da me.
Vorrei parlarti. Vorrei dirti mille cose.
Vorrei stringerti le mani, e trovare nei tuoi palmi la forza per domandarti perdono. Non voglio credere che non sia possibile trovarti nel luogo in cui galleggi, priva di peso, immersa nell’inaccessibilità del sogno. Devi ascoltarmi, Agata. Abbi pietà della mia vergogna. Sorvola sul mio silenzio, col tuo corpo fatto di luce.
Ho avuto torto quando ti accusai per il bambino morto. Ero furioso con l’universo, volevo trovare un colpevole, colpii te. Non ascoltai le parole del dottore. Eclampsia, scrisse nella cartella clinica, ma per me non significava nulla. Una parola ignota per suggellare il nostro patto col dolore. Partoristi qualcosa di morto, né maschio né femmina, e ci dissero che non avremmo potuto più avere bambini. Urlai che avevi esagerato con i farmaci. Che avevi avvelenato nostro figlio. Il dottore mi disse sussurrando che saresti potuta morire anche tu, che eravamo stati fortunati. A voce alta dissi che non mi importava, che era stata colpa tua.
Mi fissasti, con gli occhi diventati giganteschi nel tuo bel viso da volpe — e capii di aver frantumato una parte di te. Ma non riuscii a scusarmi, il peso ignobile di un pentimento tardivo che cresceva sempre più dentro di me, come un frutto marcio. Tutte le parole che avrei dovuto dirti allora adesso gocciolano nei miei occhi, bagnandoli come rugiada calda. Non ti ho mai detto ti amo.
Come sei bella, Agata. Ridemmo assieme quando trovasti il tuo primo capello bianco nel pettine. Avevi trentasei anni. Lo conservasti, lo mettesti tra le pagine di un libro di Prévert e sussurrasti seguendo le parole con l’unghia color opale:

Je suis faite comme ça
Quand j’ai envie de rire
Oui je ris aux éclats…

e mozzai le tue parole baciandoti lentamente, stringendo le tue braccia tra le mani.
Con l’avanzare degli anni i tuoi capelli hanno preso il colore dell’inverno — il chiaro di luna li ha dipinti a tradimento, uno ad uno, come neve che si posa sui rami spogli.
Dimmi, cosa vedi, Agata? Ora sul tuo volto è passata rapida una nota dissonante, un fa diesis di dolore. Le tue labbra per un attimo si stringono, sbiancando. Quelle stesse labbra che ti pregavo di non coprire col rossetto, ma tu, testarda, non mi ascoltavi. Una piccola ruga a V solca la tua fronte, tra le sopracciglia, come una fessura su una tela bianco panna. Vorrei coprire di baci la tua pelle fino a levigarla e liberare il tuo viso da volpe bambina al di sotto della maschera della sofferenza. Strappare dal tuo volto ogni traccia di malessere e restituirti la bellezza che non ho mai smesso di vedere.
Non lasciarmi, Agata. Ho paura del silenzio che mi rimbomba dentro. Ho paura di questa stanza così bianca. Le tue braccia deboli come steli di gigli sono più forti delle mie nell’aggrapparti alla vita. Annaspi da sei mesi in questo limbo. Prendo una delle tue mani sottili; ha il calore dell’acqua tiepida, si perde tra le mie.
Un pensiero fugace per un istante mi paralizza — sono solo due parole, le parole peggiori che mente umana possa immaginare —

