365 giorni, Libroarbitrio

Lord George Gordon Noel Byron: il cuore sepolto.

Roma 23 maggio 2013

cuore disegno Francesca Cortona

Il poeta Byron si identifica nel mito del vate romantico, bello e tenebroso, trasgressivo e stravagante, libero e appassionato. Sono molto pochi i poeti illuministi preromantici che scelgono di intraprendere questa strada.

Figlio di un nobile dissoluto, il barone John Byron, detto “Jack il Matto”, che ha dilapidato il patrimonio familiare, Lord George Gordon Noel Byron nasce nel 1788 a Londra e cresce ad Aberdeen, in Scozia, con una madre che odia, in ristrettezze economiche.

Infatuato di una lontana cugina, a dodici anni scrive per lei i primi versi. Nel 1805 entra al Trinity College di Cambridge, e l’anno dopo pubblica anonimamente una raccolta, subito ripudiata.

Nel 1808 si trasferisce nel castello familiare di Newstead Abbey, a Nottingham, e in seguito occupa il suo seggio alla Camera dei Lord.

Secondo gli usi dell’aristocrazia inglese, nel 1809 parte per il grand tour: Lisbona, Spagna, Malta, Grecia, Albania, Turchia.

Tornato a Londra nel 1811, si mette in luce per il fascino e l’abilità oratoria, pubblica vari discorsi e i primi due canti del Pellegrinaggio del cavaliere Aroldo, ottenendo subito fama.

Alcuni critici lo stroncano, gli uomini lo invidiano, le donne e il bel mondo se lo contendono. Ma nel 1816, all’apice della gloria  e di un successo travolgente, parte per un esilio volontario e senza ritorno. Si lascia alle spalle il breve matrimonio con Anne Isabella Milbanke, l’ipocrisia dei suoi censori e ogni sorta di maldicenze sul suo conto.

In realtà a ridurlo alla fuga sono gli scandali: un rapporto incestuoso con la sorellastra Augusta Leigh e i fondati sospetti sulla sua omosessualità ( nell’Inghilterra del primo Ottocento la pena per i “sodomiti” consiste nell’impiccagione preceduta da gogna).

Fa tappa a Ginevra, dove incontra l’amico Shelley con la fidanzata e la di lei sorellastra Claire, che mette subito incinta. La neonata, Allegra, viene chiusa in convento presso Ravenna, dove morirà giovanissima.

Nel 1817 Byron sbarca aVenezia: deve fermarsi pochi mesi, ma vi resterà tre anni. Qui naturalmente primeggia nell’egoismo erotico, impara l’armeno, l’italiano, il veneto, legge Pulci, Ariosto, e Boiardo, diventa un maestro nel poema eroicomico, scrive Il lamento di Tasso, un drammatico e appassionato canto d’amore per Eleonora d’Este, e i primi cinque  dei XVI canti del Don Juan, il suo capolavoro incompiuto.

La vendita della proprietà di Newstead  Abbey non lo libererà dai suoi problemi economici, ma soprattutto il senso di inappagamento che lo accompagnerà per tutta la vita.

Nel 1819 riceve la visita di Shelley, che lo trova trascurato, capelli lunghi e grigi, sciatto dedito a una sessualità sfrenata.

La sua vita cambia radicalmente quando si innamora della contessa  diciottenne  Teresa Guiccioli, moglie di un uomo ricco, il cui fratello lo convince ad entrare nella Carboneria.

Ramingo in varie città italiane, scrive senza tregua drammi e poesie:: Ravenna gli ispira l’appassionata Profezia di Dante, in cui fa esprimere all’autore della Commedia la propria visione sulla futura liberazione dell’Italia; a Pisa fonda un periodico politico-letterario, compone altri canti del Don Juan e lavora alla splendida traduzione del  Morgante Maggiore di Pulci.

Ma il naufragio di Shelly nella baia di Lerici lo indice a cercare il proprio naufragio.

Nel 1823 accetta la proposta della Commissione greca di Londra  di recarsi in Grecia per aiutare la guerra di indipendenza  contro i turchi. Parte entusiasta, cercando un epilogo che dia un senso al suo ossessivo ” bisogno di fatalità”. Forse sogna una fine gloriosa, ma muore di febbre reumatica, nel 1824, a Missolungi.

I greci lo piangono come un eroe della loro lotta.

Il suo corpo viene imbalsamato, il cuore sepolto a Missolungi .

La salma è tumulata nella cappella familiare di Newstead.

A domani

LL

Disegno in copertina:
The Heart machine
di Francesca Cortona

Spunto di lettura:

Poesia, Vite di poeti
Fondazione poesia Onlus
Testo scritto da Maria Franguli