Troppo
tardi

e stringo la tua mano piccina più forte che posso — svegliati, Agata!
Questa tua mano che la vecchiaia ha macchiato e striato di vene verde-bruno, la mano più dolce e bella che esista — svegliati.
Agata, guarda come brilla il mattino. Ci beffeggia, me e te, rinchiusi in questa camera da letto spoglia — hai voluto che portassi via tutti i quadri, tutte le foto, i cuscini con i gatti ricamati. Dicevi che tutto ti soffocava. Ricordi? Portavi le mani al petto e gridavi di notte, leggevo l’orrore nelle tue orbite. Era un effetto collaterale della Citarabina, ci dissero al pronto soccorso. Lessi la compassione nello sguardo dell’infermiere all’accettazione, e mi fece più male di ogni altra cosa.
Loro non potevano vederti, Agata! Loro vedevano solo una vecchietta di quaranta chili seduta su una sedia a rotelle, con le iridi verdi grandi come monete. Non potevano vedere la ragazza che un giorno danzò per me solo, sul palco polveroso di un teatro abbandonato. Era novembre e avevamo vent’anni, pioveva e ci rifugiammo sotto la saracinesca abbassata del D’Annunzio — i manifesti gocciolanti e strappati dell’ultimo spettacolo risalivano a un anno prima. Ricordi come ridemmo per quell’avventura innocua e un po’ sciocca? Ci infilammo tra le travi friabili di una porta sbarrata; e ballasti per me, facendo la ruota a piedi scalzi, e facemmo l’amore davanti a trecento poltrone vuote — gridasti per quel pubblico invisibile. Lasciammo le impronte dei nostri corpi sulla polvere, noncuranti e fieri di una giovinezza che non ha paura di sporcarsi.
Guardami, Agata! Ho bisogno di vedere i tuoi occhi, ancora. Non sai che terrore provo all’idea di trovarmi qui, solo, in questa stanza dalle pareti troppo bianche. Devo essere forte per te, eppure ho paura di non riuscirci. Guardami! Sono un uomo debole e rattrappito che supplica di trovare il fiato per poterti chiedere scusa — per quella volta che non ti permisi di comprare quel vestito blu; l’affitto, il mutuo, ricordi? Avevi quarantatré anni e volevi sentirti ancora una volta come una regina, con quell’abito blu da sirena. Ma non lo capii, erano tre milioni, era l’ottantadue, e io non ti avevo mai detto ti amo.
Dormi ancora? Il tuo respiro va e viene non più come la marea, ma come la corrente in una lampadina che sta per fulminarsi. Lo trattieni a stento nei polmoni, come se l’aria fosse un veleno che ti fa male.
Un passero ha deciso di fermarsi a cinguettare proprio qui fuori al tuo davanzale, questa maledetta creatura che non sa di dover morire.
Cosa darei per essere un altro, chiunque altro, penso per un istante.
Ma poi la viltà di queste parole mi ferisce come una frustata; no, cosa darei per trovarmi al tuo posto!
Il nulla oltre la siepe, non l’infinito.
Eppure il nulla mi spaventa meno che dover restare senza te. Il nulla non conosce il suo contrario, mentre io ho conosciuto te — e l’assenza di te farebbe troppo male.
Svegliati, Agata! Devo chiederti scusa per quella volta che mi arrabbiai perché avevi rotto il mio orologio — lo avevi messo in lavatrice e aveva intasato il tubo di scarico; lo tirò fuori l’idraulico, incrostato di detersivo e di calcare. Ricordi? Avevamo cinquantotto anni. Urlai contro di te. Era di mio padre, sentivo di aver perduto qualcosa d’inestimabile. Che idiota che sono stato! Non volli asciugare le tue lacrime, ma se solo potessi tornare indietro, Agata, le bacerei una ad una e ti implorerei di perdonarmi.
Stringo forte la tua mano bianca e bruna. Le falangi sono nodose eppure delicate. Il tuo viso è scavato come liscia pietra di mare, eppure credo tu non sia mai stata così bella.
Mai come oggi sei stata simile al nome che porti — limpida, pura, trasparente.
Sei sveglia, Agata! I tuoi occhi chiari sono spalancati sulla mia miseria. Ti stringo per non lasciarti scivolare via. Mi batte forte il cuore, così tante parole si affollano nella mia mente. Un sorriso si disegna sulla tua bocca da folletto. È troppo nudo ora che le tue dita non lo nascondono più.
Apro le labbra ma nessun suono esce dalla mia gola. Qualcosa la soffoca in un nodo stretto. Il mio dolore è come un fiume che nessun argine può contenere. Il ticchettio dell’orologio mi assorda, ora, mi rende incapace di pensare, mentre affogo nei tuoi occhi verde liquido.
Aspettami, Agata! Lasciami trovare le parole, lasciami trovare il coraggio per parlarti ancora, di scavalcare il muro della mia colpa. E mentre spasimo confuso, cercando di parlarti, un pensiero rapido mi atterrisce nuovamente —

Troppo
tardi

e grido, grido forte in questa stanza vuota dalle pareti troppo bianche, grido Ti amo! Ma i tuoi occhi sono come biglie di vetro, quelle stesse biglie con cui giocavo da bambino — Ti amo! — stringo la tua mano piccolina e grido forte per sovrastare il frastuono delle lancette dell’orologio a muro — Ti amo! — grido più che posso per raggiungerti lì dove te ne sei andata e afferro le tue braccia ancora calde, deboli e belle come pergamena —
Svegliati, Agata! Dammi solo un istante ancora, un secondo solo in cambio di tutta la mia vita —
Svegliati, Agata…

 

Racconto “Agata” scritto da Eleonora Angelini
scelto da DuediRipicca
per la rubrica “I Lunedì di LuccAutori”

Opera Traum der liebenden  di Marc Chagall

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